lunedì 8 dicembre 2003

fondamentali:
Maria Rita Parsi, sull'amore...

La Repubblica 8.12.03
DALL´INFELICITÀ CHE COLPISCE SEI COPPIE SU DIECI

Maria Rita Parsi racconta storie di pazienti guariti
Amore, sbagliando s´impara elogio dell'imperfezione
Il riscatto di Cenerentole e Barbablù dalle sofferenze del cuore
Come affrontare i silenzi, i tormenti, gli abbandoni che ci fanno disperare
di MARIA NOVELLA DE LUCA


ROMA - C'è voglia di sapere e di imparare, perché la curiosità è tanta e l'errore è sempre lì, in agguato, a giocare a nascondino con la felicità. Parliamo d´amore, anzi di amori. Allegri, tristi, fedeli, infedeli, veri, finti, sognati, virtuali. Amori perfetti sì, ma anche imperfetti, se è vero che in Italia sei coppie su dieci ammettono di essere "malate di infelicità", e la causa di tanto soffrire sarebbe, secondo una recente inchiesta del mensile Riza Psicosomatica, la "mancanza di dialogo", ossia i silenzi, i non detti, quell'afasia del sentimento che colpisce come un virus anche i rapporti più saldi.
Si chiama appunto "Amori imperfetti" il nuovo libro della psicoterapeuta Maria Rita Parsi, in libreria dai prossimi giorni, una sorta di guida, di manuale, di viatico, per "imparare ad amare storia dopo storia". Ascoltando cioè le esperienze altrui, in questo caso lettere e testimonianze di pazienti che partendo magari da un errore, da una sconfitta, da una relazione finita male, da un matrimonio in crisi approdano poi, attraverso l'analisi ma non solo, ad una nuova dimensione di vita.
Capire quindi, imparare. Sembra esserci infatti una specie di richiesta universale di "parole d'amore", almeno a giudicare dalle classifiche di lettura di settimanali e magazine dove al primo posto tra le rubriche resiste la posta del cuore e le anticipazioni annunciano che in questo Natale altrimenti sobrio e austero, basteranno le parole amore, affetto, amicizia per far salire le vendite al cinema come in libreria.
Le storie.
Scrive Maria Rita Parsi: "L'amore si impara soltanto attraverso le storie d'amore. Anche quelle che ci confondono e ci fanno disperare. Anche quando sono illusione, delusione, tormento, negazione, abbandono". Così colpisce, nel capitolo "Conoscersi", la storia più piccola di tutte. Benedetta, otto anni, che scrive a Francesco. "Io ti amo. Tu mi ami? Sì, No, fai una crocetta". Ma poi c'è Patti, 40 anni, che racconta l'incontro con Giulio, un incontro tanto perfetto da sembrare finto, e infatti è finto, è soltanto un sogno, ma quante donne (e uomini) si fanno compagnia nella solitudine con storie inventate?
C'è invece il tormento vero, verissimo, di padre P.M., sacerdote che ha consacrato la propria vita a Dio e si trova a dover combattere contro il desiderio di eros, sesso, pornografia. Poi Ernesto, che dopo aver tradito per decenni la moglie non riesce a darsi pace quando lei se ne va, o Fabio che l'amore lo incontra via Internet. Cronache nelle quali sono contenuti pezzetti di vita comuni a molti.
Le fiabe
Il sottotitolo di questa sezione del libro potrebbe essere "Imparare giocando". Una serie di testimonianze dove il filo conduttore è una fiaba, perché queste sono "la trama e il tessuto delle nostre storie di vita e d´amore". Così ogni paziente per ripercorrere la propria esperienza si ispira ad una favola. Il gioco sembra riuscire. Basta mettersi lì e chiedersi: sono Pinocchio, Biancaneve, Cenerentola, Barbablù, la Bella Addormentata, la Principessa sul pisello, e non importa se un uomo si sente Cenerentola o una donna Barbablù. Il mito e l´archetipo, come ha spiegato Marie Louise Von Franz, psicanalista allieva di Jung, "non hanno sesso, sono universali". Poi le fiabe, come si sa, sono a lieto fine.
Comunicare, riflettere, ricercare.
Leggendo le lettere d'amore di persone sconosciute sembra a volte di violare un segreto, di rubare qualcosa. In effetti è così. Però si impara molto. Storia dopo storia, errore dopo errore. C'è Alessandra che scrive all´uomo che l'ha lasciata, incinta, convinto che lei avrebbe abortito. Invece Alessandra dice no, e quel bambino decide di tenerselo e da questo trae la forza di ricominciare. C'è Livia che scrive ad una madre famosa e bellissima da cui sente tradita. C'è Luigi che parla d'amore per esorcizzare la paura della morte.
C'è ancora, ed è un diario che commuove, Anna che scrive al figlio che porta dentro di sé, e mese dopo mese noi seguiamo il cammino di Ennio, riconoscendoci in tutte quelle capriole del sentimento che l´arrivo di un figlio provoca in una madre e nella coppia. Un amore perfetto sì, ma anche nello stesso tempo, terribilmente imperfetto. «Insieme - scrive Anna - siamo piccoli e grandi, e ci impegneremo perché il futuro attende un piccolo grande bimbo e una piccola grande donna. Ambedue desiderosi di essere amati e di amare».

Don Delillo: i sogni e il cinema

una segnalazione di Sergio Grom

La Repubblica 7.12.03
ROMA Quell'attrice della Dolce Vita e i ricordi che mi portano a lei

Una passeggiata a Via Condotti, un film di Fellini e la memoria riannoda i suoi fili Lo scrittore racconta come a distanza di anni riaffiorino momenti particolari La struttura dei nostri sogni, isolata dal mondo, ha il suo equivalente nel cinema Il volto della donna è andato perduto, dissolto da qualche parte della memoria Ci sono stelle del cinema che spariscono contestualmente al loro emergere
di DON DELILLO


L'attrice aveva l'aria allegra il che ci mise allegria. Si addiceva a questa città, dagli accenti felliniani, l´apparizione di una donna simile, come pure a questa strada, delimitata da negozi ultraeleganti e dal venerabile Caffè Greco, coi salottini decorati dagli autoritratti degli illustri e famosi.
A distanza di tanti anni quel momento è riemerso. Vedo la strada nella tarda mattinata, ricordo con chiarezza i tozzi montanti di ferro con catene di sbarramento per tener lontano il traffico automobilistico. C'è la scalinata di Piazza di Spagna nei pressi, con allineate file di azalee e circa trecento persone, in maggioranza giovani, che oziano animatamente al sole. Mi rendo conto però di non essere più certo, a questo livello di distacco, di chi fosse la stella del cinema.
La constatazione ha l'effetto di uno shock su un individuo che sa stupire i vecchi amici con resoconti dettagliati di momenti minori tratti da un'adolescenza che già si è tinta seppia. Il ricordo assume ricorrenza periodica. Ho un nome in mente. Cerco di collocare il ricordo della donna all'interno dell'immagine fluttuante generata dal nome. Perché mi preme? Mi preme perché è successo. Mi preme perché lei era felice e noi felici di vederla. Vengono verso di noi, tre figure allacciate per le braccia e l'impressione in retrospettiva è che stiano fluttuando appena sopra la strada, e l'idea suggerita è che uno di loro abbia appena detto qualcosa che gli altri hanno trovato simpatico. Ma lei, la donna, non è più definita, velata da quale che sia il processo che altera un avvenimento nella memoria a lungo termine rendendolo una sorta di traduzione dall'originale. Qualcosa è andato perduto, il suo volto è andato perduto, dissolto da qualche parte nella proteina spugnosa della mia corteccia cerebrale.
«Ricordi l'attrice? Quella volta a Roma» dico, e aggiungo qualche elemento di cronologia generale per rendere lo scenario. «Un uomo ad un braccio, uno all´altro. Era Anita Ekberg, giusto?» Mia moglie dice sì, Anita Ekberg, e descrive la mise che indossava producendosi sicura in qualche preciso dettaglio sul materiale e sul colore. Ma io non sono altrettanto sicuro dell´identità dell'attrice. Avrebbe dovuto essere Anita Ekberg, considerando la città e lo spettacolo da tabloid della sua presenza ne "La Dolce Vita". Mia moglie dice di sì. Ma io non sono certo che ne sia convinta.
È marzo. Ovunque, è della guerra che si parla. Il ricordo viene e va. Qual è il punto in tutto questo? Una donna in una strada romana e il fragile passato che il suo nome può richiamare alla mente - sei o sette film, vari mariti obliabili? Ci deve essere di più. Ogni ricordo che abbiamo è, in fin dei conti, di noi stessi. Se il ricordo di un'esperienza è incrinato, si apre una crepa nella continuità dell´io. Vedo l´uomo alla sua sinistra, o lo immagino, forse lo riformulo - capelli rasati e la barba di una settimana sul punto di coincidere con il residuo sul suo capo. Ci impoveriamo ad ogni ricordo svuotato.
Quando l'eroe del romanzo di Walter Percy. L'uomo che andava al cinema vede William Holden per strada a New Orleans, osserva che l´attore «emana luce al suo passaggio». E aggiunge: «Un'aura di più intensa realtà lo accompagna e tutti coloro che si trovano nel suo raggio la avvertono». Come ho fatto a tradire una simile realtà? Avverto il guizzo di un piccolo senso di colpa. L'attrice che vidi non sarà stata forse un personaggio solido quanto Holden o un certo numero delle sue colleghe donne, ma ha un peso, con gli stivali al ginocchio, il lieve ondeggiare dei fianchi. Ci sono stelle del cinema che forniscono determinati ingredienti in proporzioni fisse. Sono prodotti iconici del momento. Spariscono contestualmente al proprio emergere. Hanno un passato - una documentazione filmata della loro fugace incandescenza - ma nessun arco di vita discernibile al di là di questo. Gli attori di teatro molto noti si ritirano a vita privata. Dove vanno a finire le stelle del cinema, quelle i cui nomi e i cui volti sono caduti dal tempo? Chi diventano quando noi li dimentichiamo? Sembra anche a loro di essere spariti?
Lascio cadere la cosa, poi torno a pensarci. La guerra sta rombando verso Bagdad. Quando ci ripenso c'è un elemento correttivo che fluttua sullo sfondo. Forse l'associazione non è Fellini, rifletto.È James Bond che mi viene in mente. Non so il motivo per cui questo accada, e subito me ne dimentico. È uno di una serie di pensieri randagi, forse qualche dozzina nel corso di mezzo minuto di vita. Il tempo passa. C'è l'enorme zuppa non mescolata della vita e dei pensieri quotidiani, i sogni che tormentano il risveglio, le telefonate di telemarketing di criminali dichiarati che leggono copioni, i volti nella sala d'attesa dello studio medico. Ad un certo punto mi sovviene che forse James Bond è un'idea che vale la pena di seguire, un'impennata di consapevolezza. Ma non le do seguito.
Perché dovrei? Perché ha importanza, perché è accaduto. Penso una o due volte ad un manuale specifico sullo scaffale accanto alle videocassette. C'entra perché i film c'entrano. La struttura dei nostri sogni e ricordi, isolata dal mondo, ha il suo equivalente comunitario nel cinema. Quando immaginiamo un momento in un qualche luogo - una striscia di spiaggia argentea in un posto in cui non siamo mai stati - o quando ci svegliamo in un bagno di sudore da un sogno che ricordiamo solo a metà, o quando ci vengono alla mente ricordi a frammenti, con brusche transizioni, ci troviamo in un tempo e in uno spazio soggettivo, preda dei meccanismi propri della mente, e il momento non è dissimile dal ritmo di un film, montato in spezzoni, brevi sequenze, segmenti di esperienza che rappresentano una deviazione radicale dal fluire ininterrotto del mondo che ci circonda. Il montatore Walter Murch osserva che «uno dei motori segreti che consente al cinema di funzionare e di esercitare su di noi il meraviglioso potere che esercita, è il fatto che per migliaia di anni abbiamo passato otto ore ogni notte in uno stato onirico «cinematico» e abbiamo quindi confidenza con questa versione della «realtà».
Ho un amico che è capace di telefonarmi e chiedermi, senza preamboli, «Chi è l'attrice di Gummo apparsa in un film precedente di cui era anche voce narrante e non dirmi Sissy Spacek perché mi fai star male».
Dico «Linda Manz» e attacco.
Dietro questo futile passatempo c'è il riconoscimento di come i film possano dar forma ad uno strato di memoria introducendoci in un passato condiviso, talvolta finto, simile ad un sogno, infantile, ma un passato che tutti accettiamo di abitare. Ci sono altri vivai di ricordi, come il baseball, ovviamente, ricco di matura sapienza di nomi, date, e arcane statistiche. Ma nei film è l'immagine, che nel modo più straordinario si fissa, talvolta un viso o un gesto, talvolta una scena isolata. Chi ha memorizzato l'attimo di frenesia in Sciopero di Eisenstein quando i poliziotti spronano i cavalli su per le scale e attraverso le balconate e i corridoi di un complesso di case popolari. Siamo diciassette persone in tutto il mondo o innumerevoli migliaia? Ricordate di sicuro l'atmosfera inquietante della scena di Shining in cui il bambino pedala in triciclo per i corridoi dell'hotel deserto seguito da una telecamera su ruote. Ma che dire dello spezzone del bel film di Claire Denis Beau Travail in cui spunta un pastore di capre che lancia una pietra contro la troupe? Non abbiamo modo di sapere con chi condividiamo il ricordo di queste immagini sparse. Immaginate un immenso cervello globale che germoglia senza trattamenti chimici nel deserto dell´Arizona, - ma è in esteso un film di fantascienza anni '50 .
Non importa. Ho la vaga impressione che il manuale pigiato tra le videocassette includa un indice ordinato non solo per attori e registi, ma anche per argomenti generali. Ma dove sono quando penso questa cosa? Non so. Sto passando il tesserino magnetico della metropolitana nel lettore di un tornello da qualche parte sotto la ventottesima strada. Dimentico l´intera faccenda. Quando torno a pensarci mi sforzo di far quadrare la futile imbecillità dell´impresa con il fatto che continui ad avere importanza per me. L'uomo alla sinistra di lei ha un volto, una personalità. Non vedo affatto l'uomo alla sua destra, benché in qualche modo sia partecipe del generale stato di benessere.
A Roma tre milioni di persone hanno manifestato contro la guerra. Penso ad uno degli ultimi film di Fellini, in cui Anita Ekberg interpreta se stessa e, per un istante, in preda a un lieve panico, non riesco a ricordarne il titolo. Poi eccolo, "Intervista" ed ecco lei, sullo schermo, avvolta in enormi teli arancioni. Ha una casa di campagna e grossi cani che le saltano intorno, somiglia ad una vigile guardiana di ancelle nordiche, quelle che condurranno le anime dei morti di morte violenta nel Valhalla. I suoi ospiti sono Fellini in persona, Mastroianni in persona e, al posto dei paparazzi, una troupe cinematografica proveniente dal Giappone. I protagonisti si abbracciano e si abbandonano ai ricordi. Fellini la contempla e la definisce «epica». Poi tutti insieme guardano uno spezzone tratto da La dolce vita e io con loro, sentendo tempo e vite inchinarsi. Ma Anita Ekberg sembra sempre meno la donna di quel giorno a Roma.
Chiamerà il mio amico e mi dirà «Voglio il nome dell'altro uomo in Appaloosa.
Io dirò: «John Saxon» capendo subito che si riferisce all'attore dai singolari lineamenti che interpreta il ruolo antagonista di Brando.
Ma non so il nome della donna di Via Condotti. Va bene. Prendo il manuale e scorro l'indice. Argomenti generali, lettera «b». Buddismo, Buddy movies (storie di cameratismo maschile ndt.), Bob. Eccolo qui, tanto semplice - James Bond. Il primo film dell´elenco è «Casino Royale, non un vero e proprio film di Bond, ma una parodia. Non l´ho visto, ma intuisco un collegamento. È questo il percorso della ricerca illuminata. Ho la sensazione che sia giusto. Trovo la recensione, in ordine alfabetico, e mi basta uno sguardo alla lista degli interpreti. Eccola, Ursula Andress, come ho fatto a non capirlo?
Voi lo avete capito prima di me. Come ho fatto a dimenticarla? E da dove è uscita la connessione a James Bond, a distanza di decenni? Il secondo interrogativo trova risposta. Bond è tutto ciò che è rimasto di lei nei meandri della memoria, un dettaglio riferito alla carriera emerso in risposta alle mie riflessioni distratte. Ho visto solo un paio di film di Bond e le non c'era, ma questo non ha, ovviamente, importanza. Il collegamento c'era, un minuscolo giunto nella nostra pandemia di riproduzione, che copia e trasmette qualunque cosa sia presente nell'aria culturale - rumori, immagini, reificazioni e sintassi disintegrante.
«Ricordi l´attrice di cui abbiamo parlato qualche tempo fa. Quella che ci eravamo messi in testa fosse Anita Ekberg. A Roma, quella volta. Alla fine ho capito...» Mia moglie alza una mano, all´improvviso. Il gesto ha due livelli di significato. Mi invita, innanzitutto, a tacere per lasciarle modo di pensare. Trasmette anche un messaggio di imminente finalità - l'azione che prefigura l'espressione, perché il nome sta sorgendo attraverso le tenebre della memoria, in mezzo alle fluttuazioni ritmiche del potenziale elettrico del suo cervello, a pochi secondi dall'alzata di mano.
Ursula Andress.
Siamo di nuovo felici, non come quando vedemmo l'attrice avanzare decisa in via Condotti, ma felici, tuttavia, per noi e per lei.
Meno di una settimana dopo, si dà il caso che io faccia un'altra scoperta tardiva, strettamente collegata, che questa volta mi indirizza al Guggenheim Museum a vedere "Cremaster 5", l'ultimo film del recente ciclo ad opera di Matthew Barney, e lei è lì, naturalmente, sullo schermo, nel ruolo della Regina delle Catene, in lungo, con ruches, affiancata da una coppia di servitori effeminati e accompagnata dal Mago, dal Gigante e dalla Diva in una trama operistica che include spiriti acquatici e un certo numero di piccioni dalle creste sontuose con strascico di nastri di satin.
Più vicina a Fellini, dopo tutto, che a James Bond.

(Copyright da "The New Yorker", traduzione di Emilia Benghi)