Il Mattino 21.4.05
Nascono a Napoli i nuovi esperti in problemi dell'adolescenza, un team di novanta super educatori per gestire una delle fasi più delicate del processo di formazione. Via libera infatti al bando di partecipazione al Corso di perfezionamento in Scienze della Formazione sul tema "L'adolescente e il suo mondo: dinamiche e interazioni", organizzato dall'Università Suor Orsola Benincasa e dall'Istituto per ricerche ed attività educative (Ipe). Si tratta di un pacchetto formativo ad alta specializzazione, due mesi di lezioni ed esercitazioni pratiche rivolte a neolaureati, docenti di scuola e università, educatori o assistenti sociali, responsabili di centro di orientamento regionali, funzionari di enti locali, dirigenti di imprese e di enti che operano nel sistema scuola e tutti coloro che intendono specializzarsi nel campo dell'orientamento e della gestione dei processi formativi. "L'obiettivo - spiega Sergio d'Ippolito, direttore organizzativo del corso - è di formare un nuovo profilo professionale ad alta competenza e specializzazione su un tema che ha grande impatto sociale. Le problematiche legate agli adolescenti e lo studio dei fenomeni adolescenziali rivestono infatti un ruolo di primo piano non solo nel sistema famiglia ma anche nel sistema sociale. L'ottica non è solo quella di gestire e prevenire devianze e piaghe sociali, non ultima la criminalità, che spesso sono legate proprio a problemi di crescita della persona, ma soprattutto quella di fornire a tutti coloro che sono impegnati in attività di orientamento con i giovani tutti quegli strumenti che permettano all'adolescente di assumere consapevolezza delle sue caratteristiche personali e di svilupparle in vista delle scelte dei suoi studi e delle sue attività professionali." I moduli didattici sono affidati a docenti universitari specialisti in diverse discipline, dalla letteratura alla psicologia, alla sociologia della comunicazione, dalla pedagogia dello studio alla didattica: l'area pedagogica sarà affidata a Giuseppe Fioravanti e Ornella De Sanctis, l'area psicologica ad Anna Maria Costa, Franco Poterzio e Antonello Persico; l'area didattica e linguistica a Silvia Zoppi e Riccardo Garbini; l'area delle nuove comunicazioni a Michele Crudele, Guido Vinelli, l'area storico-sociologica a Corrado Guerre, Tonino Ciuffi e Giovanni Turco. Il Comitato tecnico scientifico è composto dal prorettore del Suor Orsola Lucio D'Alessandro, insieme a Giuseppe Fioravanti, Sergio d'Ippolito e Maurizio Sibilio. Saranno accettate solo le prime 90 domande, che vanno presentate entro il 26 aprile.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 21 aprile 2005
dai sintomi psicosomatici alla depressione
Yahoo! Salute 31.4.05
Psichiatria, Psicologia e Neurologia, Il Pensiero Scientifico Editore
Bambini “psicosomatici”, dieci anni dopo
Antonella Sagone
In questo studio, i ricercatori hanno effettuato delle interviste sia ai bambini che ai loro genitori a proposito dei sintomi fisici di questi ultimi. I bambini, dell’età di otto anni, appartenevano a due gruppi: il primo intervistato nel 1989 e il secondo dieci anni dopo. Inoltre gli studiosi hanno richiesto anche la collaborazione degli insegnanti per la compilazione di due test per l’accertamento della depressione e di altri sintomi psichiatrici. Un dato emerso in entrambi i gruppi è stata la frequente difficoltà per i genitori di rilevare i problemi psicosomatici dei loro figli.
Frequenti mal di testa e dolori addominali sono emersi in tutti e due i gruppi, ma nel secondo erano più frequenti. Dieci anni dopo, inoltre, i sintomi psicosomatici sono risultati associati, oltre che con la depressione, anche con quadri di iperattività. Dai risultati si evidenzia l’importanza di sentire sempre anche la testimonianza diretta dei bambini quando si indagano problematiche di tipo psicosomatico, perché gli adulti non sempre sono in grado di notarle. Inoltre, emerge la necessità di effettuare sempre accertamenti a 360 gradi, indagando sugli aspetti somatici in presenza di problemi psicologici, e viceversa. I motivi dell’aumento di fenomeni psicosomatici, e delle variazioni nelle loro associazioni a sintomi psichiatrici, vanno indagati con ulteriori studi.
Fonte: Santalahti P, Aromaa M, Sourander A et al. Have there been changes in children’s psychosomatic symptoms? A 10-year comparison from Finland. Pediatrics 2005;115(4):e434-42.
Psichiatria, Psicologia e Neurologia, Il Pensiero Scientifico Editore
Bambini “psicosomatici”, dieci anni dopo
Antonella Sagone
Come cambia nel tempo la frequenza di sintomi psicosomatici nei bambini in età scolare? uno studio ha messo a confronto dati raccolti su due diversi gruppi di bambini a distanza di dieci anni, notando cambiamenti. La ricerca è descritta sulla rivista PediatricsI bambini somatizzano facilmente le tensioni e le difficoltà; la loro difficoltà a verbalizzare e mettere a fuoco chiaramente il disagio psicologico può portarli a esprimere attraverso il corpo ciò che non sanno esprimere bene con la parola. Mal di testa, dolori addominali o di altre localizzazioni, nausea e vomito sono fra i sintomi più comuni che possono colpire un bambino nell’età della scuola primaria. Indagare non solo la frequenza di queste manifestazioni, ma anche come si associano con quadri più prettamente psichiatrici può essere utile; come anche importante è essere consapevoli della diversa percezione che dello stesso problema può avere il genitore, l’insegnante e il bambino stesso.
In questo studio, i ricercatori hanno effettuato delle interviste sia ai bambini che ai loro genitori a proposito dei sintomi fisici di questi ultimi. I bambini, dell’età di otto anni, appartenevano a due gruppi: il primo intervistato nel 1989 e il secondo dieci anni dopo. Inoltre gli studiosi hanno richiesto anche la collaborazione degli insegnanti per la compilazione di due test per l’accertamento della depressione e di altri sintomi psichiatrici. Un dato emerso in entrambi i gruppi è stata la frequente difficoltà per i genitori di rilevare i problemi psicosomatici dei loro figli.
Frequenti mal di testa e dolori addominali sono emersi in tutti e due i gruppi, ma nel secondo erano più frequenti. Dieci anni dopo, inoltre, i sintomi psicosomatici sono risultati associati, oltre che con la depressione, anche con quadri di iperattività. Dai risultati si evidenzia l’importanza di sentire sempre anche la testimonianza diretta dei bambini quando si indagano problematiche di tipo psicosomatico, perché gli adulti non sempre sono in grado di notarle. Inoltre, emerge la necessità di effettuare sempre accertamenti a 360 gradi, indagando sugli aspetti somatici in presenza di problemi psicologici, e viceversa. I motivi dell’aumento di fenomeni psicosomatici, e delle variazioni nelle loro associazioni a sintomi psichiatrici, vanno indagati con ulteriori studi.
Fonte: Santalahti P, Aromaa M, Sourander A et al. Have there been changes in children’s psychosomatic symptoms? A 10-year comparison from Finland. Pediatrics 2005;115(4):e434-42.
altri sedicenti psicoterapeuti
Repubblica Salute 21.4.05
Le parole per dirlo: ma la cura è soltanto raccontare?
di Margherita Spagnuolo Lobb
(Presidente Fiap)
La psicoterapia è ormai un metodo di cura diffuso, a cui molti si rivolgono con risultati positivi. Oggi, nell'era post-moderna, continuiamo a riproporre la domanda: "Che cosa fa cambiare veramente le persone in psicoterapia?". Possiamo ancora dire, con Freud, un secolo dopo la fondazione della psicoanalisi, "tutto ciò che è Es deve diventare Io"?
Su questa domanda si interrogano trasversalmente tutti i metodi delle psicoterapie nel congresso della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia che oggi si apre a Siracusa. Il titolo, L'implicito e l'esplicito in psicoterapia, sottende la domanda: ciò che fa cambiare in psicoterapia è la "conoscenza relazionale esplicita", ossia il rendere dicibile ciò che non lo è, o è la "conoscenza relazionale implicita", ciò che avviene tra paziente e terapeuta nella sfera dell'indicibile?
Il discorso di apertura è affidato a Daniel Stern, che ha sempre lavorato nell'interfaccia tra la ricerca e la psicoterapia. Egli è arrivato alla conclusione che "la conoscenza implicita (mai verbalizzata) gioca un ruolo enorme nel cambiamento delle persone in psicoterapia". I teorici dello sviluppo ci chiariscono che alcune esperienze sono preverbali e appartengono ad un linguaggio senza parole. Le neuroscienze confermano, per esempio, con la scoperta dei neuroni specchio, che il nostro cervello è costruito per e dalla relazione, che abbiamo capacità innate di stare in relazione in modi non verbali.
Il tema del congresso ha a che fare, dunque, con il rapporto tra il disagio psichico e la parola. Il dettato di Freud sottendeva l'idea che il disturbo psicologico è determinato dal suo essere inaccessibile alla coscienza, e quindi al controllo della ragione. Ne conseguiva che il principale metodo di cura fosse l'interpretazione.
Nonostante i cambiamenti culturali che hanno attraversato la psicoterapia, questa idea rappresenta ancora l'anima centrale della prassi di tutte le psicoterapie. Tutti gli approcci, compresi quelli che pongono al centro del loro metodo il non verbale o gli aspetti processuali della relazione, necessitano di un'evoluzione sull'uso terapeutico della comunicazione relazionale implicita. La tesi della cura come dicibilità, come narrazione, si basa sul presupposto che il disturbo risiede nel non detto. Il rendere dicibile l'esperienza da cui è scaturito lo restituisce alla relazione, attraverso il canale delle parole. Ma è solo questo, il non dicibile, di cui si occupa la relazione terapeutica? O altro? La tachicardia durante un attacco di panico, per esempio. Perfino nella relazione terapeutica, terapeuta e paziente "si annusano" fino a decidere quanto sono "fatti l'uno per l'altro". La "cura" non consiste nell'aiutare il paziente a capire e controllare, ma a vivere pienamente rispettando la propria innata capacità di regolarsi nella relazione, e non solo a livello verbale.
Il secondo congresso della psicoterapia italiana affronta dunque un tema scientifico centrale: non c'è da meravigliarsi, dato che la formazione in psicoterapia in Italia è tra le più qualificate nel mondo. La nostra legge (laborioso compromesso tra il mondo accademico, medico e psicoterapico) se da una parte è criticata nel resto d'Europa per il fatto che consente l'accesso alla psicoterapia solo a medici e psicologi, dall'altra garantisce gli standard formativi più rigorosi. Il doppio canale pubblico e privato nella formazione crea un clima di apertura mentale e libertà di scelta. Il prossimo passo, per la professione, è sicuramente la costruzione di una legge europea sulla psicoterapia, necessaria sia per la libera circolazione dei professionisti europei e per il dialogo scientifico tra di essi.
Repubblica Salute 21.4.05
Psicoterapia al gran consulto
A Siracusa, da oggi al 24, il Congresso delle Associazioni: obiettivo Europa
(m. pag.)
ORIENTARSI nel panorama delle psicoterapie per una paziente è assai complesso. Rogersiani, lacaniani, freudiani, junghiani, reichiani, gestaltisti, analisti transazionali, cognitivisti, comportamentisti, adleriani e via di seguito, per non parlare di terapie familiari, di coppia, di gruppo, per adolescenti, infantile. L'occasione di un dialogo scientifico e di prospettiva (la richiesta di un riconoscimento europeo) è il secondo congresso della Federazione italiana delle Associazioni di Psicoterapia (Fiap) in collaborazione con il Coordinamento delle Scuole di Psicoterapia (Cnsp) (Siracusa, 21-24; www.gestalt.it/fiap). Diversi approcci (sfiorano le 200, in Italia, le scuole di formazione riconosciute, riconducibili ad una sessantina di associazioni) che si rifanno alla "Dichiarazione di Strasburgo sulla Psicoterapia" del 1990: disciplina scientifica indipendente; formazione scientifica avanzata sulla base di qualifiche preliminari (soprattutto nelle scienze umani e sociali, dice il testo) e che comprende teoria, esperienza su di sé, supervisione. Nell'interrogarsi sulla professione, gli psicoterapeuti italiani hanno scelto il tema dell'esplicito e implicito (vedi qui sotto), con interventi di ricercatori, teorici e clinici, come Daniel Stern, Giovanni Liotti, Massimo Ammaniti, Bruno Callieri; con workshop e tavole rotonde (Leonardo Ancona, Camilllo Loriedo, Maurizio Andolfi, Rodolfo De Bernart, Paolo Migone, Gabriele Chiari, Alberto Zucconi e altri), si svilupperà un confronto tra approcci diversi nella terapia, riflessioni sul concetto di inconscio, questioni etiche, formazione, informazione.
Le parole per dirlo: ma la cura è soltanto raccontare?
di Margherita Spagnuolo Lobb
(Presidente Fiap)
La psicoterapia è ormai un metodo di cura diffuso, a cui molti si rivolgono con risultati positivi. Oggi, nell'era post-moderna, continuiamo a riproporre la domanda: "Che cosa fa cambiare veramente le persone in psicoterapia?". Possiamo ancora dire, con Freud, un secolo dopo la fondazione della psicoanalisi, "tutto ciò che è Es deve diventare Io"?
Su questa domanda si interrogano trasversalmente tutti i metodi delle psicoterapie nel congresso della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia che oggi si apre a Siracusa. Il titolo, L'implicito e l'esplicito in psicoterapia, sottende la domanda: ciò che fa cambiare in psicoterapia è la "conoscenza relazionale esplicita", ossia il rendere dicibile ciò che non lo è, o è la "conoscenza relazionale implicita", ciò che avviene tra paziente e terapeuta nella sfera dell'indicibile?
Il discorso di apertura è affidato a Daniel Stern, che ha sempre lavorato nell'interfaccia tra la ricerca e la psicoterapia. Egli è arrivato alla conclusione che "la conoscenza implicita (mai verbalizzata) gioca un ruolo enorme nel cambiamento delle persone in psicoterapia". I teorici dello sviluppo ci chiariscono che alcune esperienze sono preverbali e appartengono ad un linguaggio senza parole. Le neuroscienze confermano, per esempio, con la scoperta dei neuroni specchio, che il nostro cervello è costruito per e dalla relazione, che abbiamo capacità innate di stare in relazione in modi non verbali.
Il tema del congresso ha a che fare, dunque, con il rapporto tra il disagio psichico e la parola. Il dettato di Freud sottendeva l'idea che il disturbo psicologico è determinato dal suo essere inaccessibile alla coscienza, e quindi al controllo della ragione. Ne conseguiva che il principale metodo di cura fosse l'interpretazione.
Nonostante i cambiamenti culturali che hanno attraversato la psicoterapia, questa idea rappresenta ancora l'anima centrale della prassi di tutte le psicoterapie. Tutti gli approcci, compresi quelli che pongono al centro del loro metodo il non verbale o gli aspetti processuali della relazione, necessitano di un'evoluzione sull'uso terapeutico della comunicazione relazionale implicita. La tesi della cura come dicibilità, come narrazione, si basa sul presupposto che il disturbo risiede nel non detto. Il rendere dicibile l'esperienza da cui è scaturito lo restituisce alla relazione, attraverso il canale delle parole. Ma è solo questo, il non dicibile, di cui si occupa la relazione terapeutica? O altro? La tachicardia durante un attacco di panico, per esempio. Perfino nella relazione terapeutica, terapeuta e paziente "si annusano" fino a decidere quanto sono "fatti l'uno per l'altro". La "cura" non consiste nell'aiutare il paziente a capire e controllare, ma a vivere pienamente rispettando la propria innata capacità di regolarsi nella relazione, e non solo a livello verbale.
Il secondo congresso della psicoterapia italiana affronta dunque un tema scientifico centrale: non c'è da meravigliarsi, dato che la formazione in psicoterapia in Italia è tra le più qualificate nel mondo. La nostra legge (laborioso compromesso tra il mondo accademico, medico e psicoterapico) se da una parte è criticata nel resto d'Europa per il fatto che consente l'accesso alla psicoterapia solo a medici e psicologi, dall'altra garantisce gli standard formativi più rigorosi. Il doppio canale pubblico e privato nella formazione crea un clima di apertura mentale e libertà di scelta. Il prossimo passo, per la professione, è sicuramente la costruzione di una legge europea sulla psicoterapia, necessaria sia per la libera circolazione dei professionisti europei e per il dialogo scientifico tra di essi.
Repubblica Salute 21.4.05
Psicoterapia al gran consulto
A Siracusa, da oggi al 24, il Congresso delle Associazioni: obiettivo Europa
(m. pag.)
ORIENTARSI nel panorama delle psicoterapie per una paziente è assai complesso. Rogersiani, lacaniani, freudiani, junghiani, reichiani, gestaltisti, analisti transazionali, cognitivisti, comportamentisti, adleriani e via di seguito, per non parlare di terapie familiari, di coppia, di gruppo, per adolescenti, infantile. L'occasione di un dialogo scientifico e di prospettiva (la richiesta di un riconoscimento europeo) è il secondo congresso della Federazione italiana delle Associazioni di Psicoterapia (Fiap) in collaborazione con il Coordinamento delle Scuole di Psicoterapia (Cnsp) (Siracusa, 21-24; www.gestalt.it/fiap). Diversi approcci (sfiorano le 200, in Italia, le scuole di formazione riconosciute, riconducibili ad una sessantina di associazioni) che si rifanno alla "Dichiarazione di Strasburgo sulla Psicoterapia" del 1990: disciplina scientifica indipendente; formazione scientifica avanzata sulla base di qualifiche preliminari (soprattutto nelle scienze umani e sociali, dice il testo) e che comprende teoria, esperienza su di sé, supervisione. Nell'interrogarsi sulla professione, gli psicoterapeuti italiani hanno scelto il tema dell'esplicito e implicito (vedi qui sotto), con interventi di ricercatori, teorici e clinici, come Daniel Stern, Giovanni Liotti, Massimo Ammaniti, Bruno Callieri; con workshop e tavole rotonde (Leonardo Ancona, Camilllo Loriedo, Maurizio Andolfi, Rodolfo De Bernart, Paolo Migone, Gabriele Chiari, Alberto Zucconi e altri), si svilupperà un confronto tra approcci diversi nella terapia, riflessioni sul concetto di inconscio, questioni etiche, formazione, informazione.
la necrofilia di Derrida
L'Unità 21 Aprile 2005
Un libro raccoglie le orazioni funebri del filosofo per celebri amici morti: da Roland Barthes a Michel Foucault, da Gilles Deleuze a Emmanuel Lévinas
Derrida, la corrispondenza d’amorosi sensi con la morte
Beppe Sebaste
Nelle orecchie avevo ancora il panegirico del Papa che «ci guarda dall’alto», (come ha detto il nuovo Papa), mentre rileggevo la traduzione italiana dell’«ultimo libro» di Jacques Derrida, raccolta di orazioni funebri per gli amici morti: Ogni volta unica, la fine del mondo. I morti sono scrittori e filosofi illustri, da Roland Barthes a Michel Foucault, da Louis Althusser a Maurice Blanchot, da Gilles Deleuze a Emmanuel Lévinas, ecc., e comunque amici, il dialogo coi quali è divenuto monologo senza risposta, ad-Dio.
Parlare dei morti, coi morti, è il cuore stesso della letteratura, anzi della scrittura, la quale - Derrida lo ha insegnato lungo tutta la sua vita - è irriducibilmente testamentaria, e attesta in primo luogo la mortalità (l’assenza) di chi scrive, così come di chi legge. Se questa «pubblicità» della morte è uno dei motivi per cui Platone avversava la scrittura, analogamente è il suo ostentare la trasformazione della carne in verbo, e del Verbo in carne, l’essenza religiosa, giudaico-cristiana, della parola scritta, morte e risurrezione malgrado tutto. Torna in mente poi quel testo molto bello in cui Jean Genet racconta la visita all’atelier di Alberto Giacometti, e gli confida di voler scrivere, da sempre, per i morti. Al che Giacometti esclama: anch’io ho sempre avuto il desiderio di seppellire le mie sculture, per offrirle ai defunti.
I testi «in morte» di Derrida si affacciamo su questo bordo dell’apostrofe estrema, dove silenzio e parola potrebbero finalmente diventare sinonimi. Potrebbero. Il fatto è che, presi singolarmente, questi scritti di circostanza di Derrida (mai formula suona più appropriata), sono «ogni volta unica» un’intensa lettura, una dedica appropriata e commossa che dà al lettore più di quanto promette. Ma la raccolta di questi testi non fa un bel libro. L’hanno voluta e curata due suoi allievi, Pascale-Anne Brault e Michael Naas, rispettivamente francese e americano. Il risultato, involutivo rispetto ad altri testi dell’autore - innumerevoli quelli già dedicati alla morte, al lutto, perfino alla «propria morte» - produce claustrofobia per i suoi effetti ripetetivi e autoreferenziali, per il suo avvilupparsi nella lingua e nella firma di superstite, di testimone che sa bene che la testimonianza non è mai integrale, mai completa, mai esente dall’autobiografia, ma neppure mai abbastanza abbandonata in essa. Il tono è a volte quello della sua Circonfessione (1991), lamento funebre al capezzale della madre morente, e insieme meditazione su sant’Agostino: «Piango come i miei figli sul bordo della mia tomba», scriveva a un certo punto Derrida palesando l’iterabilità e la concatenazione del dolore e del lutto. Ma la fine di un mondo - la morte dell’individuo, dell’amico o la propria - non è la fine del mondo. È questa pretesa apocalissi - proprio mentre da decenni i matematici formalizzano l’ossimoro di «catastrofi lievi» per dire le «trasformazioni» in natura - a far franare un’opera che nel portare il linguaggio e il pensiero agli estremi limiti ha dato il meglio di sé - e il meglio della filosofia. Forse questi limiti sono stati raggiunti (da cui il senso di virtuosismo di certe pagine di Derrida), e l’intensità estrema come progetto della lingua suggerisce altre vie - estasi, uscite - all’espressione della consapevolezza; e forse quindi tra filosofia e letteratura ogni pretesa differenza va ormai deposta. Forse, infine, dietro le ideologiche formule dette da altri, quali «fine della storia», qualcosa di vero c’è, che coincide con lo scoprire, come mai prima di questa nostra epoca, che la propria morte di individui non ha redenzione né consolazione alcuna, né storica né palingenetica, né tantomeno dello «spirito vivente»; ovvero che l’autocoscienza più o meno hegeliana, quel dire e dirsi «io» (il fono-logo-centrismo, lo chiamava decenni fa Derrida) cessa e si estingue con la propria morte. Il senso di claustrofobia di cui parlo sopra è analogo allora a quello che nella vita politica (ma esiste una vita che non sia politica?) produce la variegata follia del pensiero dell’immunità, opposto a quello di comunità. A meno che non sia proprio «politica» la distrazione più grande, il rinvio, la «differAnza», scriveva Derrida. Vale in questo ambito, Derrida, ancora una volta, lo insegna, il pensiero del sopravvivere, sempre. Che fare, che dire allora in occasione della morte degli amici (poiché, illusoriamente, «sono sempre gli altri che muoiono», come scrisse Marcel Duchamp sulla propria tomba)?
Prendere sul serio la dedica e la morte, secondo Derrida è coniugare alla «politica dell’amicizia» una «politica del lutto». In queste parole, del resto, si riassume l’intera tradizione del pensiero occidentale. Viene in mente quella parola intensa, il verbo salutare, che nel Duecento, come attesta la poesia e in particolare Dante nella Vita nuova, era gravida di sensi. Oltre al saluto si intendeva infatti la salute e la salvezza (dell’anima) - il che giustifica la serietà assorta dell’amata «quand’ella altrui saluta». L’apertura del saluto dice la sacralità della relazione etica, l’epifania del volto del prossimo dinnanzi al quale «non possiamo più potere» (Lévinas), solo testimoniare. Che sia possibile coinvolgere i morti in questo gesto di saluto, salute e salvezza, lo mostrano i riti e i culti, nonché il fatto stesso di scrivere, citando i nomi dei morti che ci guardano, che ci riguardano (chissà se dall’alto, dal basso, da dentro o da tutt’intorno). Che la si chiami «social catena» (con Leopardi), o «corrispondenza d’amorosi sensi», è un dialogo che l’interiorizzazione del lutto costituisce in memoria. Parlare coi morti, dei morti, significa ricordare. E ricordare è la colla che tiene insieme il mondo.
Un libro raccoglie le orazioni funebri del filosofo per celebri amici morti: da Roland Barthes a Michel Foucault, da Gilles Deleuze a Emmanuel Lévinas
Derrida, la corrispondenza d’amorosi sensi con la morte
Beppe Sebaste
Nelle orecchie avevo ancora il panegirico del Papa che «ci guarda dall’alto», (come ha detto il nuovo Papa), mentre rileggevo la traduzione italiana dell’«ultimo libro» di Jacques Derrida, raccolta di orazioni funebri per gli amici morti: Ogni volta unica, la fine del mondo. I morti sono scrittori e filosofi illustri, da Roland Barthes a Michel Foucault, da Louis Althusser a Maurice Blanchot, da Gilles Deleuze a Emmanuel Lévinas, ecc., e comunque amici, il dialogo coi quali è divenuto monologo senza risposta, ad-Dio.
Parlare dei morti, coi morti, è il cuore stesso della letteratura, anzi della scrittura, la quale - Derrida lo ha insegnato lungo tutta la sua vita - è irriducibilmente testamentaria, e attesta in primo luogo la mortalità (l’assenza) di chi scrive, così come di chi legge. Se questa «pubblicità» della morte è uno dei motivi per cui Platone avversava la scrittura, analogamente è il suo ostentare la trasformazione della carne in verbo, e del Verbo in carne, l’essenza religiosa, giudaico-cristiana, della parola scritta, morte e risurrezione malgrado tutto. Torna in mente poi quel testo molto bello in cui Jean Genet racconta la visita all’atelier di Alberto Giacometti, e gli confida di voler scrivere, da sempre, per i morti. Al che Giacometti esclama: anch’io ho sempre avuto il desiderio di seppellire le mie sculture, per offrirle ai defunti.
I testi «in morte» di Derrida si affacciamo su questo bordo dell’apostrofe estrema, dove silenzio e parola potrebbero finalmente diventare sinonimi. Potrebbero. Il fatto è che, presi singolarmente, questi scritti di circostanza di Derrida (mai formula suona più appropriata), sono «ogni volta unica» un’intensa lettura, una dedica appropriata e commossa che dà al lettore più di quanto promette. Ma la raccolta di questi testi non fa un bel libro. L’hanno voluta e curata due suoi allievi, Pascale-Anne Brault e Michael Naas, rispettivamente francese e americano. Il risultato, involutivo rispetto ad altri testi dell’autore - innumerevoli quelli già dedicati alla morte, al lutto, perfino alla «propria morte» - produce claustrofobia per i suoi effetti ripetetivi e autoreferenziali, per il suo avvilupparsi nella lingua e nella firma di superstite, di testimone che sa bene che la testimonianza non è mai integrale, mai completa, mai esente dall’autobiografia, ma neppure mai abbastanza abbandonata in essa. Il tono è a volte quello della sua Circonfessione (1991), lamento funebre al capezzale della madre morente, e insieme meditazione su sant’Agostino: «Piango come i miei figli sul bordo della mia tomba», scriveva a un certo punto Derrida palesando l’iterabilità e la concatenazione del dolore e del lutto. Ma la fine di un mondo - la morte dell’individuo, dell’amico o la propria - non è la fine del mondo. È questa pretesa apocalissi - proprio mentre da decenni i matematici formalizzano l’ossimoro di «catastrofi lievi» per dire le «trasformazioni» in natura - a far franare un’opera che nel portare il linguaggio e il pensiero agli estremi limiti ha dato il meglio di sé - e il meglio della filosofia. Forse questi limiti sono stati raggiunti (da cui il senso di virtuosismo di certe pagine di Derrida), e l’intensità estrema come progetto della lingua suggerisce altre vie - estasi, uscite - all’espressione della consapevolezza; e forse quindi tra filosofia e letteratura ogni pretesa differenza va ormai deposta. Forse, infine, dietro le ideologiche formule dette da altri, quali «fine della storia», qualcosa di vero c’è, che coincide con lo scoprire, come mai prima di questa nostra epoca, che la propria morte di individui non ha redenzione né consolazione alcuna, né storica né palingenetica, né tantomeno dello «spirito vivente»; ovvero che l’autocoscienza più o meno hegeliana, quel dire e dirsi «io» (il fono-logo-centrismo, lo chiamava decenni fa Derrida) cessa e si estingue con la propria morte. Il senso di claustrofobia di cui parlo sopra è analogo allora a quello che nella vita politica (ma esiste una vita che non sia politica?) produce la variegata follia del pensiero dell’immunità, opposto a quello di comunità. A meno che non sia proprio «politica» la distrazione più grande, il rinvio, la «differAnza», scriveva Derrida. Vale in questo ambito, Derrida, ancora una volta, lo insegna, il pensiero del sopravvivere, sempre. Che fare, che dire allora in occasione della morte degli amici (poiché, illusoriamente, «sono sempre gli altri che muoiono», come scrisse Marcel Duchamp sulla propria tomba)?
Prendere sul serio la dedica e la morte, secondo Derrida è coniugare alla «politica dell’amicizia» una «politica del lutto». In queste parole, del resto, si riassume l’intera tradizione del pensiero occidentale. Viene in mente quella parola intensa, il verbo salutare, che nel Duecento, come attesta la poesia e in particolare Dante nella Vita nuova, era gravida di sensi. Oltre al saluto si intendeva infatti la salute e la salvezza (dell’anima) - il che giustifica la serietà assorta dell’amata «quand’ella altrui saluta». L’apertura del saluto dice la sacralità della relazione etica, l’epifania del volto del prossimo dinnanzi al quale «non possiamo più potere» (Lévinas), solo testimoniare. Che sia possibile coinvolgere i morti in questo gesto di saluto, salute e salvezza, lo mostrano i riti e i culti, nonché il fatto stesso di scrivere, citando i nomi dei morti che ci guardano, che ci riguardano (chissà se dall’alto, dal basso, da dentro o da tutt’intorno). Che la si chiami «social catena» (con Leopardi), o «corrispondenza d’amorosi sensi», è un dialogo che l’interiorizzazione del lutto costituisce in memoria. Parlare coi morti, dei morti, significa ricordare. E ricordare è la colla che tiene insieme il mondo.
Sandor Ferenczi
L'Unità 21 Aprile 2005
Sandor Ferenczi e «Papà» Freud
Valeria Viganò
Come sono complesse le relazioni umane e nello stesso tempo come sono ripetitive nelle loro dinamiche. E chi ha tentato più di ogni altro di spiegarne turbamenti, retropensieri, pulsioni inconsce non ne è stato mai esente, in comunanza e in lotta con i compagni ideali che cercavano di spiegare l’animo umano e la sua evoluzione. In questo senso la corrispondenza tra Sigmund Freud e l’amico, collega Sandor Ferenczi illustra meglio di parecchi saggi il lungo percorso intrapreso dalla psicoanalisi, i suoi cambiamenti esterni e interni, le modalità di confronto spesso inevitabilmente aspro tra il fondatore e i suoi seguaci, a tutti gli effetti tra il Grande Padre e i suoi Figli. Tutti loro, prima del tempo di internet, si scambiavano indefessamente lettere giornaliere in cui teoria e pratica si mescolavano in un connubio strettissimo di elaborazioni interpretative di una scienza e di intrecci assolutamente personali e intimi, fatti di tradimenti, delusioni, ripicche, affidamento.
Freud e Ferenczi si scrissero dal 1908 fino alla morte del più giovane Ferenczi nel 1933. Sono stati già pubblicati i primi due volumi (in Italia se ne occupa Cortina Editore), e ora è appena uscito in Germania il terzo tomo delle lettere tra i due che copre gli anni dal 1925 al ’33 (Sigmund Freud - Sándor Ferenczi: Briefwechsel Band III/2: 1925 bis 1933, a cura di von Ernst Falzeder, Eva Brabant, Patrizia Giampieri-Deutsch, Böhlau Verlag, 2005, pp. 384, euro 47). Una frase dall’introduzione di Andrè Haynal, riportata fedelmente da Die Zeit che presenta il libro è esemplificativa: «la comunità psicanalitica ha avuto sempre molte difficoltà a guardare dritto in faccia la propria storia, con obbedienza cieca e in una ingannevole sicurezza ha preferito sempre un’eccessiva idealizzazione». Dentro la relazione quotidiana fatta di scrittura sono passate molte delle questioni su cui Freud e Ferenczi lavoravano insieme, ma, nello stesso tempo, essendo stato ripetutamente Ferenczi paziente di Freud, passava anche il potere, fischiava il vento dell’autorità e della conseguente condiscendenza contrapposto alle folate di desiderio di deresponsabilizzazione da un lato e autonomia dall’altro. Quando Ferenczi elabora e applica metodi discutibili rispetto alla prassi, Freud stesso lo percepisce come un legittimo desiderio di abbandonare la casa del padre salvo poi giudicarne negativamente i contenuti.
Freud sa che razionalmente si può rifiutare la figura genitoriale e sa anche che negli strati profondi dell’inconscio questo non è veramente possibile. I due sono amici, fanno viaggi insieme, ma è sempre Freud a comandare, sottilmente o insindacabilmente. Freud è un grande vecchio in quegli anni, non approva certo alcune prassi terapeutiche che prevedono abbracci e intimità con i pazienti, eppure nel caso Jung-Spielrein lascia cadere dall’alto l’assoluzione per il suo adepto. Le contraddizioni non mancano e nelle lettere emergono tutte, fino all’ultima cartolina che Ferenczi spedisce a Freud per il suo settantasettesimo compleanno. Appena dopo muore. Forse mai veramente liberato, nonostante la strenua lotta per la sua indipendenza di pensiero da quella figura enormemente presente. Ma almeno rigoroso e onesto con se stesso, infantile sì ma con tutta la passione della ribellione.
Sandor Ferenczi e «Papà» Freud
Valeria Viganò
Come sono complesse le relazioni umane e nello stesso tempo come sono ripetitive nelle loro dinamiche. E chi ha tentato più di ogni altro di spiegarne turbamenti, retropensieri, pulsioni inconsce non ne è stato mai esente, in comunanza e in lotta con i compagni ideali che cercavano di spiegare l’animo umano e la sua evoluzione. In questo senso la corrispondenza tra Sigmund Freud e l’amico, collega Sandor Ferenczi illustra meglio di parecchi saggi il lungo percorso intrapreso dalla psicoanalisi, i suoi cambiamenti esterni e interni, le modalità di confronto spesso inevitabilmente aspro tra il fondatore e i suoi seguaci, a tutti gli effetti tra il Grande Padre e i suoi Figli. Tutti loro, prima del tempo di internet, si scambiavano indefessamente lettere giornaliere in cui teoria e pratica si mescolavano in un connubio strettissimo di elaborazioni interpretative di una scienza e di intrecci assolutamente personali e intimi, fatti di tradimenti, delusioni, ripicche, affidamento.
Freud e Ferenczi si scrissero dal 1908 fino alla morte del più giovane Ferenczi nel 1933. Sono stati già pubblicati i primi due volumi (in Italia se ne occupa Cortina Editore), e ora è appena uscito in Germania il terzo tomo delle lettere tra i due che copre gli anni dal 1925 al ’33 (Sigmund Freud - Sándor Ferenczi: Briefwechsel Band III/2: 1925 bis 1933, a cura di von Ernst Falzeder, Eva Brabant, Patrizia Giampieri-Deutsch, Böhlau Verlag, 2005, pp. 384, euro 47). Una frase dall’introduzione di Andrè Haynal, riportata fedelmente da Die Zeit che presenta il libro è esemplificativa: «la comunità psicanalitica ha avuto sempre molte difficoltà a guardare dritto in faccia la propria storia, con obbedienza cieca e in una ingannevole sicurezza ha preferito sempre un’eccessiva idealizzazione». Dentro la relazione quotidiana fatta di scrittura sono passate molte delle questioni su cui Freud e Ferenczi lavoravano insieme, ma, nello stesso tempo, essendo stato ripetutamente Ferenczi paziente di Freud, passava anche il potere, fischiava il vento dell’autorità e della conseguente condiscendenza contrapposto alle folate di desiderio di deresponsabilizzazione da un lato e autonomia dall’altro. Quando Ferenczi elabora e applica metodi discutibili rispetto alla prassi, Freud stesso lo percepisce come un legittimo desiderio di abbandonare la casa del padre salvo poi giudicarne negativamente i contenuti.
Freud sa che razionalmente si può rifiutare la figura genitoriale e sa anche che negli strati profondi dell’inconscio questo non è veramente possibile. I due sono amici, fanno viaggi insieme, ma è sempre Freud a comandare, sottilmente o insindacabilmente. Freud è un grande vecchio in quegli anni, non approva certo alcune prassi terapeutiche che prevedono abbracci e intimità con i pazienti, eppure nel caso Jung-Spielrein lascia cadere dall’alto l’assoluzione per il suo adepto. Le contraddizioni non mancano e nelle lettere emergono tutte, fino all’ultima cartolina che Ferenczi spedisce a Freud per il suo settantasettesimo compleanno. Appena dopo muore. Forse mai veramente liberato, nonostante la strenua lotta per la sua indipendenza di pensiero da quella figura enormemente presente. Ma almeno rigoroso e onesto con se stesso, infantile sì ma con tutta la passione della ribellione.
laici
La Stampa 21 Aprile 2005
UNA SFIDA ALL’EUROPA LAICA
di Gian Enrico Rusconi
PAPA Ratzinger imporrà una nuova intransigente chiarezza nel rapporto tra laici e cattolici in Europa. Ed è bene che sia così. Costringerà ad un confronto stringente sul piano intellettuale e politico, nei contenuti e nel metodo. Accettiamo la sfida ma rifiutiamo di identificare la laicità con la «dittatura del relativismo» o con l'elenco degli «ismi» che Ratzinger stesso ha ricordato nella sua omelia «pro eligendo pontifice». E rifiutiamo di vedere un'Europa «senza radici», in un quadro cupo dove la navicella della Chiesa è in procinto di affondare.
Il dotto neo-pontefice sembra cogliere dal pensiero e dalla politica dell'Occidente soltanto i tratti più pessimisti. Paradossalmente fa propria in modo esclusivo la diagnosi di quel pensiero post-moderno nichilista cui vuole contrapporsi. Invece fortunatamente la condizione spirituale dell'Europa è assai più ricca di contrasti e di valori e non corrisponde alla desolata descrizione che ne fa il neo-pontefice.
L'Europa laica attende un interlocutore rigoroso ma scrupolosamente attento alle buone ragioni di chi non la pensa come lui. Un interlocutore che, partendo dal principio della libertà di coscienza (valore «per diritto proprio» - come Ratzinger stesso ha scritto) su questioni controverse riconosca la piena dignità etica di ogni posizione. Non la squalifichi - neppure nella formula apparentemente benevola della comprensione per il «peccato».
Ma temo di chiedere troppo. Ancora mesi fa l'allora card. Ratzinger respingeva espressamente la tesi che la laicità possa fondarsi sul principio etsi deus non daretur («come se Dio non ci fosse»). E invitava polemicamente i laici a rovesciare la formula e a comportarsi «come se Dio esistesse» (parafrasando la scommessa di Pascal).
Ma questo invito si basa sull'equivoco che la formula «come se Dio non ci fosse» sia una subdola forma di ateismo, moralmente deresponsabilizzante. Invece è la rivendicazione dell'autonomia etica dell'uomo di fronte alle sue scelte.
Ma perché si deve mettere Dio come discriminante etica, quando si tratta di rapporti matrimoniali, sessuali e forme di famiglia? Per esse Ratzinger vede drammatiche minacce di «svuotamento della loro indissolubilità ad opera di forme facili di divorzio, mentre si va diffondendo la convivenza tra uomo e donna senza la forma giuridica del matrimonio». E nelle unioni omosessuali vede la «dissoluzione dell'immagine dell'uomo».
Con questi argomenti il Papa non può attendersi di essere ascoltato in Europa. Nessuno pretende che corregga la dottrina morale della Chiesa, ma che almeno non assuma atteggiamenti catastrofistici e moralmente squalificanti per chi ha prospettive etiche diverse. Il discorso si fa ancora più impegnativo sulle questioni bioetiche. «Il valore della dignità umana, precedente ad ogni agire e decisione politica, rinvia al Creatore. Soltanto Lui può stabilire valori che si fondano sull'essenza dell'uomo e che sono inviolabili».
Inutile dire che questa affermazione è incompatibile con la concezione laica che riconosce pari dignità etica ad ogni «visione della vita» e assegna alla deliberazione politica la decisione di legge. Su questo punto non c'è spazio per compromessi.
Mi chiedo come se la caveranno da noi i molti che sinora hanno usato la comoda formula «sono laico ma non laicista».
UNA SFIDA ALL’EUROPA LAICA
di Gian Enrico Rusconi
PAPA Ratzinger imporrà una nuova intransigente chiarezza nel rapporto tra laici e cattolici in Europa. Ed è bene che sia così. Costringerà ad un confronto stringente sul piano intellettuale e politico, nei contenuti e nel metodo. Accettiamo la sfida ma rifiutiamo di identificare la laicità con la «dittatura del relativismo» o con l'elenco degli «ismi» che Ratzinger stesso ha ricordato nella sua omelia «pro eligendo pontifice». E rifiutiamo di vedere un'Europa «senza radici», in un quadro cupo dove la navicella della Chiesa è in procinto di affondare.
Il dotto neo-pontefice sembra cogliere dal pensiero e dalla politica dell'Occidente soltanto i tratti più pessimisti. Paradossalmente fa propria in modo esclusivo la diagnosi di quel pensiero post-moderno nichilista cui vuole contrapporsi. Invece fortunatamente la condizione spirituale dell'Europa è assai più ricca di contrasti e di valori e non corrisponde alla desolata descrizione che ne fa il neo-pontefice.
L'Europa laica attende un interlocutore rigoroso ma scrupolosamente attento alle buone ragioni di chi non la pensa come lui. Un interlocutore che, partendo dal principio della libertà di coscienza (valore «per diritto proprio» - come Ratzinger stesso ha scritto) su questioni controverse riconosca la piena dignità etica di ogni posizione. Non la squalifichi - neppure nella formula apparentemente benevola della comprensione per il «peccato».
Ma temo di chiedere troppo. Ancora mesi fa l'allora card. Ratzinger respingeva espressamente la tesi che la laicità possa fondarsi sul principio etsi deus non daretur («come se Dio non ci fosse»). E invitava polemicamente i laici a rovesciare la formula e a comportarsi «come se Dio esistesse» (parafrasando la scommessa di Pascal).
Ma questo invito si basa sull'equivoco che la formula «come se Dio non ci fosse» sia una subdola forma di ateismo, moralmente deresponsabilizzante. Invece è la rivendicazione dell'autonomia etica dell'uomo di fronte alle sue scelte.
Ma perché si deve mettere Dio come discriminante etica, quando si tratta di rapporti matrimoniali, sessuali e forme di famiglia? Per esse Ratzinger vede drammatiche minacce di «svuotamento della loro indissolubilità ad opera di forme facili di divorzio, mentre si va diffondendo la convivenza tra uomo e donna senza la forma giuridica del matrimonio». E nelle unioni omosessuali vede la «dissoluzione dell'immagine dell'uomo».
Con questi argomenti il Papa non può attendersi di essere ascoltato in Europa. Nessuno pretende che corregga la dottrina morale della Chiesa, ma che almeno non assuma atteggiamenti catastrofistici e moralmente squalificanti per chi ha prospettive etiche diverse. Il discorso si fa ancora più impegnativo sulle questioni bioetiche. «Il valore della dignità umana, precedente ad ogni agire e decisione politica, rinvia al Creatore. Soltanto Lui può stabilire valori che si fondano sull'essenza dell'uomo e che sono inviolabili».
Inutile dire che questa affermazione è incompatibile con la concezione laica che riconosce pari dignità etica ad ogni «visione della vita» e assegna alla deliberazione politica la decisione di legge. Su questo punto non c'è spazio per compromessi.
Mi chiedo come se la caveranno da noi i molti che sinora hanno usato la comoda formula «sono laico ma non laicista».
sinistra
La Stampa 21 Aprile 2005
LUNGA GIORNATA DI TRATTATIVE NEL CENTROSINISTRA PER DECIDERE COME SI SAREBBERO SVOLTE LE CONSULTAZIONI
Bertinotti non accetta la delegazione unica
Prodi al Colle a nome della Federazione. Da soli anche Pdci, Verdi e Udeur
ROMA. Alle sette della sera, tre ore dopo il discorso di Silvio Berlusconi al Senato, Romano Prodi convoca i giornalisti nel suo studio bolognese a Strada Maggiore e scaglia contro il Presidente del Consiglio l’accusa di rinverdire l’andreottismo: «Prendendo atto che è cambiato il quadro politico del Paese, Berlusconi ha dato le dimissioni anche se nel farlo ha espresso un unico concetto: la volontà di durare e di procedere ad un piccolo rimpasto». Riecheggiando una delle “massime” più famose della filosofia andreottiana («Meglio tirare a campare che tirare le cuoia»), Prodi intende dire che la maggioranza ha il respiro corto anche considerando quel che ha combinato finora: «Di rimpasti ne abbiamo già visti tanti: è cambiato due volte il ministro degli Esteri, quello dell’Interno e quello dell’Economia. Abbiamo “rimpastato” tutto ma l’attività del governo non ne ha tratto giovamento».
Ma l’esternazione prodiana ha seguito di ben tre ore il discorso del Presidente del Consiglio non soltanto per la necessità di affinare il messaggio, ma anche perché nel suo pomeriggio bolognese il Professore ha dovuto sbrigare l’ennesima querelle procedurale, una “specialità” dell’opposizione che stavolta si è però trasformata in un piccolo, emblematico caso politico. Già da due giorni sull’Unione aleggiava un problema: come presentarsi al Quirinale per le consultazioni previste in caso di crisi di governo? Si è subito scartata l’ipotesi di inviare delegazioni di partito perché in quel caso il Professore non avrebbe potuto partecipare. Il progetto al quale hanno lavorato subito Romano Prodi e Arturo Parisi è stato quella di salire sul Colle con un’unica delegazione dell’Unione, “capitanata” dal Professore, ai cui fianchi sarebbero apparsi i segretari dei nove partiti dell’opposizione: Ds, Margherita, Rifondazione, Sdi, Pdci, Verdi, Di Pietro, Udeur, Repubblicani europei.
Quella vagheggiata da Prodi era un’innovazione molto forte rispetto alla prassi consolidata che prevede (ma non obbliga) i diversi partiti a sfilare separati all’ufficio alla Vetrata del Quirinale. Un’innovazione che avrebbe costituito il primo esperimento - non necessariamente ripetibile ma certo innovativo - verso quel soggetto unico dell’opposizione che resta il sogno dei prodiano. Il capo dell’Unione ha avviato le sue “consultazioni”, ha raccolto il via libera di quasi tutti i partiti, ma a metà pomeriggio si è consumato un “giallo”. Gli uffici del Quirinale preposti ad accogliere le squadre indicate dai partiti per le consultazioni di oggi, avrebbero ricevuto un’indicazione di massima: l’opposizione si presenterà con un’unica delegazione guidata da Romano Prodi.
Una forzatura? Allo staff del Professore smentiscono energicamente, sta di fatto che appena saputa la notizia, Fausto Bertinotti, che non aveva ancora dato il suo benestare liberatorio alla delegazione “unica”, è saltato sulla sedia. Si è sentito con Prodi e gli ha spiegato che Rifondazione, anzitutto per rispetto della prassi costituzionale, intendeva salire al Qurinale con la propria delegazione. Dice Franco Giordano, capogruppo di Rifondazione alla Camera: «Il leale spirito di coalizione non è in discussione, ma essendo contrari al partito unico, alle consultazioni del Capo dello Stato abbiamo deciso di presentarci con una nostra delegazione». Prodi non ha insistito e a quel punto ha deciso la contromossa assieme a Piero Fassino, Francesco Rutelli, Enrico Boselli, Luciana Sbarbati: il Professore guiderà la delegazione della Federazione dell’Ulivo, il che consentirà agli altri partiti che non ne fanno parte (Rifondazione, Pdci, Verdi, Di Pietro, Udeur) di presentarsi separati. Sembrava finita ma Prodi ha aggiunto un po’ di sale: «Domani decideremo in un vertice a Roma come presentarci al Quirinale ma io farò le dichiarazioni a nome di tutti. Questa è la linea che io porto». Ma se Prodi parla a nome di tutti, Bertinotti esce e tace? «Ma no, concorderemo una linea comune - spiega Giordano - e a quel punto parleremo noi e poi parlerà Prodi. Senza problemi».
LUNGA GIORNATA DI TRATTATIVE NEL CENTROSINISTRA PER DECIDERE COME SI SAREBBERO SVOLTE LE CONSULTAZIONI
Bertinotti non accetta la delegazione unica
Prodi al Colle a nome della Federazione. Da soli anche Pdci, Verdi e Udeur
ROMA. Alle sette della sera, tre ore dopo il discorso di Silvio Berlusconi al Senato, Romano Prodi convoca i giornalisti nel suo studio bolognese a Strada Maggiore e scaglia contro il Presidente del Consiglio l’accusa di rinverdire l’andreottismo: «Prendendo atto che è cambiato il quadro politico del Paese, Berlusconi ha dato le dimissioni anche se nel farlo ha espresso un unico concetto: la volontà di durare e di procedere ad un piccolo rimpasto». Riecheggiando una delle “massime” più famose della filosofia andreottiana («Meglio tirare a campare che tirare le cuoia»), Prodi intende dire che la maggioranza ha il respiro corto anche considerando quel che ha combinato finora: «Di rimpasti ne abbiamo già visti tanti: è cambiato due volte il ministro degli Esteri, quello dell’Interno e quello dell’Economia. Abbiamo “rimpastato” tutto ma l’attività del governo non ne ha tratto giovamento».
Ma l’esternazione prodiana ha seguito di ben tre ore il discorso del Presidente del Consiglio non soltanto per la necessità di affinare il messaggio, ma anche perché nel suo pomeriggio bolognese il Professore ha dovuto sbrigare l’ennesima querelle procedurale, una “specialità” dell’opposizione che stavolta si è però trasformata in un piccolo, emblematico caso politico. Già da due giorni sull’Unione aleggiava un problema: come presentarsi al Quirinale per le consultazioni previste in caso di crisi di governo? Si è subito scartata l’ipotesi di inviare delegazioni di partito perché in quel caso il Professore non avrebbe potuto partecipare. Il progetto al quale hanno lavorato subito Romano Prodi e Arturo Parisi è stato quella di salire sul Colle con un’unica delegazione dell’Unione, “capitanata” dal Professore, ai cui fianchi sarebbero apparsi i segretari dei nove partiti dell’opposizione: Ds, Margherita, Rifondazione, Sdi, Pdci, Verdi, Di Pietro, Udeur, Repubblicani europei.
Quella vagheggiata da Prodi era un’innovazione molto forte rispetto alla prassi consolidata che prevede (ma non obbliga) i diversi partiti a sfilare separati all’ufficio alla Vetrata del Quirinale. Un’innovazione che avrebbe costituito il primo esperimento - non necessariamente ripetibile ma certo innovativo - verso quel soggetto unico dell’opposizione che resta il sogno dei prodiano. Il capo dell’Unione ha avviato le sue “consultazioni”, ha raccolto il via libera di quasi tutti i partiti, ma a metà pomeriggio si è consumato un “giallo”. Gli uffici del Quirinale preposti ad accogliere le squadre indicate dai partiti per le consultazioni di oggi, avrebbero ricevuto un’indicazione di massima: l’opposizione si presenterà con un’unica delegazione guidata da Romano Prodi.
Una forzatura? Allo staff del Professore smentiscono energicamente, sta di fatto che appena saputa la notizia, Fausto Bertinotti, che non aveva ancora dato il suo benestare liberatorio alla delegazione “unica”, è saltato sulla sedia. Si è sentito con Prodi e gli ha spiegato che Rifondazione, anzitutto per rispetto della prassi costituzionale, intendeva salire al Qurinale con la propria delegazione. Dice Franco Giordano, capogruppo di Rifondazione alla Camera: «Il leale spirito di coalizione non è in discussione, ma essendo contrari al partito unico, alle consultazioni del Capo dello Stato abbiamo deciso di presentarci con una nostra delegazione». Prodi non ha insistito e a quel punto ha deciso la contromossa assieme a Piero Fassino, Francesco Rutelli, Enrico Boselli, Luciana Sbarbati: il Professore guiderà la delegazione della Federazione dell’Ulivo, il che consentirà agli altri partiti che non ne fanno parte (Rifondazione, Pdci, Verdi, Di Pietro, Udeur) di presentarsi separati. Sembrava finita ma Prodi ha aggiunto un po’ di sale: «Domani decideremo in un vertice a Roma come presentarci al Quirinale ma io farò le dichiarazioni a nome di tutti. Questa è la linea che io porto». Ma se Prodi parla a nome di tutti, Bertinotti esce e tace? «Ma no, concorderemo una linea comune - spiega Giordano - e a quel punto parleremo noi e poi parlerà Prodi. Senza problemi».
imputabilità
La Stampa 20 Aprile 2005
NELLE MARCHE, IN MANICOMIO PER 10 ANNI
Sterminò la famiglia
Assolto, «è pazzo»
ANCONA. Ha sterminato la famiglia e l’hanno assolto. Arduino Sgreccia, 46 anni, imprenditore edile, era convinto che l’unico sistema per «proteggere» i suoi cari dall’imminente rovina fosse quello di sterminarli e l’ha fatto.
Ma il giudice ha deciso di non condannarlo, è stato riconosciuto infermo, ma rimarrà comunque rinchiuso in un ospedale psichiatrico per almeno dieci anni.
All’alba del 13 marzo 2004 Sgreccia uccise a fucilate la moglie Cecilia Torcellini, 37 anni, e i figli Erika e Andrea, 11 e 7 anni, poi rivolse il fucile contro di sè e tentò il suicidio.
Accadde nella villa di famiglia a San Pietro in Musia di Arcevia, in provincia di Ancona. La strage era senz’altro dovuta alla follia, ha stabilito il perito Vittorio Volterra.
Sulla base della valutazione dello psichiatra il giudice per l’udienza preliminare, accogliendo le richieste del pubblico ministero, ha assolto Sgreccia riconoscendo la completa incapacità d’intendere e volere al momento dei fatti. Ha disposto una misura di sicurezza di dieci anni da scontare col ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario.
Nel momento in cui premette il grilletto, a giudizio del perito, Sgreccia aveva maturato la folle idea che i familiari stessero andando incontro a un non meglio definito disastro da cui lui avrebbe dovuto salvarli.
Una sindrome da rovina che poi lo portò a rivolgere contro se stesso il fucile e a premere il grilletto. Rimase in coma per molti giorni, poi si è progressivamente ripreso.
Oggi è rinchiuso nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia dove sconterà la misura di sicurezza. Ma tra dieci anni potrebe anche uscire, se i medici non valuteranno diversamente
NELLE MARCHE, IN MANICOMIO PER 10 ANNI
Sterminò la famiglia
Assolto, «è pazzo»
ANCONA. Ha sterminato la famiglia e l’hanno assolto. Arduino Sgreccia, 46 anni, imprenditore edile, era convinto che l’unico sistema per «proteggere» i suoi cari dall’imminente rovina fosse quello di sterminarli e l’ha fatto.
Ma il giudice ha deciso di non condannarlo, è stato riconosciuto infermo, ma rimarrà comunque rinchiuso in un ospedale psichiatrico per almeno dieci anni.
All’alba del 13 marzo 2004 Sgreccia uccise a fucilate la moglie Cecilia Torcellini, 37 anni, e i figli Erika e Andrea, 11 e 7 anni, poi rivolse il fucile contro di sè e tentò il suicidio.
Accadde nella villa di famiglia a San Pietro in Musia di Arcevia, in provincia di Ancona. La strage era senz’altro dovuta alla follia, ha stabilito il perito Vittorio Volterra.
Sulla base della valutazione dello psichiatra il giudice per l’udienza preliminare, accogliendo le richieste del pubblico ministero, ha assolto Sgreccia riconoscendo la completa incapacità d’intendere e volere al momento dei fatti. Ha disposto una misura di sicurezza di dieci anni da scontare col ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario.
Nel momento in cui premette il grilletto, a giudizio del perito, Sgreccia aveva maturato la folle idea che i familiari stessero andando incontro a un non meglio definito disastro da cui lui avrebbe dovuto salvarli.
Una sindrome da rovina che poi lo portò a rivolgere contro se stesso il fucile e a premere il grilletto. Rimase in coma per molti giorni, poi si è progressivamente ripreso.
Oggi è rinchiuso nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia dove sconterà la misura di sicurezza. Ma tra dieci anni potrebe anche uscire, se i medici non valuteranno diversamente
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