sabato 21 febbraio 2004

Edoardo Boncinelli sull'identificazione

Corriere della Sera 21.2.04
Studio inglese: se una persona cara sta male si «accendono» in noi gli stessi neuroni
La tua sofferenza è la mia: lo dicono i nostri cervelli
di EDOARDO BONCINELLI


«Condoglianze, congratulazioni, complimenti, compartecipazioni di nozze»: espressioni quotidiane che corrispondono a una ritualità sociale o a un vivido coinvolgimento emotivo. Espressioni quotidiane che hanno, sembra appurato oggi, una base biologica, che trovano una complicità nel nostro cervello e che tradiscono meccanismi d'identificazione e d'empatia vecchi come ... il dolore stesso o la gioia. Uno studio condotto all'University College di Londra da Tania Singer e il suo gruppo mostra chiaramente che osservare una persona cara che soffre stimola in noi l'accensione delle stesse aree cerebrali che si accendono quando noi stessi soffriamo. Una notizia scientifica semplice e lineare che ci fa toccare con mano quanto siamo vicini a comprendere in termini squisitamente biologici qualcosa della nostra interiorità, personale e condivisa.
A un addetto ai lavori la notizia non giunge totalmente inattesa, anche se certamente gradita, per almeno due motivi. Si sa da tempo, infatti, che compiere un’azione e immaginare di compierla attivano almeno in parte le stesse aree cerebrali. Si sa inoltre che nel cervello esistono specifici gruppi di cellule, dette neuroni specchio, che si attivano sia quando compiamo un’azione che quando la vediamo compiere da un altro. Fa piacere rilevare che nella scoperta dell’esistenza dei neuroni specchio, nella scimmia e nell’uomo, ha giocato un ruolo chiave un gruppo di ricerca di Parma condotto dal nostro Giacomo Rizzolatti e che nel delineare i contorni del primo tipo di fenomeni sono coinvolti vari gruppi italiani tra i quali quello che fa capo a Raffaella Rumiati della Sissa di Trieste. Disponiamo insomma, e non da ieri, di tutti i meccanismi necessari per immedesimarci con successo negli altri e per poter partecipare in parte delle loro sensazioni e dei loro stati d’animo.
Se noi riusciamo a capire qualcosa degli altri e, quindi, anche a comunicare con loro, è perché possediamo una facoltà mentale astratta chiamata non molto felicemente teoria della mente. Si sa infatti che ciascuno di noi è in grado di farsi un’idea, una teoria appunto, di quello che sta passando per la testa di un altro e che ci permette di «capire» almeno approssimativamente gli altri nelle diverse circostanze della vita. Le basi cerebrali di questa facoltà sono ancora poco note e quest’ultima serie di esperimenti potrebbe aiutarci a districare questa ennesima matassa.
E’ chiaro però che non stiamo parlando solo di aspetti conoscitivi. Una compartecipazione emotiva, anche avulsa da una piena presa di coscienza, è alla base di un enorme numero di fenomeni individuali che hanno uno sfondo sociale, dall’emulazione alla pietà, dalla convivialità alle più varie manifestazioni di altruismo, dal cameratismo all’impegno sociale. Quante spade o quante dita pronte sul grilletto di un’arma sono state bloccate da un attimo di esitazione, da un brivido di umana partecipazione e di empatia! Come se uno cercasse di immaginare quanto male può fare la sua azione. Non solo su chi la subisce, ma anche su chi gli è vicino e da questo dolore sarà colpito solo di riflesso. Siamo animali talvolta feroci, ma potenzialmente compartecipi.
Nell’uomo su tutto questo si vanno a sovrapporre e finiscono per interferire conoscenze e convinzioni a volte anche molto astratte che non agiscono, o non agiscono primariamente, nei nostri cugini animali. Nell’esperimento di cui stiamo parlando la persona della quale si osservano le reazioni non vede direttamente la sofferenza dell’altro, ma «sa» che sta soffrendo soltanto attraverso l’osservazione di una fredda lancetta di uno strumento. In questa maniera sono stati eliminati gli aspetti di pura immedesimazione emotiva per portare in primo piano l’aspetto conoscitivo di un’astratta capacità di immaginare e di compartecipare.
Questo risultato dimostra quanto artificiosa sia la contrapposizione tra mente e capacità di risolvere problemi da una parte ed emotività e affettività dall’altra. Non ci può essere emotività senza componenti conoscitive, così come non ci può essere razionalità senza una colorazione emotiva. Non riusciremo mai probabilmente a capire fino in fondo le basi naturali degli stati di coscienza individuali, ma ci andremo sempre più vicini, vicini quanto basta per dirci fratelli. Con piena consapevolezza.

Chaplin musicista

Corriere della Sera 21.2.04
OLIMPICO / Timothy Brock dirige «Il Circo» e «Luci della città»
Gli amori infelici di Charlie Chaplin: i film con le colonne sonore dal vivo
Per l’Accademia Filarmonica la riscoperta di due capolavori cinematografici del Novecento


Charlie Chaplin oltre che regista e attore è stato un grande musicista che ha composto le colonne sonore di due suoi celebri film, «Il circo» e «Luci della città». I due spartiti saranno proposti al Teatro Olimpico per la stagione dell' Accademia Filarmonica Romana per accompagnare le proiezioni: martedì e giovedì si vedrà «Luci della città», mercoledì e sabato «Il circo». Per entrambi l'Orchestra Città Aperta diretta da Timothy Brock eseguirà dal vivo le musiche di Chaplin. Gli spettacoli sono organizzati in collaborazione con l'Istituzione Universitaria dei Concerti, la Società Aquilana dei Concerti e l'Association Chaplin di Parigi. L'importanza delle figura di Charlie Chaplin nella storia del cinema e in quella della cultura del Novecento in genere è incalcolabile. Chaplin ha sempre ideato e realizzato da solo le proprie opere accentrando su di sè le funzioni di soggettista, sceneggiatore, regista, interprete e di compositore delle musiche.
«The Circus» (1928) si svolge nell'ambiente del circo equestre dove Charlie, al solito perseguitato dalla polizia, si trova a lavorare. La trama, imperniata sull'amore per una giovane acrobata (Merna Kennedy) la quale finisce per rivelarsi innamorata di un altro, consente a Chaplin di sfruttare al massimo le virtù mimiche e l’antica esperienza scenica. Nato come film muto, il lavoro ebbe la colonna sonora composta espressamente da Chaplin per una riedizione del 1969.
«City Lights» (1931) frutto di un lavoro esteso e accurato (la preparazione durò tre anni) venne anch'esso concepito come film muto, ma l'avvento del sonoro (cui Chaplin fu in realtà molto contrario) era imminente. Il film ebbe dunque un accompagnamento musicale e presentava alcuni intelligenti effetti sonori (i rumori incomprensibili al posto dei discorsi alla cerimonia d'inaugurazione del monumento; il fischietto che, inghiottito da Charlie, gli cagiona un comico singhiozzo). Nella trama il vagabondo s'innamora di una fioraia cieca (Virginia Cherrill) e salva dal suicidio un eccentrico miliardario ubriaco. Da costui (che lo riconosce solo se si trova in stato di ebbrezza) egli riesce ad avere il denaro necessario per la cura che può far acquistare la vista alla ragazza. Ma la cieca, divenuta vedente, non lo riconosce e poi rimane attonita di fronte a una realtà così diversa dal suo sogno.

TEATRO OLIMPICO di Roma
per la Filarmonica,
piazza Gentile da Fabriano 17,
da martedì alle 20,30, tel. 06.3265991

una donna negata all'origine della vera storia
della scoperta della struttura del Dna

La Stampa Tuttolibri 21.2.04
A Rosy la pazza rubarono il Nobel
Fu lei, Rosalind Franklin, a pensare per prima la struttura del Dna, poi elaborata da Wilkins, Watson e Crick: «bravissima, benché donna», pagò caro il suo carattere intrattabile
di Marina Verna


DETESTAVA essere chiamata Rosy - il suo nome era Rosalind e lei imperiosamente lo scandiva Ros-lind. Invece è passata alla storia come Rosy la pazza, la dark lady del Dipartimento di biofisica del King’s College di Londra, la scienziata accecata dall’arroganza che le impediva di discutere con chi avrebbe potuto rompere i suoi schemi di pensiero. Adesso una documentata biografia della giornalista inglese Brenda Maddox, "Rosalind Franklin, la donna che scoprì la struttura del Dna", le restituisce il posto che si merita nella storia della scienza, accanto ai «padri» del Dna Wilkins, Watson e Crick. Che, quando nel 1962 ottennero il Nobel, non sentirono il bisogno di menzionarla nei discorsi ufficiali. Lei era morta di cancro quattro anni prima e i Nobel non si assegnano postumi. E’ probabile che non lo avrebbe comunque avuto, perché nell’ambiente scientifico era mal tollerata. Quando, esasperata dalla guerriglia quotidiana con i colleghi, lasciò il King’s College, Wilkins scrisse a un amico: «La nostra dark lady ci lascerà la prossima settimana. Via libera!». Rosalind aveva una mente di prim’ordine, era diligente e tenace, votata a null’altro che alla scienza, senza alcuna indulgenza per gli sciocchi e con una profonda avversione per qualunque forma di trasporto emotivo. Aveva 15 anni quando decise che sarebbe diventata una scienziata. Che fosse un talento precoce l’aveva rivelato a sei quando, in vacanza in Cornovaglia con la famiglia, passava il tempo facendo esercizi di aritmetica. «E’ paurosamente intelligente», commentò un familiare, preoccupato di che cosa avrebbe potuto fare delle sue qualità una ragazza di buona famiglia nata nell’Inghilterra Anni 20. A 16 anni fa la sua scelta definitiva: va a Cambridge a studiare chimica, fisica e matematica pura. Negli Anni 30 le donne sono ancora una singolarità nell’istituzione, anche se il diritto a frequentarla era stato conquistato già nell’800. Il massimo del complimento era «bravissima, benché donna». Lei ragiona come un uomo, in particolare possiede quel requisito essenziale della professione di scienziato che è la capacità di pensare in tre dimensioni. Non si fida invece di quella prerogativa squisitamente femminile che è l’intuito. E sarà questa diffidenza a farle perdere la gara dell’elica. C’è ancora la guerra quando abbozza sul quaderno degli appunti una struttura elicoidale e a fianco scrive: «La base geometrica dell’eredità?». E’ assolutamente la prima a pensarlo, ma la sua testa di uomo la perde: non si fida dell’intuizione, vuole verificare. Non si arrende all’intuito neppure quando - e siamo alla fine degli Anni 40 - scatta la celebre fotografia ai raggi X numero 51, la prova incredibilmente chiara che il Dna è un’elica. Rosalind è ricca di famiglia - proviene dall’ambiente angloebraico dei grandi banchieri - ma passerà tutta la vita a cercare fondi di ricerca su una sponda e l’altra dell’Atlantico, senza mai approdare alla stabilità di una cattedra universitaria. Vive la vita nomade del ricercatore - Londra, Cambridge e Parigi sono le stazioni del suo peregrinare - per lo più in camere d’affitto, dove sorprende gli ospiti con la sua abilità in cucina, della quale dà una spiegazione scientifica: è semplicemente chimica applicata. Arriva al King’s College - il luogo dove si compie il suo destino - nel 1951 e si dedica alla struttura cristallina delle molecole biologiche. Le eliche sono nell’aria: le studiano a Londra, ma anche al Cavendish Laboratory di Cambridge e al Caltech di Pasadena. Rosalind è sottostimata, la qualità dei suoi lavori precedenti è ampiamente sconosciuta. Nel mondo scientifico si spettegola sul suo caratteraccio e i suoi litigi con i colleghi: «Collaborare io? Come osano interpretare i miei dati al posto mio!». Mentre lei se la vedeva con Wilkins a Londra, a Cambridge lavoravano sul Dna Crick e Watson, «quella coppia di bricconi», come li definì proprio Wilkins. I bricconi non solo invasero il terreno di ricerca di Rosalind - una scorrettezza bell’e buona - ma le rubarono quell’idea di struttura elicoidale che lei aveva esposto in un seminario senza pronunciare la fatidica parola «elica» perché il concetto era ancora troppo vago per i suoi standard scientifici. E’ così che, arrampicandosi sulle sue spalle inconsapevoli, Watson e Crick fanno il salto intuitivo e ricostruiscono la struttura a doppia elica del Dna. Per bruciare i colleghi sul tempo, mandano subito una lettera a Nature ma, ammesso che lo volessero, non possono menzionare i lavori di Rosalind, perché non li aveva ancora pubblicati. Lei non protesta, anche perché considerava l’elica poco più di un’ipotesi. Solo in anni molto recenti Watson e Crick riconoscono che il contributo di Rosalind era stato «essenziale». Da cinque anni il suo ritratto è esposto alla National Portrait Gallery di Londra accanto a quelli di Wilkins, Watson e Crick. E un’ala dell’amato-odiato King’s College porta il suo nome.

un convegno a Roma
il prof. Massimo Ammanniti sul primo anno di vita

Libertà 21.2.04
Esperti sull'infanzia: «E' importante il primo anno di vita»


Roma La famiglia è cambiata: su 22 milioni di nuclei familiari il 45% è fatto di mamma, papà uno o due figli; il 24% di coppie senza figli; il 21% di single; il 10% di un solo genitore. Ci si sposa poi sempre meno: i matrimoni religiosi o civili sono scesi dai 492 mila del 1982 ai 270 mila del 2000, anche se si vive insieme. E questi grossi mutamenti impongono un diverso ed innovativo approccio al neonato, al bambino, all'adolescente. E' quanto emerso dal convegno internazionale promosso dalla Provincia di Roma sull'esperienza europea della rete “Icare”, il progetto della Cee sulle politiche più adeguate alla qualità della vita delle famiglie. «Il primo anno di vita è il momento più importante e direi fondamentale per il neonato: è questo il baricentro della futura personalità», ha detto Massimo Ammanniti, docente di psicologia dell'Università “La Sapienza” di Roma. Parlare quindi di aiuto e sostegno alla famiglia, impone un cambiamento radicale nel modo di considerare il neonato. «Neanche Freud ha mai teorizzato nè pensato al neonato come essere sociale - aggiunge Ammanniti - Fin dalla nascita il neonato ha una struttura molto più complessa di quanto pensasse Freud: il neonato è fin dai primi giorni di vita un essere sociale che si relaziona, che stabilisce relazioni affettive con gli altri». Insomma una svolta culturale epocale rispetto all'assunto freudiano del “bambino polimorfo perverso”? «Oggi disponiamo di ricerche, strumenti, conoscenze che Freud non ha mai avuto - risponde Ammanniti - Questo è il capovolgimento della teoria freudiana alla luce delle nuove conoscenze: possiamo con certezza dire che il neonato sogna perchè è registrabile la sua attività Rem, quella fase del sonno in cui si sogna». Negli Usa ci sono studi specifici sulla vita neonatale: l'obiettivo è individuare - ha proseguito Ammanniti - la relazione affettiva più adeguata. Le affermazioni di Ammanniti sono state apprezzate dal vasto pubblico di psicologi, pediatri, assistenti e operatori sociali che dedicano il loro tempo e la loro attività a neonati e bambini.

(c) 1998-2002 - LIBERTA'

depressione

Repubblica "21.2.04
Gli esperti: adolescenti a rischio
"Un italiano su dieci soffre di depressione"


ROMA - Cresce l'allarme depressione: ne soffrono cinque milioni di italiani (l?8% degli uomini e il 15% delle donne). In aumento anche il numero di adolescenti colpiti (il 27,5 per cento del totale). Le cifre sono state fornite ieri a Roma dal presidente dell'associazione Strade, Antonio Picano. Il costo sociale della malattia è altissimo: 15 miliardi di euro all'anno. Gli esperti hanno sottolineato che dalla depressione si può guarire, anche se solo un paziente su tre decide di curarsi.

Repubblica - ed. di Napoli
MA NON CHIAMATELA DEPRESSIONE
di SERGIO PIRO


Una donna, ormai avanti negli anni, deve affrontare la prospettiva di finire i suoi giorni in un istituto per vecchi. Non vi è altra possibilità di assistenza per lei e per suo marito, ancor più vecchio: così dovranno "andarsi a chiudere" insieme. La donna passa alcuni giorni in solitudine. Poi dà corrette istruzioni al portiere, si apparta e si tira alla tempia un colpo di pistola.
La voce corrente sul fatto è: era una malata, una depressa, se avesse preso le pillole di zic-zac non si sarebbe uccisa. Con questo viene negato l'orrore di un'esistenza che vede aprirsi una via obbligata che conduce al gerontocomio e di qui alla tomba.
Ma in un caso come questo la depressione è il chiudersi della vita, non una oscura malattia neurologica; qui la depressione riprende il suo diritto a costituirsi, insieme all'allegria e alla gioia, come insostituibile dimensione dell'accadere umano. Quel colpo di pistola è, probabilmente, una scelta lucida e legittima, non il sintomo di una malattia mentale.
Il suicidio ha significati profondamente diversi nelle culture che si sono succedute nella storia dell'umanità e che sono oggi compresenti nelle diverse contrade della terra. Nella civiltà europea multimillenaria con le sue radici preindoeuropee, indoeuropee, pagane, la tematica del suicidio va più chiaramente delineando in età classica (greca, romana, celtica): in quel mondo il suicidio non compare come sintomo, ma come decisione: sovente la decisione di un saggio per salvare la sua libertà, la sua integrità morale, la sua coerenza; altre volte il consenso al destino o una superiore ironia (Petronio); molto più raramente il senso di colpa o l'incontro con la punizione.
La nostra epoca considera invece il suicidio come una malattia, seguendo in questo e però svilendo la tradizione cristiana che fa del suicidio in primo luogo un peccato contro Dio. Circolano infatti una serie di proposizione fuorvianti: non occorre un'analisi scientifica per comprenderne la falsità e la tendenziosità. Nella mentalità corrente, alimentata dai mass-media, propagata per luoghi comuni e fortemente potenziata dall?industria globalizzata degli psicofarmaci, il suicidio è un sintomo di malattia mentale; la malattia prevalente è la depressione e sono depressi quasi tutti quelli che si suicidano; chi si suicida è un depresso; tutti i depressi debbono prendere gli antidepressivi.
No: il suicidio solo minoritariamente (dal 10 al 20 per cento a seconda delle statistiche) è segno di patologia mentale; la depressione è una normale reazione alle vicende dell'accadere e solo in piccola percentuale fa parte delle patologie mentali. Il suicida ha diritto al rispetto delle sue scelte che non possono essere nè negate, nè svalutate e considerate come pazzia. E per i vecchi il diritto a porre fine alla proprie sofferenze può creare disaccordo (dei credenti per esempio), ma non deve esprimere aborrimento.
Per chi è molto vecchio, questa libertà di scegliere è una garanzia di umanità.

Yahoo Notizie 21.2.04
PSICHIATRIA: DEPRESSIONE, IN ARRIVO CURE PIU' SEMPLICI


(ANSA) - ROMA, 21 FEB - Cure piu' semplici ed egualmente efficaci per molti malati di depressione che tendono ad abbandonare le medicine. Le ha annunciate il professor Maurizio Fava, psichiatra alla Harvard Medical School di Boston, in questi giorni in Italia per il congresso di psicopatologia. Quasi il 50% dei malati di depressione lascia nei primi due mesi le cure - ha spiegato Fava - e non rispetta le indicazioni mediche''. Tra pochi giorni, ha spiegato l'esperto, sara' reso disponibile anche in Italia un farmaco antidepressivo che ha la particolarita' di dissolversi in bocca.
La nuova formulazione del farmaco (a base di mirtazapina) è già in uso negli Stati Uniti e nei principali paesi europei ed è stata sviluppata allo scopo di favorire una maggiore adesione alla terapia.
Il fenomeno dell'abbandono delle terapie antidepressive, sembra essere generalizzato e interessare diverse malattie: secondo una vasta ricerca condotta dalla Boston Consulting Group su 13.553 pazienti cronici la depressione risulta tra le patologie che registrano una minore adesione al trattamento, con una percentuale di mancato rispetto delle prescrizioni mediche, che puo' arrivare fino al 50%.
''Almeno 4 pazienti su 10 - ha aggiunto Fava - pensano al suicidio e la depressione è il fattore di rischio più significativo''.
La depressione si conferma sempre più come la malattia dei nostri tempi e sembra destinata soprattutto nei paesi industrializzati a crescere anche per effetto del progressivo invecchiamento della popolazione. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanita', sono infatti circa 121 milioni le persone nel mondo che soffrono di depressione. Quanto all Italia la depressione colpisce circa il 18% della popolazione (20% donne, 12% uomini), con un incremento significativo per coloro che hanno piu' di 65 anni. (ANSA).

Repubblica Salute
Psicopatologia della vita quotidiana


"Psicopatologia della vita quotidiana nel XXI secolo": un titolo impegnativo per il convegno che si è svolto a fine gennaio a Roma (ospedale Forlanini) e promosso dalla Società Italiana di Psichiatria (Lazio), l’Irep (Psicoterapia Psicanalitica), Isp (Studio Psicoterapie), Dipartimento Salute Mentale Asl D di Roma. Dal fanatismo kamikaze allo stress, depressione, sport, corpo, coppia, cinema e psiche.

La Gazzetta del Sud 21.2.04
E secondo un sondaggio è in costante aumento il numero di donne vittime di omicidi tra le mura domestiche
ALLARME DEPRESSIONE, NE SOFFRONO CINQUE MILIONI DI ITALIANI
di s.s..


ROMA – Per comprendere meglio il «pianeta depressione» in Italia occorre un'agenzia nazionale della salute mentale con priorità per la depressione, una patologia che colpisce il 15% delle donne e l'8% degli uomini. Complessivamente sono circa cinque milioni gli italiani depressi, una malattia biologica dovuta alla prolungata esposizione allo stress, con una forte componente genetica. Il costo sociale è elevatissimo pari a quindici miliardi di euro ogni anno (1% del Pil). È la seconda malattia più diffusa dopo le malattie cardiovascolari. La fotografia della depressione è stata scattata dal presidente di Strade (l'associazione onlus), lo psichiatra Antonio Picano dell'azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma durante un convegno dove è stato presentato il «progetto 3%» mirato a un quartiere di Roma (50 mila abitanti) per il trattamento delle patologie depressive, un network e un progetto in tre anni per arrivare a trattamenti mirati sui pazienti depressi. «I pazienti hanno spesso sintomi che non sono riconosciuti come depressione e vengono trattati impropriamente con ansiolitici, occorre quindi intercettarli e curarli come depressi e monitorare coloro che si rivolgono eccessivamente al medico di famiglia e al pronto soccorso», ha detto Picano, sottolineando che il 20% di tutti i ricoveri ospedalieri sono dovuti proprio alla depressione. Sulla depressione è stato presentato un progetto di legge Burani-Naro che prevede la differenziazione del trattamenti dei vari pazienti con malattie psichiche. Intanto, è in costante crescita il numero di donne vittime di omicidi tra le mura domestiche. Tra il 2000 e il 2002 i casi registrati, che vedono come autori coniugi, conviventi ed ex-partner, sono aumentati del 19,6%. Nel 2003, le vittime in Italia sono state 96, il 4,2% in più rispetto all'anno precedente. Sono questi i dati forniti dall'Eures, nel corso della presentazione del calendario delle donne 2004, dedicato a Marie Trintignant, l'attrice morta nell'estate scorsa dopo essere stata picchiata dal compagno. Mentre gli omicidi in famiglia diminuiscono (-10,9% nella totalità, -2,9% quelli che vedono vittime donne, ma avvenuti in relazioni familiari ma non di coppia), la crisi riguarda particolarmente i rapporti tra mogli e mariti. I moventi principali dei novantadue casi avvenuti nel 2002 sono risultati essere quelli passionali causati da separazioni sofferte (43,5%), assieme a liti e dissapori (25%). Autori dei delitti sono coniugi o conviventi (64,1%), partner o amanti (16,3%), ex non rassegnati alla rottura dell'unione (15,2%). Le regioni italiane più colpite dal fenomeno sono quelle settentrionali (54,3%), mentre nel Sud si è registrato il 28,3% di casi. Le vittime sono per lo più donne di età compresa tra i 25 e i 34 anni (30,4%).

Marco Bellocchio

Libertà 21.2.04
Bobbio
Riparte il terzo anno dell'università dei genitori con Marco Bellocchio e Fulvio Scaparro


Quest'anno l'apertura vedrà un avvenimento unico nel suo genere. Si tratta di un evento di apertura con due personalità particolarmente significative: Marco Bellocchio e Fulvio Scaparro interverranno sul difficile mestiere di fare i genitori. La serata si terrà il 9 marzo alle ore 21 nel cinema “Le Grazie” di Bobbio. Fulvio Scaparro, psicoterapeuta, attualmente collaboratore del Corriere della Sera, ha scritto importanti libri di psicopedagogia, in particolare “Talis pater” sul ruolo del padre, edito da Rizzoli e ristampato più volte.
(c) 1998-2002 - LIBERTA'

Cina

Kataweb News
Pechino, 21 feb 2004 - 12:05
Cina, nel 2005 nuova missione spaziale


Nel 2005 la Cina ha annunciata che manderà due astronauti in una missione che durerà tra i cinque ed i sette giorni. Lo ha detto Wang Yongqing, uno dei dirigenti del programma spaziale cinese, alla televisione di stato CCTV.

Nell'ottobre del 2003 il colonnello dell' aeronautica Yang Liwei è stato messo in orbita nella "Shenzhou V" ed ha girato per 14 volte intorno alla Terra prima di atterare nel deserto della Mongolia. Il viaggio di Yang, che nel frattempo è diventato un eroe nazionale, è durato 21 ore.