martedì 8 luglio 2003

Hölderlin

Il Giornale di Vicenza Martedì 8 Luglio 2003
Casi e tendenze letterarie
Hölderlin? Un mito poetico diventato mania
Una classicità tedeschizzata
di Sossio Giametta

A rispettosa distanza dall'uscita del "Meridiano" Hölderlin e dai peana intonati in onore di questa grande e patetica figura di poeta, occorre, per la precisione, dire alcune cose. A Bruxelles, nel 1989, Hans Georg Gadamer disse, durante una cena da un comune amico, due cose a mio avviso esagerate: una, che Nietzsche è un dilettante di genio, ma non un filosofo; due, che Hölderlin è la grande scoperta della nostra epoca. A Palermo, nel 2001, in occasione del Premio Nietzsche, Karl Pestalozzi, continuatore dell'edizione Colli-Montinari delle opere di Nietzsche, disse su Hölderlin parole smozzicate ed estatiche. Per Giorgio Colli Hölderlin era "un greco in carne e ossa", mentre Nietzsche era "sfocatoinquinato, umanizzato dalla solitudine".
Le traduzioni e edizioni di Hölderlin si moltiplicano e l'hölderlinmania dilaga. All'origine di questo revival del puro e sfortunato poeta di Lauffen (visse male, a parte la parentesi di Susette-Diotima, finché fu sano e poi, per 37 anni, ottenebrato dalla pazzia) c'è il libro di Heidegger, La poesia di Hölderlin. In esso Heidegger testimonia il "colloquio pensante", pone la questione dell'essenza della poesia e di come il pensiero stesso, nel suo gesto ultimo, si apra su tale essenza (cancellando la parola "essenza" le opere di Heidegger si ridurrebbero di un quinto dicendo le stesse cose). Hölderlin ha detto il sacro e la fuga degli dèi, che però ci risparmiano se abitiamo in loro vicinanza. Di interpretazioni neanche a parlare: il meglio per loro è di dileguarsi, come le dimostrazioni in filosofia. L'essere è indicibile e solo la poesia può darne un barbaglio.
Parole a loro volta sacre? Non per Hannah Arendt, amante e amica di Heidegger salvo temporanee arrabbiature, diciamo incordature. Come quando, nel '49, scrisse a Jaspers: «Ho letto qui alcuni suoi saggi su Hölderlin e certe lezioni su Nietzsche (il famoso Nietzsche!), particolarmente atroci, chiacchiere e nient'altro". Croce tratta Heidegger già meglio (o peggio?): le sue teorie sono «un'eco languida, aforistica e indimostrata della grande teoria vichiana che l'origine della lingua si ritrova dentro quella della poesia».
Ma le grandi scuole figliano. Ed è così che da noi Severino si affida a Leopardi e Eschilo. Non per la poesia, no: per la filosofia. Citando però due massimi, a cui non si possono paragonare i due di Heidegger: Hölderlin e Trakl. Non perché Hölderlin non sia un poeta di tutto rispetto, un Leopardi adolescente (Trakl, pur bravo, ne è un po' la brutta copia). Ma perché la sua grandezza sembra sottostare a limitazioni. Anzitutto a giudizio di Goethe (posposto, anzi congedato, insieme a Omero, Dante e Shakespeare). Hölderlin gli fu presentato da Schiller. Egli vi vide la delicatezza del Jüngling (il "fanciullino" tedesco), che piaceva a Schiller, e non gli diede spago. Poi a giudizio di Croce. Greco Hölderlin? Era «assertore di un ellenismo che è germanesimo e germanesimo più profondo e più tedesco di ogni romanticismo o di ogni medievalismo».
E proprio questa è la ragione per cui piace tanto ai tedeschi, specie medievalisti come Heidegger (negava il Rinascimento ed era per la Umwä (...)
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Vattimo... sul Male, sostantivato

(citato al seminario del mercoledì)
Repubblica 8.7.03
I filosofi da Nietzsche a Jean-Luc Nancy
NELL´ABISSO DELLA LIBERTÀ
Per vivere in una società non possiamo fare a meno di riportare tutto ciò che accade alla ratio e al calcolo
È difficile pensare che lager, gulag, stragi, guerre, aids siano frutto di semplici disfunzioni
GIANNI VATTIMO

Se credeva di fare una profezia, o anche solo di esprimere una speranza, con il titolo Al di là del bene e del male, Nietzsche si è certo ingannato di grosso. Mai come oggi, nel linguaggio politico soprattutto, il bene e il male, specialmente quest´ultimo, sono termini onnipresenti, personificazioni incombenti delle nostre paure e speranze. Non, come forse sarebbe giusto, in quanto avverbi - quali si usano nell´espressione corrente «Come va? Bene grazie, non c´è male, o: oggi va proprio male» - ma in funzione di sostantivi, come se si trattasse di entità ben precise da favorire o da combattere. Bei tempi quando Il male era addirittura diventato il titolo di un giornale satirico; oggi a nessuno verrebbe più in mente una titolazione del genere. Oggi, per lo più operando, anche in buona fede, una falsificazione ideologica, si parla sempre più spesso di una lotta tra il bene e il male, di un «impero del male» da cui dovremmo difenderci, che dovremmo isolare e rendere inoffensivo. Sottolineando anche spesso che chi non crede a una tale sostantivazione dell´avverbio si fa strumento del demonio, la cui astuzia appunto (come quella della mafia) consiste nel far credere di non esistere.
Non è facile opporre alla dilagante credenza nel Male un più sobrio atteggiamento demitizzante, che accendendo un po´ di luce mostri che nella stanza, o nella storia, non c´è il Maligno, ma solo disfunzioni, problemi, «mali» che sono però sempre da scrivere con la minuscola, anche per non adagiarsi nella comoda disperazione di chi pensa che «soluzione non v´è» e dunque è inutile agitarsi. L´indubbia forza della credenza nel Male risiede però nella dura esperienza storica del secolo appena concluso: è troppo difficile pensare che i campi di sterminio, i gulag, le stragi che si continuano a perpetrare in varie regioni del mondo con le guerre, e quelle che «accadono» solo perché interi continenti non possono permettersi il farmaco contro la malaria, l´Aids, la tubercolosi, altre malattie infantili - difficile pensare che tutto questo sia solo «male» nel senso che non va come dovrebbe, perché c´è qualcosa che «non funziona». È questo sfondo novecentesco, che ci si è imposto anche perché, alla svolta del millennio, abbiamo tutti dovuto provare a fare dei bilanci, ciò che giustifica anche una rinnovata attenzione del pensiero e della filosofia alla questione del Male «sostantivo».
Ha ragione Jean-Luc Nancy che, in un brevissimo saggio di straordinaria chiarezza e rigore propone una tripartizione, teorica e storica, della nozione di male. Dei tre sensi in cui parliamo di male, come sventura, come malattia, e come male puro e semplice, il primo è caratteristico dell´antichità, per la quale - si pensi a Edipo - la disgrazia cadeva addosso come un evento fatale voluto o permesso dagli dei; il secondo è più specifico del pensiero moderno, razionalista, per cui ci sono al mondo disfunzioni che turbano un ordine fondamentalmente giusto che si può e si deve restaurare con azioni appropriate. Ma oggi si può ormai parlare di male solo in un senso più totale e radicale: i campi di sterminio nazisti non sono né la disgrazia di Edipo né un accidente che turba l´ordine razionale del mondo. Sono in molti sensi il male «assoluto», hanno una portata metafisica; sono essi che ci inducono a ripensare al male «sostantivo», e riparlare di una tragicità essenziale della condizione umana. E gulag e lager non sono solo un passato che dovremmo e potremmo cercare di dimenticare. (...)
Non si può, davanti a tutto questo, tornare semplicemente alla moderna fede nella possibilità di soluzioni terapeutiche. Ma allora abbandonarsi al pessimismo cosmico? O anche a quella sua versione più facile e popolare che accompagna alla disperazione un´accanita difesa dei propri interessi - quello che spesso si chiama realismo e pragmatismo?
Forse non servirà a rispondere in modo definitivo a questa domanda; ma non è inutile ripensare alla nozione di male, alla sua storia e alle sue implicazioni, come ci invitano a fare molti libri recenti motivati anche dall´urgenza e radicalità dei nostri problemi. Un bellissimo volume di Rüdiger Safranski (Das Böse - Il male - ed. Fischer), che ricostruisce la storia della nozione di male, suggerisce qualche esito teorico su cui vale la pena riflettere. Nelle pagine conclusive dell´opera, Safranski si ferma a lungo sul libro di Giobbe, testo classico se ce n´è uno sul tema del male. Come si sa, alla fine della sua lunga «tentazione» (nata da una sorta di scommessa tra Dio e Satana), Giobbe si sottomette al Signore; ma non perché abbia capito e accettato una spiegazione razionale delle sue disgrazie. Anzi: la sua sottomissione non ha alcun fondamento; come non ha fondamento - spiegazione, ragione oggettiva - il comportamento di Dio che lo ha messo alla prova. (...)
Parliamo di male solo perché dobbiamo spiegare la libertà, e non viceversa. Il male, come dice anche Pareyson, non è altro che l´abisso - l´inspiegabilità - della libertà. In molta filosofia contemporanea questo dà luogo a un´accentuazione della nozione di responsabilità: ciò che l´uomo fa nella storia non realizza alcun piano prestabilito, alcuna legge eterna, è tutto affidato alle sue scelte, che possono trovare un criterio e un filo conduttore solo nell´attenzione ai «valori», cioè alle scelte collaudate, che abbiamo ereditato e riceviamo dai nostri simili. Ma è possibile concepire radicalmente questa libertà senza scoprire, come Giobbe, che in ultima analisi essa non è altro che quello che il Vangelo chiama la «Grazia»?
Qui il discorso però, invece di fermarsi, dovrebbe appena cominciare. Che cosa possiamo dire del male se scopriamo, con la rivelazione, che esso è solo l´abisso della libertà? Che cosa ne sarà, in questa prospettiva, dei nostri sforzi di analizzare e classificare i vari tipi di male, cercandone le cause profonde, valutandone le responsabilità? Se adottiamo l´atteggiamento che Gesù suggerisce nell´episodio del nato cieco, ci troveremo forse (pericolosamente?) vicini a Nietzsche e alla sua critica dello spirito di vendetta, che per lui domina tutte le forme di razionalismo, e per il quale di tutto si vuole conoscere la causa, e così pure del male, per dominarlo e ridurlo in nostro potere.
Si dirà che per vivere in una società non possiamo fare a meno di riportare il male alla ragione, cioè alla ratio e al calcolo. Di questo vivono le leggi e l´amministrazione della giustizia. Solo della giustizia umana, però. Il Dio di Gesù è anche un Dio misericordioso, tanto che non riusciamo davvero a pensarlo capace di tenere all´inferno per l´eternità neanche il più feroce criminale. Penso a una frase di Bonhöffer, secondo cui «Ein Gott den es gibt gibt es nicht» («Un Dio che "esiste" non c´è»). Così, dobbiamo pensare che Ein Böse(s) das es gibt gibt es nicht. («Un male che "esiste" non c´è»). Non c´è DAS BÖSE, si sono norme che via via le comunità umane si danno per ragioni di sopravvivenza, e che dal punto di vista della rivelazione cristiana non hanno mai un senso assoluto, sono sospese alla carità e alla grazia. Carità e grazia sono anche i limiti negativi che devono regolare, come una sorta di Grundsatz, di Costituzione, le forme della giustizia «convenzionale» umana; all´interno di questi limiti, che sono anch´essi soggetti a differenti interpretazioni storiche, tutto è permesso a patto che ci sia consenso sociale e, appunto, rispetto caritatevole di ciascuno, oggi diremmo: democrazia.
Potremmo ragionevolmente concludere che, nella nostra situazione storica, la più verosimile definizione del male è: il male è ciò che è contrario alla democrazia o anche alla pace. Lo diciamo non per retorico engagement politico; ma per fedeltà alla predicazione cristiana. Sono le pagine su Giobbe, su Abele e Caino, sul cieco nato, che ci insegnano a non identificare il male con nulla di sostanzialmente dato una volta per tutte, e a vedere ogni forma di bene come conciliazione, accordo, dialogo tra pari, realizzato con la consapevolezza che «il male non c´è», c´è solo la grazia e l´appello divino alla carità.

Schopenhauer

Corriere della Sera 8.7.03
CULTURA
ELZEVIRO Uno Schopenhauer ritrovato
Conosci te stesso non amerai gli altri
di PAOLA CAPRIOLO

Da tempo la casa editrice Adelphi va pubblicando una serie di brevi testi schopenhaueriani dedicati a diversi aspetti della vita pratica, alcuni estrapolati dalle opere maggiori, altri ritrovati fra le carte postume. Sono piccoli gioielli, perle di una saggezza spesso paradossale e fondata sul presupposto della più incrollabile misantropia, tra i quali L’ Arte di conoscere se stessi (editore Adelphi, pagine 118, 7) si inserisce a buon diritto per contenuti e per stile. La sua genesi tuttavia è alquanto diversa: non ci troviamo di fronte a un vero e proprio scritto di Schopenhauer, ma alla ricostruzione di un’operetta perduta, forse distrutta per volontà dello stesso autore, della quale restano però numerose tracce e citazioni nelle opere dei biografi. In questa forma "congetturale", basata sul lavoro svolto per più di un secolo da diversi studiosi, Franco Volpi la presenta ora per la prima volta al lettore italiano, riuscendo davvero a restituire in parte l’incanto che doveva possedere quel "libro segreto", gelosamente custodito dal filosofo e arricchito nel corso dei decenni di sempre nuove massime e considerazioni.
Ciò che ne emerge, in quello stile caustico e scintillante che costituisce da solo una garanzia di autenticità, è un’appassionata apologia del proprio modo di vivere, o meglio, di non vivere, poiché Schopenhauer non fa altro che sottolineare come la sua esistenza di filosofo si fondi sul presupposto di una netta rinuncia: «La mia vita personale è soltanto la base di questa vita intellettuale... Quanto più questa base sarà sottile, tanto più sarà sicura».
Rinunciare dunque, in nome di una fiera consapevolezza del proprio rango spirituale, a quanto per gli uomini comuni costituisce lo scopo e il contenuto della vita, dal matrimonio alla creazione di una famiglia, dall’esercizio di una professione all’incauto istinto della socievolezza che ci spinge a perdere tempo «con quelle creature che, per la circostanza di avere due gambe, si sentono legittimate a ritenerci loro simili».
Così, di pagina in pagina, prende forma una sorta di manuale che insegna a coltivare un avveduto egoismo per non disperdere le proprie facoltà creatrici. Un manuale pratico del filosofo, o dell’artista, che certo sarebbe piaciuto a Thomas Mann, anche perché Schopenhauer non passa affatto sotto silenzio, anzi, sottolinea in maniera esplicita il carattere profondamente innaturale di scelte del genere. Non manca neppure una lievissima sfumatura di nostalgia alla Tonio Kröger, sebbene subito respinta con un moto di alterigia. Sì, ammette il nostro misantropo, io stesso ho avuto una certa propensione alla socievolezza «al tempo in cui la giovinezza della mia fantasia popolava ancora il mondo di esseri simili a me»: una frase che schiude dinanzi a noi abissi di disillusione. Sì, a volte mi sono sentito infelice, ma è stato «per uno sbaglio di persona, perché mi sono creduto un altro rispetto a quello che sono e ho compianto la miseria di costui»: e in quel «costui», in quello sdoppiamento orgoglioso, c’è qualcosa di più rivelatore e struggente che in intere pagine colme di accorate confidenze.

Marco Bellocchio

Libertà 8.7.03
La Mostra dal 27 agosto al 6 settembre, il regista in pole position per la gara con il suo film su Moro
Venezia-cinema chiama Bellocchio
Da Bertolucci a Bergman, edizione ricca di nomi e star

ROMA Manca poco meno di un mese all'annuncio ufficiale dei titoli della 60ª edizione del Festival del cinema di Venezia (27 agosto - 6 settembre), ma, tra indiscrezioni ed ipotesi su film e star ospiti in Laguna, in concorso o nelle sezioni collaterali, una sembra essere la certezza: sarà un anno particolarmente ricco che, come previsto, si avvantaggerà anche dell'edizione in tono minore di Cannes che ha lasciato sul campo molti titoli candidati a dare lustro alla Mostra diretta da Moritz de Hadeln. Tra i film italiani che potrebbero concorrere al Leone d'oro in pole position c'è sicuramente quello del nostro Marco Bellocchio, Buongiorno notte, con Luigi Lo Cascio e Maja Sansa protagonisti nel ruolo di una coppia di sequestratori di Aldo Moro, un soggetto suggerito all'autore dalla lettura dell'Affaire Moro di Sciascia. Non si tratta, come ha già spiegato Bellocchio, di una ricostruzione del caso Moro (come è stata quella di Martinelli in Piazza delle cinque lune), ma di una riflessione, cara al regista dei Pugni in tasca, sul rapporto di una generazione più giovane con il “padre” per antonomasia, in questo caso un padre politico. In corsa viene dato per certo anche Segreti di Stato di Paolo Benvenuti, che rievoca la strage di Portella della Ginestra, mentre l'autore italiano forse più atteso, Bernardo Bertolucci, porterà fuori concorso il suo The dreamers, tratto dal romanzo The holy innocence di Gilbert Adair. «Con questo film - ha detto Bertolucci - ho voluto recuperare per i giovani di oggi, che spesso non sanno neppure cosa sia il '68, lo spirito di quegli anni in cui c'era una gran confusione tra politica, droga, amore, sesso». Aggiungendo: «Non voglio fare l'elogio del '68, ci sono stati molti difetti, e una minoranza che ha militarizzato i gruppi e ha portato l'Italia verso gli “anni di piombo”, anche sulla base di grandi equivoci e deviazioni dei servizi. Ma non è stato un fallimento, dopo il '68 molto è cambiato nei costumi, nella società, nelle conquiste della donna». Pressoché certi di approdare in Laguna, spalmati nelle varie sezioni, sono anche altri autori di richiamo: Amos Gitai con Alila, tratto anche questo da un romanzo (Ripristinando antichi amori di Yehoshua Kenaz); Ridley Scott, con Matchstick men con Nicolas Cage; Robert Altman, autore di The company con Malcom McDowell; Catherine Breillat, l'autrice francese cha ha già fatto scandalo con Romance e A ma soeur, che torna in coppia con il re del porno, Rocco Siffredi (aveva un parte già in Romance) in Anatomie d'enfer, tratto dal romanzo Pornocratie; l'australiano Peter Weir (The Truman Show, Green Card e L'attimo fuggente) che ha scelto il connazionale Russell Crowe (Il gladiatore) come protagonista di Master and commander, adattamento cinematografico del romanzo di Patrick O'Brian. Tra gli altri film dovrebbero esserci anche la seconda parte della trilogia The Tulse Luper Suitcase di Peter Greenaway; Theo Angelopoulos con The weeping field, prima parte di una trilogia, e i fratelli Coen con Intolerable cruelty interpretato da George Clooney e Catherine Zeta-Jones. Attesissimo è il ritorno sul “luogo del delitto” di un maestro come Ingmar Bergman il quale con Saraband ha riunito Erland Josephson e Liv Ullman per il seguito ideale di Scene da un matrimonio. Senza contare, a proposito di ritorni, che, anche se molti lo danno ancora alle prese con un interminabile montaggio, Quentin Tarantino potrebbe essere la sorpresa dell'ultimo minuto col suo Kill Bill. La nuova pellicola del regista di Pulp Fiction avrà per protagonisti Uma Thurman, Daryl Hannah, Vivica A. Fox e Lucy Liu (in questi giorni sugli schermi con Charlie's Angels più che mai). E non è tutto: torna in Laguna, dopo il “tradimento” di un anno fa quando preferì Cannes, Woody Allen, che porta il suo Anything else con Jason Biggs, Christina Ricci, Danny de Vito, Glenn Close e lo stesso Allen; torna anche Nicole Kidman che, in coppia con Anthony Hopkins, interpreta The human stain di Robert Benton; e dovrebbe tornare, dopo Ritratto di signora, interpretato proprio dalla Kidman, anche Jane Campion con il suo In the cut, un thriller di cui è protagonista Meg Ryan nel ruolo di una scrittrice che ha una storia con un investigatore alle prese col delitto di una bella donna; ci sarà, con ogni probabilità, Wong Kar-Wai col suo 2046 interpretato dalla belle Maggie Cheung. Ma il Festival, che coincide con il semestre di presidenza italiana dell'Ue, non vivrà di solo spettacolo: per il primo weekend è previsto infatti un incontro tra i ministri della cultura dell'Europa, guidati da Giuliano Urbani, sui temi legati all'audiovisivo. E la direzione sta pensando anche un evento che per ora è rigorosamente top secret. Enrico Redda
(c) 1998-2002 - LIBERTA'

Baricco da Repubblica del 6.7

(citato al seminario del lunedì)
La Repubblica 6.7.03
Le strane analogie tra il conte creato da Stoker e il personaggio mozartiano
Dracula, sosia di don Giovanni
LE IDEE
ALESSANDRO BARICCO

L' articolo di Baricco, che qui pubblichiamo, riproduce parzialmente il saggio scritto per il quarto volume del Romanzo, l' opera einaudiana curata da Franco Moretti e interamente dedicata a sondare tecniche, forme, storia e geografia di questo genere letterario. Il quarto volume (pagg. 865, euro 68,50) si intitola Temi, luoghi, eroi. Clotilde Bertoni e Massimo Fusillo si occupano dei topoi di lunga durata, Sylvie Thorel-Cailleteau del tema della mediocrità, Peter Burke dei Promessi sposi come storia sociale. Altri studiosi affrontano i luoghi dei romanzi (Piero Boitani si occupa, per esempio, della foresta). L' ultima sezione è dedicata ai personaggi: Nadia Fusini esamina Ottilia delle Affinità elettive e Hester Prynne della Lettera scarlatta. Benedetta Bini affronta Clarissa, dall' omonimo romanzo di Samuel Richardson. Baricco si cimenta, infine, con Dracula. SE è possibile vorrei iniziare da Sherlock Holmes. Una cosa interessante, a proposito di Sherlock Holmes, è che non c' è una sola pagina, scritta da Arthur Conan Doyle, in cui il famoso detective pronunci la frase: «Elementare, Watson». Potrei aggiungere qualcosa sul fatto che, a voler restar fedeli ai libri scritti da Conan Doyle, il celebre detective non fuma una pipa ricurva e una sola volta indossa, forse, quel ridicolo cappello con la visiera davanti e anche dietro. Ma in realtà può bastare, nella sua limpida sintesi, quel primo esempio: Sherlock Holmes non ha mai detto la frase «Elementare, Watson». Il che aiuta a ricordare come la vita postuma di un personaggio, al di là e dopo i testi che l' hanno creato, ottenga spesso di arricchirne il profilo originario fino a renderlo pressoché irriconoscibile. Non che quella vita postuma sia insignificante. Anzi: si potrebbe dire che essa dispieghi le verità nascoste di quelle figure. Ma resta il fatto che in origine quelle erano figure magari celibi ma nettissime. Misteri molto chiari. A volte, tornare nella tersa provvisorietà di quegli esordi può servire a pronunciarli con una ripristinata meraviglia. Vorrei pensare al conte Dracula dimenticando tutto ciò che è successo dopo Bram Stoker. Non credo che sia un modo di avvicinarsi al segreto di quel personaggio. è solo un modo di guardarlo da un' angolatura vagamente caduta in disuso. Mi sembrerebbe anche il più appropriato, per un testo che partecipa a una riflessione collettiva sul Romanzo. Un metodo bisogna pur darselo. Il metodo potrebbe essere riassunto così: attenersi allo scritto di Bram Stoker. Smetterla di immaginarsi Mina Harker con la faccia di Wynona Rider. Difficile, ma non impossibile. Una cosa curiosa di Dracula è che Dracula vi compare pochissimo. Di persona, intendo dire (se si può usare l' espressione di persona parlando di un vampiro). Riassumendo, lui compare in carne e ossa (idem) nella prima parte del romanzo, quando Jonathan Harker gli rende visita in Transilvania. Poi, si può dire che scompaia. Le sue apparizioni sono poco più che bagliori: un cane che scende da una nave, un pipistrello che sbatte contro un vetro, una nebbia che scivola sotto le porte. Di rado compare in fattezze umane, e quando lo fa è sempre per pochi istanti, subito ingoiato dal buio, dalla folla, dalla nebbia: sulla collina di Whitby, con Lucy; una volta per strada, in mezzo alla gente; stretto a Mina in un lampo che acceca i testimoni; e poi il tempo di una breve invettiva, prima di scappare, quando gli inseguitori lo attirano in una stanza dove non riusciranno a prenderlo. Anche la sua voce, così pedante e rigogliosa durante la visita di Jonathan, sparisce nel polverone delle parole altrui: il virgolettato di Dracula, per quattro quinti del romanzo, si riassume in una paginetta di frasi neanche tanto memorabili. Considerato quanto parlano gli altri, lui praticamente tace. La cosa è curiosa perché, al contrario, tutto il romanzo è ossessivamente posseduto, senza eccezioni, dalla sua figura. Non c' è nulla, in Dracula, che sia lì per una qualche sua energia autonoma: tutto esiste perché esiste Dracula. Lui è la luce che ritaglia via gli altri dall' indistinta oscurità del semplicemente esistente. Tutto diventa racconto se incontra lui, e nulla che non incontri lui diventa racconto. Naturalmente non è così raro il fatto che un romanzo abbia un simile rapporto ossessivo con il proprio protagonista. Ma il fatto è che, di solito, quel protagonista è visibile, ben piazzato al centro del testo, quasi costantemente in azione, sempre rintracciabile. Non è normale che il dio di quel piccolo mondo sia, per lo più, altrove. Che uno debba aspettare trecento pagine per ascoltare una sua parola. Che nulla, dico nulla, di ciò che è raccontato sia raccontato da lui. Che praticamente mai sia consentito di sapere cosa ne pensa lui, di tutta quella faccenda. Tanto che, prima o poi, la domanda ti arriva, in testa: e se non fosse lui, il protagonista? Se si rigira un po' il testo non è difficile dar corpo al sospetto. Dracula è la storia di una ragazza inglese che con l' aiuto dei suoi amici vince il duello con un mostro (protagonista: Mina Harker, che, in effetti, sta sul set tutto il tempo). Oppure: due amanti difendono il loro amore dall' insidia di un vecchio mago sporcaccione (protagonisti: i coniugi Harker). O addirittura: un vecchio scienziato pazzo olandese trascina nei suoi deliri un gruppo di giovani inglesi, portandoli alla pazzia (protagonista: Van Helsing. E qui ci sarebbe la variante, niente male, della inesistenza totale di Dracula, che a quel punto sarebbe solo il prodotto della follia collettiva). Ciascuna di queste ipotesi sta in piedi, e solo l' abitudine a considerare il libro di Stoker in modo draculacentrico (pardon) ce le ha rese difficili da immaginare. A ben pensarci sono addirittura più logiche, più rispettose degli abituali equilibri architettonici della forma-romanzo. Il protagonista sarebbe di nuovo al suo posto, dove siamo abituati a vederlo. Tornerebbe ad essere un dio logico, ottocentescamente artefice dell' accadere: la pietra angolare che tiene in piedi la casa. E invece: Dracula, un buco nero, un' assenza, un bagliore. Uno che nemmeno è chiaro se è vivo o morto. Si può reggere in piedi un romanzo, nel 1897, su un protagonista che non c' è? O non è piuttosto tutto un equivoco, e Dracula è un romanzo normale in cui un carattere secondario - il conte - ha preso la mano all' autore e a tutti i lettori, per sette generazioni? Non so la risposta, ma conosco la domanda. Nel senso che ci sono già passato. Era un' altra storia, era anche un altro secolo, ma il sapore della domanda, e l' imbarazzo conseguente, era lo stesso. Don Giovanni. Stavo ascoltando il Don Giovanni di Mozart. E me lo ricordo: la domanda era la stessa. Don Giovanni è un altro che non esiste. Eppure senza di lui nessuno esisterebbe nella storia che prende il suo nome. (Tante storie, a dire il vero. Ma penso soprattutto alla versione di Mozart e Da Ponte: che, in questo, è esatta fino alla provocazione). Gli altri sono personaggi: lui è poco più che una forza. Tutti parlano ossessivamente di lui, tutti vivono come se vivere significasse esclusivamente vivere con o senza o contro di lui. Lui, in compenso, quasi non esiste: non ha un profilo psicologico comprensibile (nell' opera buffa tutti l' avevano, era il sigillo stesso dell' esistere), quando sta in scena ci sta, quasi esclusivamente, facendo finta di essere un altro, e cioè travestito; tutte le volte che può si fa sostituire da Leporello, travestendo lui o mandandolo avanti a parlare al posto suo; non ha praticamente un' Aria sua e quando Mozart e Da Ponte gliela danno la brucia in un' apparizione di puro ritmo che non dice nulla su di lui se non che, appunto, è un ritmo, un' energia (Finch' han dal vino). Su di sé dice pochissimo, sentimenti veri non sembra averne. Giunto al finale, dove in teoria non c' è più spazio per le menzogne, se la cava dialogando con un morto, in piena evaporazione nel sovrannaturale. In un certo senso vale per noi quello che lui dice a Donn' Anna quando lei cerca di smascherarlo: «Donna folle indarno gridi/ chi io sia giammai saprai». Se c' è qualcosa che si chiama l' umano (e l' opera buffa era lì per raccontare proprio quello), Don Giovanni riesce sempre a piazzarsene fuori, in una meticolosa dislocazione che lo fa sfumare a visione pura e semplice. Eppure: quello è il Don Giovanni. Per noi è la sua storia. Un altro edificio costruito su un buco nero. Centodieci anni prima di Dracula. Posso aggiungere qualche altra curiosa parentela tra il Don Giovanni di Mozart e il Dracula di Stoker? Ecco qua. - A parte la prima seduzione di Zerlina, tutte le azioni significative del Don Giovanni, e in particolare le aggressioni erotiche di Don Giovanni, avvengono di notte: come le aggressioni di Dracula. - Nel cast (per così dire) del Don Giovanni compare un non-morto: il Commendatore. Magari non succhia sangue, ma certo non è un morto normale. - Dove è collocata la scena cruciale del Don Giovanni? In un cimitero. - Le vittime di Don Giovanni sono tre: Donna Elvira, Donn' Anna, Zerlina. Come sono tre quelle di Dracula: Jonathan Harker, Lucy Westenra, Mina Harker. - Nel rapporto tra Dracula e Renfield il pazzo, c' è lo stesso rapporto di odio/amore, servo/padrone che c' è tra Don Giovanni e Leporello. - La geografia dei nemici di Don Giovanni è: due coppie di amanti, un single e un vecchio. Quella dei nemici di Dracula è: due coppie di amanti, due single e un vecchio. Posso aggiungere che, in entrambi i casi, una delle due coppie sopravvive all' incursione del seduttore-vampiro, l' altra no (Lucy/Arthur e Donn' Anna/Don Ottavio). - Scene paurosamente identiche: a) la seduzione di Donn' Anna avviene di notte, Don Giovanni è calato in un mantello vampiresco, lei si risveglia dopo il fattaccio come da uno stato di sonnambulismo, e si ritrova il padre stecchito, al fianco. La stessa cosa avverrà a Lucy (capitolo XI). b) Nel capitolo XXII, gli inseguitori di Dracula riescono ad attirarlo in una stanza. Lui entra. Loro sono in cinque. Armati (ostie e coltelli, si sa...) Inspiegabilmente, però, se lo fanno scappare: Dracula fugge dalla finestra, salta nel cortile, scompare. Finale primo del Don Giovanni: stessa situazione: sono in cinque intorno al libertino (Don Ottavio è anche armato: pistola) e l' hanno praticamente preso sul fatto. Ma si fermano a cantare. Lui, cantando, se ne scappa, contro ogni logica. In entrambi i casi è come se qualcosa di sovrannaturale impedisse alla gente di neutralizzare il nemico, anche quando potrebbe farlo. - Frasi intercambiabili: le tre donne vampiro, a Dracula: «Tu, che non hai mai amato, tu che non sai amare!» Don Giovanni a Leporello: «Lasciar le donne? Pazzo! sai ch' elle per me son necessarie più del pan che mangio, più dell' aria che spiro». Voilà. Magari ce ne sono anche altre, di parentele, ma già queste non sono male. Che farsene? Significano qualcosa? Possono essere utili? Risposta: non credo. Coincidenze. O magari Stoker amava ossessivamente il Don Giovanni, magari in qualche angolo riposto del suo cervello quell' opera ha continuato a lavorarselo sotterraneamente dettandogli modelli e trucchi vari. Può darsi. Non lo so. Ma è poi importante? La genesi di un atto creativo è sempre ricchissima e misteriosa, non è detto che risalirla controcorrente porti al segreto di quell' atto: magari ne allontana. Per cui: sono parallelismi sorprendenti, anche divertenti, ma sostanzialmente inutili. Eccetto che per una cosa: accostano, per così dire oggettivamente, quelle due storie. Creano una motivata urgenza a collegarle, a prescindere da qualsiasi reale parentela. In definitiva: suggeriscono l' ipotesi che, sovrapponendole, si ottenga una figura che potrebbe essere il loro senso. Proviamo. Se si sovrappone Dracula al Don Giovanni la prima cosa che succede è che si legge meglio il suo schema fondativo. Lo riassumerei così: una comunità apparentemente sana e funzionante inizia a marcire per l' incursione di una forza estranea che, dall' interno, si mette a corroderla. La comunità reagisce. Alla fine riesce ad annientare il virus, ma a una condizione: alleandosi con il sovrannaturale. Non è uno schema abituale. Il protagonista è il virus, che NON è un membro della comunità. Ed è un' entità non comprensibile, non prevista dalla logica delle cose, un soggetto senza nome, in definitiva non umano. Per un romanzo di fine Ottocento (come per un' opera di fine Settecento) il terreno abituale era un altro: in una comunità sana e funzionante uno dei membri imprime una deviazione ai propri comportamenti che mette in sofferenza l' intero sistema. Alla fine la comunità fa rientrare il pericolo, spesso annientando il soggetto deviato, comunque sempre combattendo con armi interne al sistema. Questo sì era lo schema più naturale. Le fortune del romanzo ottocentesco poggiano su quello schema. Offriva al lettore il brivido di immedesimarsi nel soggetto deviato (che lui, potenzialmente, era) e simultaneamente gli offriva la certezza che la comunità avrebbe poi sistemato tutto, rassicurandolo sul fatto che tutto era sotto controllo. Ma Dracula no. Dracula è diverso. Innanzitutto la comunità non è in grado di farcela da sola: inizia a vincere solo quando accetta di pensare l' impensabile, ad ammettere l' esistenza dell' inconcepibile, a scendere sul terreno del mistero, delle superstizioni, del non più controllabile. Non è poi molto rassicurante che Van Helsing e compagni alla fine ce la facciano a stecchire il vampiro: una volta ammesso che cose del genere possano accadere, l' infinito del possibile sarà lì ogni santo giorno a compromettere qualsiasi quotidiana tranquillità. E poi: il lettore, nel suo istintivo lavoro di immedesimazione, è sbalzato via dal posto di comando. Voglio dire che, comunque la si rigiri, è impossibile immedesimarsi in Dracula: lo si può ammirare, lo si può perfino amare, ma immedesimarsi? Come ti immedesimi in uno che non esiste? Che è un buco nero? Che neanche è vivo? è così ovvio che, al contrario, finisci per immedesimarti con tutti gli altri, anche se non vorresti, anche se poi non lo ammetti, ma se tu, proprio tu, sei da qualche parte, in quel romanzo, tu sei Mina, Jonathan e tutti gli altri, in bilico tra fascinazione assoluta per Dracula e terrore totale, lì a baciarlo e a cercare di fregarlo, simultaneamente. Noi siamo Emma Bovary. Ma non siamo Dracula, e nemmeno, ahimè, Don Giovanni. Noi non sopravvivremmo a quella condizione di sconfinata non esistenza. Noi stiamo sull' orlo del buco nero. Ma dentro, mai. Possiamo tollerare di farlo in un incubo notturno o per rari istanti sul lettino dello psicanalista. Ma non seduti a teatro, non sdraiati a leggere un libro. Riassumendo, Dracula sarebbe figlio di uno schema narrativo anomalo in cui il principio dinamico della storia è collocato in un buco nero, e il lettore è dislocato tra le vittime di quel principio, lì a difendersi e a rispondere alle mosse di un nemico onnipotente che non conosce e non ha mai visto prima. Esisteva già un simile modello prima di Dracula? La presenza del Don Giovanni dice di sì. E immagino che decine di altri esempi potrebbero confermare. Così come non sarebbe difficile ricostruire lo sviluppo di quel modello dopo Dracula (su su fino al Cavaliere inesistente di Calvino passando per L' uomo senza qualità?) Ma quel che importa qui è fissare il decisivo perfezionamento che Stoker imprime a quel modello. Per così dire, lui lo porta alle estreme conseguenze. Intuisce che è un modello destabilizzante, che mette il lettore in difficoltà e, in generale, spinge l' umano alle corde: gli toglie la sicurezza di un centro stabile e anche la consolazione di una cornice infrangibile. Prende alla lettera la constatazione che, raccontato così, il mondo inizia a far paura: e lascia che quel modello, nel modo più esplicito, scenda negli inferi del terrore. Non frena, anzi, accelera. Quel che crepita nel Don Giovanni, in Dracula esplode: il buco nero è terrorizzante. Lo è senza protezioni e in modo meravigliosamente esatto: difficile immaginare un personaggio che meglio di Dracula prenda su di sé, e traduca in carne e parole, il terrore. Non c' è nulla che, in lui, non sia terrore cristallizzato in gesto, immagine, parola, odore, tempo, colore. L' artigiano che era in Stoker lavorò da dio. Senza trascurare il minimo dettaglio. Se c' era un modo per dire che un mondo senza centro è un campo da gioco terrorizzante, Dracula lo disse. E quel vampiro è, simultaneamente, l' enunciazione di un teorema e la sua dimostrazione. Il che può aiutare a capire come si sia impigliato, una volta per sempre, nella fantasia collettiva. La gente non ha molto tempo. Ha bisogno di sintesi. Quel vampiro è una sintesi formidabile. Se si sovrappone Dracula a Don Giovanni la prima cosa che accade, dicevo, è che si legge meglio il suo schema fondativo. La seconda, non meno rivelativa, è una sorta di contagio. Per così dire, stinge in Dracula il colore che domina il Don Giovanni: il sesso. O più precisamente: il desiderio. Don Giovanni era quello: non era un individuo, ma piuttosto un istinto, la forza di quell' istinto: il desiderio. Immettete una cellula libera di desiderio in un corpo sociale sano e quello che otterrete è la malattia: è quel che hanno raccontato Mozart e Da Ponte. Se accostate al loro capolavoro Dracula, l' osmosi è immediata. Il romanzo di Stoker non offre la minima resistenza a una coloratura erotica: sembra che non aspetti altro. è sesso dall' inizio alla fine. Valga per tutte la seguente scena, che merita di essere citata integralmente: «La luna splendeva, tanto che la sua luce, filtrando attraverso le spesse tende gialle, bastava a illuminare la stanza. Sul letto vicino alla finestra giaceva Jonathan Harker, il volto arrossato e il respiro pesante, come se fosse in uno stato di torpore. Inginocchiata sull' orlo del letto, dalla parte opposta, la figura di sua moglie, in camicia da notte bianca. Al suo fianco, un uomo alto e magro, vestito di nero. Sebbene la sua faccia non fosse rivolta verso di noi, ci è bastato un istante per riconoscere in lui il conte - ogni suo tratto e perfino la cicatrice sulla fronte. Con la sinistra, stringeva entrambe le mani della signora Harker, tenendole le braccia tese dietro la schiena; con la destra le aveva afferrato la nuca, e costringeva la donna a premere il viso contro il suo petto. La camicia da notte candida era macchiata di sangue, e un rivolo sottile gocciolava sul petto dell' uomo, che l' abito strappato metteva in mostra. La posizione dei due aveva una tremenda somiglianza con la scena di un bambino che spinge a forza la testa di un micetto contro un piatto, per obbligarlo a bere». A dire il vero la posizione dei due ha una tremenda somiglianza con qualcos' altro. E non è che ci voglia una fantasia particolarmente perversa per capirlo. Rito vampiresco e atto sessuale dimorano uno nell' altro con un' esattezza che non lascia molti margini di dubbio. Dracula gronda di scene del genere. E frasi. E ammicchi. Non so cosa ne pensasse il pubblico del 1897, ma se non si accorgeva di nulla significa che era davvero malmesso. Quanto a Stoker mi rifiuto di credere che non sapesse cosa stava scrivendo. E dunque quello che non si può far finta di non sapere è che tutto il libro racconta sesso. Con l' aiuto del Don Giovanni possiamo enunciare qualcosa di più: quel libro dice, pur senza poterlo dire, che il virus che ammala il mondo, e il buco nero che lo mette in movimento, è il desiderio, quando lo si lasci cieco, impersonale, ineducato, libero. Come nel Don Giovanni, non è qui questione di un individuo che inclina a un uso un po' spregiudicato del desiderio e quindi mette in difficoltà il suo mondo (Emma Bovary). Qui è pronunciato qualcosa di più radicale. Il desiderio è impersonale, è una forza incontrollabile e sovraindividuale, è un istinto cieco che riemerge da secoli di letargo, è la barbarie che ritorna, inopinatamente raffinata, ricca e seducente. Da Don Giovanni non divorzi. E Dracula non lo curi. Il piccolo armamentario dei medicamenti borghesi non può nulla contro quel tipo di desiderio. Vuoi salvarti? Allora inizia ad abituarti a un mondo in cui nemmeno i confini tra vita e morte sono certi, e la tua fidanzata, morta, la notte va in cerca di bambini da prosciugare, e tuo padre, morto, torna ogni tanto a punire i tuoi amanti. Non piace, quel mondo? Peccato, è l' unico che c' è.

Cerami

(citato al seminario del lunedì)
Repubblica 3.7.03
il personaggio è un provocatore
Il dizionario letterario della Utet ha ridato centralità alle figure romanzesche
VINCENZO CERAMI

La pubblicazione del dizionario dei personaggi letterari ad opera della Utet, ha fatto tornare di attualità un tema che fin dall' epoca di Aristotele è all' origine di un dibattito in continuo movimento. Negli ultimi tempi la figura del personaggio letterario ha conosciuto un' ingiusta sbiaditezza, nella diffusa e fors' anche sbagliata convinzione che nel Novecento i personaggi romanzeschi, a causa di un consumato e ormai inefficace realismo, abbiano totalmente perso la loro centralità letteraria. Di qui un accresciuto interesse per la letterarietà del testo, a discapito della credibilità del personaggio. Questo, in soldoni, è alla base dell' inattualità, troppo a lungo subita, della figura del personaggio. Quindi un benvenuto alla sontuosa opera della Utet (di cui ha già parlato Stefano Bartezzaghi) è più che mai doveroso. Tra le tante variazioni sul tema ce n' è una che a mio avviso ne trascina un bel numero: il rapporto tra testo e contesto storico-linguistico in cui agisce il personaggio. Questo rapporto ne chiama necessariamente in gioco un secondo, tra scrittore e personaggio. Partiamo da quest' ultimo. Il legame è regolato da alcuni dati di partenza, tra i quali l' uso della prima persona (il lettore sa solo ciò che racconta il personaggio), della terza (il lettore sa anche ciò che il personaggio ignora) o dell' indiretto libero (il lettore vive come oggettiva la soggettività del personaggio, la quale può essere sempre smentita nel caso lo scrittore decida di mostrare l' oggettività dei fatti). Ovviamente ad ognuna delle opzioni corrisponde una specifica drammaturgia. Uno scrittore non può fare a meno di scegliere, tra queste possibilità, la più adatta al suo racconto. Un altro dato fondamentale che regola il rapporto scrittore-personaggio è indicato da Frey e fa riferimento alle differenze culturali, lessicali e psicologiche tra i due universi. Lo scrittore può essere «superiore», «uguale» o «inferiore» al personaggio. Anche questa scelta comporta tre diversi modi di concepire la narrazione. Per esempio, la caricatura implica una superiorità dello scrittore (che del personaggio sa tutto in partenza). Nel racconto autobiografico ingenuo c' è parità tra scrittore e personaggio, addirittura identificazione. I casi in cui lo scrittore è inferiore al personaggio riguardano soprattutto i racconti fantastici, popolati di alchimisti, maghi, scienziati pazzi, eccetera, i quali vivono poco di vita propria ma servono a fare da filtro e da tramite tra scrittore e lettore nelle descrizioni del meraviglioso. Un' altra, più complessa, determinazione del rapporto tra scrittore e personaggio sta nella strutturazione stessa del racconto: nel passaggio dalla fabula, cioè dall' ordine cronologico dei fatti, all' intreccio il personaggio cambia completamente di segno. In questo passaggio lo scrittore decide dove essere reticente e dove svelare le reticenze. In poche parole offre al lettore una chiave per interpretare le azioni del personaggio. L' Ivan Il'ic di Tolstoj è un evidente esempio di personaggio che prende spessore perché costruito su un «recupero analettico», su una retrospezione (l' ordine dei fatti ha inizio nel secondo capitolo; il primo capitolo ne è il tragico epilogo). Come si vede, anche nello studio dell' intreccio si può decidere quale aspetto del personaggio si vuole mettere più in luce. Dirò di più: si può scoprire in lui un lato imprevedibile. La vera questione è la seguente: nel momento in cui uno scrittore si mette all' opera, conosce o no il personaggio? Se lo conosce bene gli costruirà intorno una trama che lo faccia esprimere al meglio. Se non lo conosce a fondo, lo vorrà conoscere proprio attraverso la narrazione. In entrambi i casi il personaggio resta centrale al racconto, al di là dei suoi connotati realistici e della sua funzione narrativa. Ed è qui che si impone l' altra parte del discorso, meno tecnica ma fondamentale per decifrare la poetica di un autore: l' impostazione del rapporto tra testo e contesto storico-linguistico del personaggio, rapporto speculare (anche se indiretto) tra lo scrittore e la sua epoca. La questione del «realismo» la si può anche far nascere e morire qua. Vediamo invece da quale punto ha origine ogni narrazione. Sicuramente dall' installazione di un conflitto: non ci può essere alcuna narrazione in assenza di conflitto, come fece notare Sklovskij. Dunque lo scrittore non può non mettere in scena una conflittualità. Dove può trovarla se non dentro e intorno a sé? Ogni epoca propone conflitti «inediti», peculiari, strettamente connessi alla cultura. Sono traumi insuperati, irrisolti, chiusi nella persona, non bene identificati e ancora non verbalizzati. Le morfologie narrative esistenti funzionano poco nell' espressione delle nuove conflittualità, perché sono state costruite per altre conflittualità. Ecco, allora, che lo scrittore è chiamato a risolvere «tecnicamente» la questione, cercando di superare i problemi strutturali e stilistici che la novità dei temi impone. Il personaggio è sia il portatore che il provocatore del conflitto. Cercare di mettere a fuoco il conflitto significa cercare un personaggio e farlo muovere nell' ambiente giusto, nei modi giusti (attraverso lo stile della scrittura). Per quanto si voglia fare uscire il realismo dalla porta, rientra sempre dalla finestra, anche perché la lingua usata dallo scrittore, riga dopo riga, pagina dopo pagina, ha referenti profondi nella realtà di tutti. Le avanguardie degli anni Sessanta, negando la centralità del personaggio, ne hanno esaltato l' assenza, valorizzandolo enfaticamente, quasi a piangerne la mancanza. è ovvio che la credibilità e la coerenza di un personaggio non hanno niente a che vedere con la verosimiglianza realistica, extratestuale. Eppure molti pregiudizi nascono da questo malinteso.