domenica 24 ottobre 2004

sul domenicale del Sole del 24 ottobre

Il Sole-24 Ore Domenica 24 Ottobre 2004

pagina 34
FISICA QUANTISTICA
La luce e il gatto di Schrödinger
Su «Science» un esperimento eccezionale su dualismo onda-particella firmato da tre giovani ricercatori italiani
di Marco Bettini
(dell'Istituto Nazionale Ottica Applicata, Firenze)

pagina 35
STORIA DELLE IDEE
Psichiatri sull'orlo di una crisi di nervi
Il punto sulla psicopatologia a partire da casi di malati che guardano la loro vita dal di fuori
di Paolo Rossi
(Giovanni Stanghellini, «Disembodied spirits and deanimated bodies: the psychopathology of common sense», Oxford University Press, 2004, pagg. 226, £ 29,95)

pagina 39
GRANDI MOSTRE / NAPOLI
La tragedia dell'ultimo Caravaggio
Nel 1606 il Merisi uccide un uomo ed è braccato dalla giustizia. Inizia un'angosciosa fuga che dura quattro anni, nei quali il pittore dipinge opere terribilmente drammatiche. Ora riunite al Museo di Capodimonte
di Marco Bona Castellotti

(«Caravaggio, l'ultimo tempo 1606-1610», Napoli, Museo di Capodimonte, fino al 23 gennaio 2005. Catalogo Electa Napoli)

Barbara Spinelli
integralismi

La Stampa 24.10.04
LEGGERE LOLITA A STRASBURGO
Barbara Spinelli

SICCOME non viviamo fuori dalla storia né dal mondo, è alla luce di quel che accade e che muta intorno a noi che conviene meditare sullo scontro in corso tra Parlamento europeo e Buttiglione, scelto dai governi dell'Unione e dal presidente dell'esecutivo Barroso come commissario incaricato delle libertà, della sicurezza e degli interni. Quel che accade intorno a noi, non solo in Italia ma nel mondo, è l'importanza sempre più grande e invasiva che sta assumendo la fede religiosa nella formulazione delle politiche interne e mondiali.
Questo è senz'altro vero per gli integralismi musulmani, ma lo è anche per una religione - il cristianesimo - che nel Vangelo ma anche nella storia europea ha rivelato di essere il monoteismo più propenso alla separazione tra politica e fede, tra quel che appartiene a Cesare e a Dio. Il ministro della Giustizia John Ashcroft è convinto che per tre anni, dall'11 settembre, la nazione Usa è stata «benedetta», e che «la mano della Provvidenza è stata assistita nella guerra contro il male dai devoti dell'amministrazione Bush». Bush stesso sostiene di essersi candidato alla presidenza, anni fa, perché Cristo in persona gli «affidò una speciale missione».
La guerra militare contro il terrore è fatta dai neoconservatori per esportare un bene - la democrazia - che il Capo di Stato Usa considera «donato direttamente agli uomini da Dio», tramite il suo braccio secolare che è l'America. Questo scontro di civiltà religiose, che il terrorismo islamico ha imposto per primo ma che la potenza guida dell'Occidente e i suoi assertori hanno fatto proprio con zelo neo-fondamentalista, è il clima in cui bisogna collocare, purtroppo, la vicenda Buttiglione. Quel che non accettiamo da certi regimi musulmani (l'ingerenza nelle scelte sessuali intime, il rifiuto dell'uguaglianza delle donne, la religione mai lasciata fuori dalla porta della res publica: altrettante scelte integraliste così ben descritte nel romanzo «Lolita a Teheran», di Azar Nafisi) non dovrebbe oggi essere un cavallo di battaglia del cristianesimo occidentale, a me pare. Il premier turco Erdogan che avesse detto parole somiglianti a quelle di Buttiglione non sarebbe giudicato idoneo, allo stato attuale, a entrare nell'Unione europea.
Non diversamente dall'America degli evangelicali, ci sono politici in Europa che si propongono di tradurre in leggi alcuni inflessibili articoli di fede sulle scelte di costume. Il momento in cui sono interrogati, dai parlamentari verso cui son responsabili, è quello in cui le loro intenzioni vengono vagliate alla luce di quel che faranno nelle vesti di legislatore che tutela credenti e non credenti.
Il presidente della Commissione parlamentare che ha censurato Buttiglione, il giscardiano Jean-Louis Bourlanges, è stato chiaro dopo la bocciatura del 6 ottobre.Ha detto che «in causa non era la fede personale di Buttiglione» (fede a suo parere più che legittima), ma quel che Buttiglione aveva già fatto in Europa: «Non è la sua dichiarazione sull'omosessualità (da Buttiglione definita "un peccato" di fronte ai parlamentari europei) ad aver creato i veri problemi - questo ha detto Bourlanges in un'intervista - ma il fatto che quando rappresentava il governo italiano nella convenzione incaricata del progetto di costituzione europea, Buttiglione propose un emendamento inteso a eliminare l'orientamento sessuale dalla lista delle discriminazioni proibite nello spazio dell'Unione». Emendamento che fu rifiutato, tanto che ora - nell'articolo 21,1 della Carta europea dei diritti (e la Carta è giuridicamente vincolante, nella costituzione che i governi approveranno il 29 ottobre a Roma), è scritto: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali».
Non è vero dunque, secondo Bourlanges, che i deputati europei non son capaci di distinguere tra libertà di convinzione e diritto, tra credenza personale e operato politico. Ma «avendo riversato le sue convinzioni sull'omosessualità - di per sé onorevoli, secondo Bourlanges - in una pratica politica», Buttiglione è stato valutato in chiave politica.
Buttiglione non era chiamato infatti a giudicare secondo coscienza leggi già promulgate (il politico cattolico può contestarle, pur dovendo garantirne il rispetto) ma a esporre le sue propensioni in quanto legislatore futuro, in un'Europa dove non tutti son cristiani, non tutti son eterosessuali, e non tutti i cristiani la pensano allo stesso modo. È qui che il confine tra credenza privata e comportamento pubblico rischia d'essere violato. E non importa che il credo di Buttiglione sugli omosessuali sia eventualmente condiviso da ampie maggioranze: ci sono diritti (quelli garantiti dalla Carta dei diritti ma non quello di abortire più o meno facilmente) che dovrebbero valere anche quando ci son maggioranze desiderose di smantellarli.
A questo punto si pongono tre questioni. La prima attiene all'etica personale, la seconda è costituzionale europea, la terza è storico-politica, e riguarda il peso che la memoria del passato dovrebbe o non dovrebbe avere non solo sull'agire politico, ma sulle credenze stesse degli europei occidentali.
Il problema etico personale è stato sollevato, in Italia, da politici e intellettuali che denunciano il pregiudizio anticattolico che regnerebbe nell'Unione. Si è parlato di «dogma del politicamente corretto», che impedirebbe di esprimere opinioni morali su omosessuali o parità della donna. Buttiglione ha lamentato l'«odio» che lo colpirebbe, e l'esistenza di una ricattatoria «nuova ortodossia accompagnata a una nuova inquisizione, questa volta anticristiana». Queste accuse non hanno senso, perché i parlamentari non hanno condannato una fede: hanno espresso, proprio come Buttiglione, una valutazione politica. Si sono domandati quali riflessi su Buttiglione commissario-legislatore avranno le sue convinzioni etiche. Inoltre per un filosofo e storico della Chiesa è veramente fuori posto se non blasfemo, comparare l'Inquisizione con i giudizi (non mortiferi) espressi dal Parlamento europeo.
Il problema costituzionale riguarda il diritto del Parlamento europeo a bocciare un commissario, ed eventualmente l'intera commissione (anche perché son almeno 5, i commissari ritenuti incapaci o eticamente non ineccepibili). Mi sembra completamente fuori luogo parlare di «crisi istituzionale senza precedenti», in caso di censura dell'esecutivo Barroso, e di turbativa che guasterebbe le cerimonie romane del 29 ottobre, quando i governi approveranno la costituzione europea. La bocciatura di un governo da parte del Parlamento è cosa affatto normale in uno Stato, e solo chi s'oppone a un'Unione politica considera disastroso che la stessa procedura diventi normale anche nei rapporti Commissione-Parlamento europeo (salvo poi giudicare la Commissione una burocrazia senza legittimazione democratica). Ancor più grave è che Barroso e Buttiglione (parlando sulla Stampa a Amedeo La Mattina), chiamino i governi a far pressione sui gruppi parlamentari europei. La commissione è un organo federale che risponde davanti a deputati eletti direttamente dai popoli europei, non davanti agli Stati. La verità, forse, è che molti governi temono una prova di forza Commissione-Parlamento europeo, perché essa dimostrerebbe in maniera spettacolare (e per niente negativa, oltre che raddrizzabile) i poteri dell'assemblea sovrannazionale.
La terza questione è storico-morale. È vero, credere che l'omosessualità sia un peccato (vocabolo gravoso per i religiosi, che si paga con punizioni o Inferno) è un credo non censurabile in democrazia. Ma c'è qualcosa di più nella parola usata, e non basta ammettere - come Buttiglione nella lettera di ritrattazione a Barroso - che essa suscita «emotività». È qualcosa che con il cristianesimo ha poco a che vedere (non c'è condanna degli omosessuali nel verbo di Gesù, e l'omosessualità è equiparata a sodomia solo nell'XI secolo). Ed è qualcosa che occorre esaminare alla luce non solo della storia che ci è contemporanea, ma della storia europea del Novecento.
Per esser precisi: non si può fare a meno di ricordare che gli omosessuali, accanto a ebrei e zingari, erano considerati dal nazifascismo alla stregua di genia suscettibile di infettare la pura e prolifica razza ariana, e dunque da eliminare. Lo ricordano lapidi al campo di Sachsenhausen, dove finirono e morirono centinaia di omosessuali, e lo ricorda un monumento in Italia, a Bologna, presso i giardini di Villa Cassarini di fronte a Porta Saragozza. Gli omosessuali erano accusati sulla base del paragrafo 175 del codice penale nazista (28-6-1935) di atti licenziosi e lascivi tali da «distruggere - sono le parole di un discorso segreto di Himmler, nel '37 - la purezza e la continuità biologico-razziale del popolo tedesco». Durante il nazismo centomila di essi circa furono arrestati. Alcuni furono incarcerati, altri internati, indicibilmente seviziati come cavie, uccisi. Alla fine della guerra, ne erano sopravvissuti 4000.
Coloro che son onorati come martiri nei monumenti diventano oggetto di tabù, perché sulla memoria storica e sugli interdetti si è voluta costruire una società non disumana. E il tabù mette in evidenza come la discriminazione precedente il martirio sia una cosa, la discriminazione dopo il martirio un'altra, radicalmente diversa. Questo vale per il monumento Yad Vashem, a Gerusalemme, come per i monumenti di Sachsenhausen e Bologna evocanti coloro che, perché omosessuali, dovevano cucire sulla casacca il triangolo rosa. Come dobbiamo innalzare tabù sull'antisemitismo, così dobbiamo innalzarli anche su zingari e «triangoli rosa». Non possiamo dire che gli attacchi antiebraici di Dostoevskij sono improponibili dopo la Shoah, e quelli contro gli omosessuali no. Non possiamo rispettare i tabù sull'antisemitismo, e affermare che la critica contro la discriminazione degli omosessuali è invece un dogma anticristiano del politicamente corretto. Un poeta può forse: la letteratura osa l'indicibile. Un politico non può.
Lo stesso articolo di fede della Chiesa sugli omosessuali andrà forse rivisto in Europa e America (e secondo me lo sarà) così come son stati corretti alla luce dei crimini passati il pregiudizio anti-giudaico, le crociate, le conversioni forzate, la schiavitù dei negri. Sennò bisogna dire che anche il rifiuto dell'antisemitismo - o il rifiuto di criminalizzare zingari, malati mentali, slavi - è in fondo un dogma politicamente corretto, un'ortodossia che gli antidogmatici possono abbattere. Nessun democratico, immagino, vorrà cadere in sì grande contraddizione, e dimenticare la storia da cui gli Europei vengono, e che ha fondato e fonda ancor oggi la loro unità.

nuovi scavi archeologici in Cina

ansa.it 24/10/2004 - 14:18
Archeologia: Cina, ricerche su misteriosa civiltà bianca
Cominciati scavi in un migliaio di tombe scoperte nel 1934

(ANSA) -PECHINO, 24 OTT- Cominciati gli scavi in tombe di 4mila anni fa nel nordovest della Cina, fulcro, sembra, di una misteriosa civilta' di uomini forse bianchi. Lo riferisce l'agenzia Nuova Cina. Le tombe, scoperte nel 1934 da un esploratore svedese, sarebbero un migliaio. Le ricerche che si svolgono a Xiaohe, vicino al deserto di Lop Nur, potrebbero risolvere un enigma dell'archeologia che parla dell'esistenza di una cultura isolata a migliaia di chilometri da ogni altra comunita' bianca.
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storia delle donne
tre streghe nel Ponente ligure

Corriere della Sera 24.10.04
CULTURA
Un’indagine di Stefano Moriggi racconta le persecuzioni in Italia prima di Salem e di Loudun
in un intreccio all’italiana

Lo strano caso delle streghe che evitarono il rogo
una recensione di Giulio Giorello

La storia
Il libro di Stefano Moriggi, «Le tre bocche di Cerbero» (edito direttamente nei Tascabili Bompiani) indaga uno dei casi più affascinanti, misteriosi e feroci di stregoneria avvenuti in Italia, e più precisamente a Triora, piccolo borgo del Ponente ligure tra il 1587 e il 1589. Moriggi cerca di ricostruire che cosa si nascose dietro la misteriosa scomparsa delle donne accusate di stregoneria, torturate dall’Inquisizione e infine deportate da Triora.
«La vigilia del 24 giugno, giorno in cui ricorre la festa di San Giovanni Battista, compatrono di Triora, riaccendono ogni anno, a notte iniziata, dei fuochi di fascine di legna detti falò nell’interno dell’abitato di Triora e paesi circonvicini e sul colle antistante alla chiesa di S. Zane (da Zuane, uguale Giovanni) sul Monte Ceppo». Così leggo ne Le streghe e l’Inquisizione di Francesco Ferraironi (un classico, 1955, di storia della stregoneria) cui attinge anche Stefano Moriggi in questo Le tre bocche di Cerbero. Poiché si tratta del Ponente ligure, zona geografica che mi è abbastanza nota (la famiglia di mio padre era dell’alta Val Bormida), mi ha richiamato i falò della mia infanzia che costellavano le colline, quasi a voler rompere il buio notturno e a regalare ancora frammenti dello splendore di quei giorni che sono tra i più lunghi dell’anno. Il buon reverendo Ferraironi scrupolosamente aggiungeva che tutti quei fuochi «che si accendono in Liguria per la festa di San Giovanni non hanno alcuna relazione con la stregoneria», in quanto si limitano a esprimere «gioia popolare»! Il che mi riconforta, perché debitamente aiutato e/o sorvegliato da mio nonno e da mio padre, da ragazzino ne accendevo uno anch’io in un campo della nostra casa di campagna - e mi spiacerebbe passare (insieme con babbo Carlo e nonno Giulio) per uno che fa parte di una qualche «ribalda» setta di stregoni. Comunque, Triora ha davvero conosciuto la sua caccia alle streghe nel terribile triennio 1587-1589. Superstizioni, accuse, furori popolari, timori dei maggiorenti (quando vi videro coinvolte le loro «matrone») e soprattutto accanimento persecutorio da parte di magistrati «laici» che solo l’intervento dell’Inquisizione romana riuscì alla fine a «moderare». Un caso molto europeo (e tutto italiano) che solo per avventura (e magari per tirchieria) non si concluse con le fiamme dei roghi. Il libro di Stefano Moriggi non solo ricostruisce le modalità dei processi, ma cerca di gettare qualche luce sulla misteriosa scomparsa delle donne accusate, torturate e infine deportate da quell’antico borgo dell’alta Valle Argentina. È l’occasione per scandagliare gli inizi della nostra modernità e i tratti peculiari della cultura del nostro Paese - all’apparenza così devoto, di fatto così sensibile all’utilità del Male. (Ma non vogliamo svelare qui l’intrigo politico e i nomi dei veri colpevoli). Come scrive lo stesso autore: «Nella pavimentazione della piazza centrale di Triora, davanti alla chiesa parrocchiale, spicca lo stemma civico: Cerbero, il favoloso cane a tre teste e quindi a tre bocche, latinamente tria ora». Un nome, un destino? Stefano Moriggi è una sorta di Candide postilluministico che non si fida troppo dei fanatici (i magistrati, laici o religiosi che siano, che assurgono a deuteragonisti del suo racconto); che contro di loro fa propria l’ammonizione dell’illuminato gesuita Friedrich von Spee (1631: «Chi poi si sentisse ardere di indignazione contro il delitto di stregoneria tenti di controllarsi un poco e unisca a sì gran zelo razionalità e ponderazione»); che non ama l’evocazione né di un Dio né di un Diavolo «tappabuchi», come non la amavano Hume o Voltaire; che non esita a ricorrere alla critica filosofica di Ludwig Feuerbach quando vuol mostrare che tralasciare la componente diabolica finisce col «mutilare violentemente» il Cristianesimo stesso; che nello smontare l’ideologia sottostante della caccia alle streghe si serve dei sofisticati strumenti dell’epistemologia contemporanea; che ricorre alla teoria dei memi di un naturalista come Richard Dawkins per contenere gli effetti di una lettura troppo relativistica della faccenda... Ma che infine tempera alcune delle sue considerazioni più speculative con il riferimento al suo Papa preferito, quel Paolo VI che, con la sua audace ammonizione circa la presenza del Demonio, non aveva avuto esitazione a sfidare il senso comune di laici e cattolici troppo «secolarizzati».
Alcune delle ricostruzioni di necessità congetturali che l’autore propone in questo Le tre bocche di Cerbero, e forse non poche delle sue tesi circa il ruolo svolto dal Maligno nella formazione della moderna coscienza europea potranno sembrare incompiute o addirittura appena abbozzate. E ciò non solo perché ogni autentica ricerca è interminabile; e nemmeno, nella specifica questione di Triora, per la non disponibilità di molte fonti dirette o altro prezioso materiale, ma proprio per il carattere intrinsecamente ambiguo di quell’Aleph dello spazio-tempo della geografia italica che viene normalmente etichettato come la caccia alle streghe trioresi. Stefano Moriggi ha il dono della chiarezza e della piacevolezza di stile - due doti essenziali per non lasciarsi risucchiare dal fascino perverso di quelle alture, dove, stando alla leggenda, il cane infernale avrebbe fatto cadere la sua bava affinché potessero germogliare i fiori della trasgressione.
Il testo qui pubblicato è una parte della postfazione che Giulio Giorello ha scritto per il libro di Stefano Moriggi, «Le tre bocche di Cerbero. Il caso di Triora: le streghe prima di Loudun e di Salem», Tascabili Bompiani, pagine 224, 7,50, in libreria da mercoledì 27 ottobre
© Corriere della Sera

cultura islamica in Puglia

Repubblica edizione di Bari 24.10.04
Emirati, minareti e fortezze
"Qui una convivenza esemplare"
Medioevo da mille e una notte le tracce dell´Islam in Puglia
VITO BIANCHI

Federico II, Al-inbiratur, aveva trascorso la fanciullezza alla corte di Palermo. Arabi erano stati i suoi precettori. Araba la lingua che aveva orecchiato nelle stanze delle cancellerie. Araba la matrice delle favole ascoltate: col Kitab Kalila wa Dimna s´era sgranato agli occhi del principino tutto un fantastico mondo di cose mirabili e animali parlanti. Per le sale del Palazzo Reale, il piccolo re s´era poi edotto ai Conforti politici che Ibn Zafer, arabo di Sicilia, aveva composto nel XII secolo. E per i cortili e i giardini palermitani il fanciullo era cresciuto nel vivace cosmopolitismo post-normanno. L´eclettismo culturale assorbito nell´infanzia sarà un bagaglio che lo stupor mundi porterà sempre con sé e lo renderà sensibile non tanto all´Islam-religione, quanto all´Islam-pensiero, al fascino di un patrimonio che per spirito di sperimentazione e metodo d´indagine sopravanzava l´Europa cristiana. Filo-islamismo? Non del tutto: dal 1222 al 1233, e ancora oltre, Federico II condusse contro i Saraceni di Sicilia un´operazione di polizia che si risolse in un bagno di sangue.
I sopravvissuti furono deportati in Puglia, a Stornara, Girofalco o Castelluccio dei Sauri. E soprattutto a Lucera, civitas sarracenorum. Al tempo di Manfredi è inoltre ricordata un´ambasciata di Ibn Wasil (un erudito), in cui si narra dell´esistenza, nell´abitato lucerino, di una "Casa della scienza", dove si coltivavano le dottrine speculative, sulla falsariga degli istituti scientifici della Baghdad abbaside e del Cairo fatimide.
Prima di Federico II la componente musulmana non era estranea al territorio, tutt´altro: la stessa realizzazione del castello di Bari, nel 1132, fu demandata da re Ruggero II a costruttori saraceni. Senza parlare dell´instaurazione dell´emirato di Bari (847-871), menzionato da quell´al-Baladhuri che visse alla corte di Bagdad nel IX secolo. Secondo una tradizione locale, fu proprio in quel frangente che vennero traslate le ossa di San Sabino (l´altro protettore cittadino, insieme a San Nicola) da Canosa a Bari. Fu allora che l´emiro barese Sawdan, pianse il giorno in cui vide il dotto ebreo Abu Aaron, per sei mesi suo prezioso consigliere, lasciare la corte per tornare in Oriente. E sempre a quel periodo diversi studiosi hanno addebitato l´origine delle fortune commerciali di Bari. Durante l´emirato, non un tumulto, non una rivolta, non una protesta si levò da parte della popolazione locale, diversamente da quanto accadde con Longobardi, Bizantini e Normanni.
Nel Medioevo un governo di matrice islamica pareva essere più conveniente per tutti, anche per ebrei e cristiani erano sì sottoposti a una tassa di religione. Ma rientravano in tal modo nella fascia dei "dhimmi", i protetti. Anche a Taranto, fra l´840 e l´880, prosperò una base saracena, probabile emirato. Si è spesso affermato che, in Puglia, la presenza di tracce della cultura islamica, al di là della ricorrenza nei cognomi (come il diffusissimo Morabito, da al-murabitun) o nel dialetto (in barese il denaro è ancora detto tarnìse, da tarì, la moneta araba fresca di conio), non sia percepibile. Ma basta uno sguardo al portale dei Santi Niccolò e Cataldo a Lecce, alla Cattedra di Ursone nel duomo di Canosa o all´Archivolto del portale del Duomo di Trani o all´assetto urbanistico di molti piccoli centri per convincersi del contrario. Ancora fra Ottocento e Novecento, nel Salento, sorgeranno dimore signorili ispirate ai profumi d´Oriente: villa Sticchi a Santa Cesarea Terme, o villa De Francesco, a Santa Maria di Leuca, architetture che componevano ambienti da "Mille e una notte". Più perspicua è la costruzione del sontuoso minareto di Selva di Fasano, voluto da un pittore barese, Damaso Bianchi, con maestranze e materiali fatti arrivare dalla Tunisia e dalla Libia.

sinistra
Alberto Asor Rosa

il manifesto 23.10.04
SINISTRA
Un punto d'incontro
ALBERTO ASOR ROSA

Partito il 14 luglio con un mio articolo, che non aveva (davvero) nessun'intenzione di aprire una discussione; proseguito nei due mesi o poco più che ci separano da quella data con una trentina di interventi, alcuni dei quali molto autorevoli (segretari di partito ed esponenti di varie frazioni politiche, importanti dirigenti sindacali e intellettuali di grido): il dibattito svoltosi sul manifesto sulle forme di una possibile, diversa unità della sinistra italiana si potrebbe definire un successo. Io ne ho avvertito soprattutto i limiti. Constato ad esempio che non è intervenuta nessun'esponente dei gruppi e movimenti femminili e/o femministi. Non sono intervenuti neanche i rappresentanti del cosiddetto «correntone», forse risucchiati nel gioco interno Ds. Non sono intervenuti (salvo un'eccezione) neanche i verdi: pensano che le tematiche ambientalistiche siano ancora autosufficienti? Non sono intervenuti neanche gli esponenti del riformismo moderato: forse pensano che non sia affar loro l'eventuale costituzione di un raggruppamento di sinistra distinto dal loro oppure lo guardano con sufficienza, pensando che l'idea sia fuori del mondo? Ma il limite più grande lo dirò alla fine.
Ripartirò dall'inizio, che a me era parso molto semplice, fin troppo elementare (e che del resto costituiva solo una minima parte del discorso): far dialogare e agire unitariamente quella sinistra che sta a sinistra delle convergenze riformiste-moderate (triciclo, partito unico riformista, ecc) ne aumenterebbe la forza e attenuerebbe il rischio di compromessi di basso livello. Aiuterebbe anche i movimenti - che la sinistra hanno contribuito in passato e continuano a rinnovare - a preservare la propria autonomia. Contribuirebbe a chiarire l'indirizzo programmatico dell'intero centro-sinistra, indirizzo che rimane ancora indefinito nonostente il «ritorno» di Prodi e l'annuncio di un'opposizione più chiara al governo di cui la programmata manifestazione del 6 novembre costituisce per ora il solo punto forte. Vorrei esser molto chiaro su questo punto: non si tratta di mettere in dubbio l'alleanza di centro-sinistra, che non ha alternative.
Si tratta al contrario di renderla più credibile e di rafforzarla in settori molto delicati dell'elettorato (quelli più colpiti dalla crisi economica), influenzandone il programma e spostandola al tempo stesso, come si diceva una volta quando esisteva una sinistra, a sinistra. Rafforzare e riequilibrare l'alleanza di centro-sinistra in questo momento è particolarmente essenziale, perché a metterla davvero in dubbio ci pensano le componenti moderate, che, anche dall'interno dell'Ulivo, lavorano sempre più alacremente per riaprire il capitolo del centrismo. Questo, mi permetto di dire, lo capirebbe anche un bambino. Ma spingiamoci di qui in poi un po' più in là di una semplice, limitata, per quanto utile, razionalizzazione del quadro politico della sinistra italiana. A me pare che il problema del rapporto fra le «due sinistre» è destinato a presentarsi prima o poi, anzi, si sta già presentando, mutatis mutandis, in tutta Europa. La distinzione (più o meno profonda) tra le due ali del riformismo poggia infatti su fattori oggettivi, addirittura di classe, oserei dire (anche se non proprio alla vecchia maniera), tipicissimi in questa fase proprio della situazione europea.
L'assenza di una formazione, magari confederale, che renda esplicita tale distinzione, senza necessariamente (anche in senso tecnico) estremizzarla, significa in parole povere che un pezzo della società occidentale è politicamente sottorappresentato: sia che ciò si manifesti nella forma della disaffezione alla politica; sia che il tasso di astensionismo nei ceti deboli resti elevato, nonostante tutti gli appelli; sia che si verifichino, in presenza di condizioni particolarmente negative, paurosi spostamenti di questo elettorato verso destra; sia che, quasi infallibilmente, i programmi dei vari centro-sinistra europei appaiano egemonizzati dalla componente moderata del centro-sinistra medesimo.
L'incontro tra le diverse frazioni (organizzate o no) di questa «parte» della sinistra (componente dialettica, a sua volta, ma non necessariamente antagonistica di uno schieramento più largo), sarebbe davvero impossibile, solo se fra esse (e soprattutto nella fetta di società che esse dicono di rappresentare) ci fossero differenze ideali e strategiche insormontabili. Ma è così? Nessuno può pretendere che si faccia qui l'elenco delle questioni su cui un'unità sostanziale, non estremistica e non ideologica, appare già oggi operante. Eppure un primissimo tentativo, di entrare nel merito bisognerà pur farlo.
Quando si dice - e lo dicono ormai anche alcuni dei riformisti moderati, e persino qualche centrista del centro-sinistra, - che non è più possibile sostenere la linea di un liberismo senza freni, spesso non ci si accorge di dire che il rapporto (nesso, conflitto, persino compromesso, lo si dica come si vuole, purché lo si dica) tra capitale e lavoro, invece di aver fatto il suo tempo, prepotentemente riemerge. Riemerge con esso il problema di una rappresentanza politica del lavoro. E con esso riemerge il problema del rapporto fra rappresentanza politica del lavoro e sindacato, rapporto entrato da più di dieci anni verticalmente in crisi in tutta Europa.
Una situazione del genere non è un residuo del passato (come qualcuno dice) ma nasce (o rinasce) precisamente all'interno di quel contraddittorio e tormentato processo che chiamano globalizzazione. Influenzare, spostare, determinare il rapporto capitale-lavoro (e di conseguenza quello fra capitale e ambiente, capitale e salute, capitale e sottosviluppo: da qui l'importanza del rapporto organico rossi-verdi), significa influenzare e determinare la globalizzazione e cambiarne il segno. E' per me del tutto evidente che la scintilla che ormai periodicamente incendia tutto il mondo, nasce dall'interno del sistema, perché all'interno del sistema non sono cresciuti gli anticorpi necessari a spegnerla. Non si può essere contro la guerra, se non se ne comprende e non se ne combatte la genesi profonda (che è dentro il sistema, non solo nel suo illimitato delirio espansivo).
La mancanza di regole, lo sfrenato avventurismo dei conservatori, l'incerta sempre più balbettante risposta dei riformisti moderati, fanno correre il rischio che una crisi politica si trasformi in una crisi di civiltà (la nostra) e che questa investa in maniera catastrofica la sfera dei valori, dei diritti e della stessa democrazia. La demoniaca volontà dell'Occidente capitalistico-democratico d'esportare all'esterno il proprio modello, svuota il modello e lo riduce ad un guscio vuoto, sempre più facilmente modificabile. La battaglia per i diritti torna a essere a sinistra di una portata epocale: la civiltà la difende la sinistra, perché non c'è più nessun altro che lo faccia. Lo dimostra ad abundantiam il radicale rifiuto della guerra, che solo a sinistra affonda senza ostacoli le sue radici (mentre il riformismo moderato su questo punto continua paurosamente ad oscillare).
Basta questa modesta sintesi a disegnare una linea di confine abbastanza precisa tra riformismo moderato e riformismo radicale e a precostituire le condizioni perché il riformismo radicale unisca le sue forze attualmente disperse? Può darsi che non basti: ma allora bisognerebbe dire onestamente perché e cos'altro serva perché basti. Bisognerebbe non aggirarsi intorno al problema, ma affrontarlo. O no?
Insinuo un'ipotesi negativa. Ecco qual è il limite più grande del nostro dibattito. Agostinianamente si potrebbe argomentare che il non potere discende dal non volere. Dubito fortemente che i protagonisti del dibattito sulle possibili forme dell'unità della sinistra sarebbero tutti disposti, messi alla prova dei fatti, a tradurre le parole in realtà. Se le cose stessero così, vorrei dichiarare una mia personale difficoltà. Sono anni che, a scadenze periodiche, si apre un dibattito sul modo di ripensare la sinistra, l'organizzazione politica, la realtà italiana ed europea, ecc: e poi si assiste inerti, ogni volta, alla dispersione in terra carsica del rivolo che sembrava essersi creato.
Beh, la pazienza e le forze (non solo mie, immagino) sono al termine. Ripropongo, in termini altamente e seriamente problematici, la questione iniziale: esiste o non esiste questa famosa sinistra diversa da quella che ora c'è ma che anch'essa domani potrebbe del tutto scomparire? E' pensabile, è tollerabile una situazione in cui non ci sia «sinistra»?
Se non faremo la prova, continueremo a non saperlo. E per saperlo dobbiamo almeno per una volta «materializzare» (sì, proprio nel senso letterale del termine) quella sinistra che dice di esserci e non vuole scomparire consensualmente nel nuovo raggruppamento moderato.
Propongo che ci sia, a breve scadenza, un momento e un luogo d'incontro per tutti coloro che si dichiarano e si sentono (e forse effettivamente sono, ma questo potremo saperlo solo dopo) a favore di un processo di avvicinamento e d'incontro (e forse di unificazione, ma anche questo potremo saperlo solo dopo) tra quelle forze della sinistra, che, sebbene disperse, continuano a resistere alla manovra riformistico-moderata.
Ma sia chiaro: non ci bastano più gli Stati maggiori (per quanto necessari), persino le forze organizzate esistenti ci appaiono in sé e per sé, per quanti meriti gli si debbano riconoscere, più come la struttura cristallizzata del nostro passato che come la prefigurazione vera e propria del nostro futuro. Se l'iniziativa serve a quella massa che sta al di qua e al di là di quella linea che separa attualmente una «politica organizzata» da una «politica non organizzata», e cioè (ripeterò questa parola fino alla nausea) serve fin dall'inizio a fare politica in modo nuovo, sarà utile, altrimenti no. Perciò dico che in casi del genere la quantità fa la massa critica e la massa critica precede il pensiero (e, forse, ahi, lo determina). Bisogna lavorare sulla massa critica che precede e determina la nascista di una nuova sinistra.

sinistra
Fabio Mussi

Liberazione 22.10.04
Il punto è: come battere il riformismo blairiano
di Fabio Mussi

"Si respira un clima di nuovo dinamismo", scrive Rina Gagliardi su Liberazione del 20 ottobre, parlando della sinistra italiana sulla scia delle dichiarazioni di Fausto Bertinotti. Posso convenire con lei, a patto che si sappia che le rotte e gli approdi non sono già tutti tracciati. Che c'è una incertezza vera sugli esiti, e una lotta politica in corso, e una battaglia culturale, dentro e fuori i partiti. Vorrei provare a parlar chiaro.
Nascerà un "partito riformista", inesorabilmente spostato al centro, figlio legittimo delle suggestioni blairiane che tanto hanno pesato in questi anni sulla sinistra italiana maggioritaria? Quelle suggestioni che hanno fatto dire anche a D'Alema, in un impeto di sincerità, "abbiamo troppo subito il fascino del liberismo"? E' evidente che a sinistra allora nascerà una nuova forza. Le cose hanno una loro logica, persino a prescindere dalle intenzioni e dalle volontà soggettive.
Il punto è che io non dò affatto per scontato il compimento di questo progetto. Penso anzi che, se lì dovessimo andare a parare, sarebbe una sconfitta di tutti. Penso che occorra agire per evitare, nella alleanza democratica che si sta costituendo, l'effetto "maionese impazzita", quando gli ingredienti si separano, l'olio con l'olio, il limone con il limone, i riformisti coi riformisti, i radicali con i radicali. Sospetto che una tale separazione intaccherebbe le basi politiche della alleanza e ne farebbe regredire i contenuti programmatici. Maestra è l'esperienza: quando la squadra del centrosinistra è al completo, vengono proposte buone (lo si è visto nella riunione dell'11 ottobre), quando si chiude il recinto dei riformisti, si cammina come i gamberi (qualche esempio? La stralunata discussione di mezza estate sull'invio di truppe Nato in Iraq, o la danza al tempo stesso semilaica e semiclericale a proposito del referendum sulla procreazione assistita).
Per questo io sono nei Ds, sto nei Ds, mi batto nel Congresso dei Ds, e, galileianamente, ypotheses non fingo, non immagino ipotesi di "Cose" alternative, di "Case della sinistra alternativa", come scrive Gagliardi. Non vorrei mai offrire su un piatto d'argento, con una separazione volontaria, esattamente quella divisione in due campi - riformisti e radicali - di cui vedo troppi paladini. L'imperativo attuale è: mescolare, mescolare, mescolare….
In questo senso mi interessa il rapporto con Bertinotti. Mi interessa che fermentino le idee di una cultura critica innovativa, l'immaginazione di "un altro mondo possibile", la rielaborazione del pensiero dei diritti universalistici nelle società contemporanee, l'indicazione di un nuovo inventario dei beni comuni dell'umanità, la critica radicale al sistema della violenza, del terrorismo e della guerra. E il progetto di un governo per l'Italia. C'è però un'ambiguità nell'espressione "sinistra alternativa". L'alternatività deve riferirsi al programma della alleanza, alternativo a quello della destra: troppo spesso invece il concetto viene coniugato con lo spirito minoritario di una parte della sinistra che c'è. Con l'idea che, alla fine, siamo nati per l'opposizione. Non lo dico naturalmente a Rifondazione: il passaggio dall'accordo di desistenza del 1996 alla proposta di un "programma comune" per il governo, è una delle novità più importanti della situazione politica italiana. Ho la presunzione di aver dato un qualche contributo, con il "correntone", a riaprire i canali intasati a sinistra, a ricostruire così alcune delle condizioni per la Grande alleanza democratica.
Critico ora la "Federazione riformista". Vedo che Fassino tira dritto. Vedo anche che le difficoltà sono enormi, come risulta dallo stesso inquieto dubbio sulle liste da presentare alle regionali, e dall'indecisione forte nell'indicare apertamente la meta del partito unico riformista. Dubbi e indecisioni che salgono dal fondo della società (ricordo un magnifico Cesare Luporini: "Il Grund di cui parla Marx non è "fondamento", come traducono le anime belle hegeliane, è "fondo": le cose hanno un fondo, piuttosto che un fondamento ….). Non c'è, nella coscienza politica profonda della società italiana, qualcosa che corrisponda davvero al "soggetto riformista". Tale progetto ha una matrice elitaria. L'Ulivo aveva, nel maggioritario, il 45% nel 1996 e il 43.7% nel 2001 (quando perse). "Uniti nell'Ulivo" lo ritroviamo al 31.1% nel proporzionale delle europee 2004. Nel '96 era un fiume in piena che correva più di noi, ora è una pioggia fredda che cade dall'alto. E per la Grande Alleanza Democratica dobbiamo trovare, alla svelta, un nuovo universo simbolico in cui possano riconoscersi e identificarsi milioni di persone.
Per queste ragioni penso che la partita non sia chiusa, nei Ds. Questo è il mio partito. Figlio della svolta dell'89 di cui io sono stato fervente sostenitore. Riconoscendo oggi che, nella foga dello strappo dal Pci, vennero via allora anche radici buone, come il valore forte dell'uguaglianza che il fallimento della globalizzazione liberista ci ripropone intatto, semmai ancora più vivo e attuale. Ma trovo improbabile che si ritrovi un sentiero nel campo devastato del comunismo del 900. Dobbiamo piuttosto guardare avanti, verso una sinistra e un socialismo pacifista, ambientalista, antiliberista, libertario. E questo è un nodo assolutamente non sciolto.
Penso perciò che non ci sia bisogno di tracciare le frontiere di nuovi "contenitori". E di gettarsi nel tango di nuove "scissioni e fusioni" - come scrive Rina Gagliardi -. Le nostre azioni devono essere misurate sull'obiettivo di battere la destra. Invece c'è un buon lavoro programmatico nel quale impegnare, anche trasversalmente, le forze. Tra le cose che mi preoccupano, c'è questo costante rinvio dell'appuntamento del programma. Sappiamo bene che occorrerà, nella coalizione, trovare un punto di sintesi, e anche di compromesso. Darci anche delle regole: Bertinotti ha aperto sul principio di maggioranza nella coalizione, a patto - egli dice giustamente - che il processo sia democratico e partecipato. Vedo qui una possibilità, ognuno dalla postazione che occupa, di fare un lavoro importante sui contenuti, tenendo aperta la stagione che ha visto irrompere, e non solo sulla scena nazionale, grandi movimenti portatori di buona politica.
Proviamo a fare questo lavoro sul programma, cioè a dare un contributo serio, qui e ora, alla sinistra e alla alleanza democratica?

Henrik Ibsen (1828-1906)

L'Arena 24.10.04
Un convegno internazionale da domani a Torino
Il lato oscuro di Ibsen all’esame degli studiosi

Il lato oscuro di Ibsen, non certo quello di «Casa di bambola», ma piuttosto de «Gli spettri» sarà quello che da da domani a mercoledì riunirà all’ Università di Torino studiosi da tutto il mondo. Lo scopo è mettere in rilievo gli aspetti più inediti o segreti della personalità ibseniana, quelli attinenti alla sessualità e all’occultismo. Illustri studiosi arriveranno dalla Norvegia, dalla Danimarca, dalla Svezia, dalla Romania, dagli Stati Uniti, dalla Cina, Iran, per demistificare, assieme ai colleghi italiani,l’ immagine razionale e in fondo ottocentescamente attardata di Ibsen, restituendone una figura decisamente più inquieta, attuale e autentica.
L’ iniziativa di studio, preliminare alle celebrazioni mondiali del primo centenario della morte nel 2006, intende, non tanto sostituire quanto affiancare all’ Ibsen razionale, positivista, un p o’ femminista, sicuramente rassicurante e molto buonista che la critica ci ha tramandato, l’ alter ego più complesso e sfaccettato. Secondo questa seconda interpretazione, c’è un lato oscuro, uno strato segreto della sua scrittura capace di cogliere gli abissi dell’ irrazionale, i mostri dell’inconscio, le pulsioni più profonde e più perverse della sessualità.
Il teatro - dicono gli studiosi che si riuniranno domani - in questo senso ha anticipato la critica letteraria e lo dimostra il fatto che da un p o’ di tempo in tutto il mondo viene messa in scena la drammaturgia ibseniana. Il convegno, dal titolo esemplificativo «Ibsen, The dark Side», intende fare un primo bilancio di questa correzione critica del grande autore nordico.
L’ appuntamento internazionale (che apre alle ore 15 presso la facoltà di Scienze della Formazione) è stato organizzato dal Centro Studi per lo Spettacolo Nordico afferente al corso di laurea in Dams in collaborazione con il Centre for Ibsen Studies dell’Università di Oslo. I lavori saranno aperti dal rettore Ezio Pelizzetti, dall’ assessore alla Cultura della Regione Piemonte, Giampiero Leo e dalla preside della Facoltà di Scienze della Formazione Anna Maria Poggi.

ossimori
l'«Associazione psichiatri e psicologi cattolici»:
santità
(sic!) e follia

Avvenire 23.10.04
Travolti dallo spirito
di Pierluigi Fornari

Roma. Santità e follia. Un binomio a volte superficialmente appiattito in un'identità. Per superare indebite «commistioni» si tiene oggi e domani a Roma il Forum su «Santità e Follia, oltre la confusione», quinto Meeting organizzato dal Movimento europeo per la psicologia e l'antropologia cristiana. L'organizzazione unisce cristiani di tutti i paesi dell'Europa: teologi, psicologi, antropologi, consulenti, psichiatri, medici e altri professionisti. Dalle relazioni di ricercatori che provengono da Polonia, Gran Bretagna, Germania, Italia emergono i tratti specifici della santità che trova nella fede, nella capacità di perdono, nell'amore al nemico «la sua misura». «Perdonare il prossimo, il nemico, se stessi - spiega Alberto Scicchitano, vicepresidente dell'Associazione italiana di psichiatri e psicologi cattolici - "perdonare" la propria storia, significa recuperare la libertà, salvando preziose energie psichiche».
«Il convegno si propone di affrontare i rapporti tra scienza e fede - spiega Ermes Luparia, presidente dell'Aipcc - dal punto di vista di un spaccato particolare, di frontiera, come quello del tema prescelto. In secondo luogo puntiamo a costituire un coordinamento europeo, con un mutuo arricchimento attraverso lo scambio delle esperienze».
«Si deve superare l'equivoco riduzionista per cui con la psichiatria si cerca di spiegare la santità - aggiunge Tonino Cantelmi, fondatore dell'Aippc, che domani concluderà il forum -. Ma non si è santi perché folli, ma perché si è fatto un incontro personale con Gesù Cristo e questo può riguardare ogni categoria di persone».
A evidenziare i caratteri precipui della santità, Scicchitano indica la vicenda di san Giovanni Calabria, che affrontava i suoi alti e i suoi bassi ancorato ai consigli del padre spirituale. E allora infaticabile si dava da fare per costruire l'opera per i bimbi abbandonati, e poi durante la fase depressiva, sempre ben consigliato e confortato tiene ferma la fede: «Sono giorni di tenebra, di prove inaudite, sento il mio nulla e la mia miseria ma sento che Gesù vuole su questo costruire in questa ora oscura anche se sono invaso dall'angoscia per l'inutilità della mia vita».
Agli inizi del '800, un celebre malato, Sir Perceval, figlio del primo ministro inglese, così individuava il discrimine della follia: «Nelle operazioni dell'intelletto umano accade sovente che una voce manifesti il suo volere così celiando; nel fraintendere o pervertire queste rivelazioni, nel prendere sul serio questa forma di discorso consiste forse il peccato originale. Perché la mente dell'uomo dopo la caduta nello stato di disgrazia scambia lo spirito d'umorismo per spirito di Verità, questa è la pazzia».
Dunque per ricondurre in un circolo virtuoso la sofferenza mentale, sottolinea Scicchitano, sono necessarie risorse l'umiltà e una comunità di appartenenza che «consenta una forte "resistenza a terra" per non restare fulminati».
Nell'ambito del convegno sarà trattato anche il tema particolarmente delicato della psicoterapia vocazionale. «È la sacralità dell'opera a richiedere da parte dello psicoterapeuta la necessaria coscienza di essere egli stesso in un personale percorso di vocazione e di conversione», ammonisce Luparia. «La chiamata ad affiancare i consacrati nel loro cammino di discernimento, formazione o difficoltà comunitarie ed individuali, non può essere considerata un ambito del tutto simile a quello che riguarda il "mondo secolare"». «Lo psicoterapeuta o psicologo vocazionale - sottolinea il presidente dell'Aippc - riceve un mandato speciale, quello di entrare nella storia vocazionale della persona senza interferire sul progetto divino, ma entrandoci con tutta la propria sensibilità, intuizione ed attento ascolto, per sostenere ed alleviare il cammino di crescita, là dove esistono dei nodi evolutivi che non permettano un cammino vocazionale sereno».