lunedì 9 maggio 2005

all'Università di Foggia

una segnalazione di Tonino Scrimenti

Carla Severini comunica:

Nell'ambito delle attività del Comitato Pari Opportunità

l'Ateneo di Foggia

ha istituito un corso d'insegnamento intitolato

"Il dramma del rapporto uomo donna"

che sarà tenuto da

Annelore Homberg

Il corso si terrà presso la facoltà di Agraria di Foggia (via Napoli 25)

lunedì 9-16-23 maggio e 6-13-20 giugno 2005

per ulterori informazioni:
clicca qui

per visualizzare la locandina con il programma sintetico del corso
(occore avere installato Acrobat Reader)
clicca qui
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storia della "psichiatria" americana
lager per bambini e torture negli Stati Uniti d'America

La Stampa 9 Maggio 2005
L’AGGHIACCIANTE VICENDA DEGLI ISTITUTI PER DEBOLI DI MENTE, LEGATI AL «CLUB DELLA SCIENZA»
Anche l’America aveva i suoi lager, per bambini
Sui piccoli internati esperimenti di eugenetica, solo adesso si aprono gli archivi
Mirella Serri

«CARO genitore, negli anni passati abbiamo svolto alcuni esami con il proposito di sostenere il miglioramento della nutrizione dei nostri bambini… per fare un check up dei bambini avremo bisogno di prelevare di tanto in tanto dei campioni di sangue». Così nel 1949 il sovrintendente della Scuola Statale Walter E. Fernald, per deboli di mente, di comune accordo con l'insigne psichiatra Clemens E. Benda, professore ad Harvard, chiedeva ai parenti dei piccoli ospiti della benemerita istituzione, sorta alla periferia di Boston, il permesso di arruolare i loro figli in un neonato, speciale, club della scienza. Di che cosa si trattava? Non tutti i bambini che risiedevano nella scuola avevano famiglia, alcuni erano orfani, altri erano stati abbandonati: tutti però avevano un elemento in comune. Classificati secondo le rigide regole del Test Stanford-Binet per la misurazione del Quoziente Intellettivo, risultavano «deficienti di alto grado». Questi ragazzini, detti anche benevolmente e comunemente «tonti», considerati al di sotto del quoziente di «normalità» mentale, furono i protagonisti di una tragica, quasi inimmaginabile avventura, nei civili States in epoca di guerra fredda. Diventarono soggetti di esperimenti di varia natura, furono sottoposti a una consistente dose di radiazioni nocive, consumarono solo ed esclusivamente per più di un mese una dieta di fiocchi di avena allo scopo di testarne la portata nutritiva, furono lobotomizzati, subirono elettroshock: questa la tremenda storia delle «cavie umane», come vennero giustamente designati gli ex bambini, quando, a partire dalla metà degli anni Novanta vennero aperti gli archivi della Fernald e di circa altri cento istituti che, per ordine del governo americano, avevano accolto i cosiddetti deboli di mente. Una vicenda che ora viene raccontata nel bel libro di Michael D'Antonio, La rivolta dei figli dello Stato (a giorni in libreria pubblicato da Fandango) che coinvolse migliaia e migliaia di ragazzini ritenuti «subnormali», a cui Bill Clinton, dopo anni di carte bollate e di battaglie legali, chiese scusa in nome del governo e del popolo americano.
La Fernald era stata il primo istituto destinato alla Gioventù Idiota del Massachusetts. Fu fondata con tante buone intenzioni nel 1848 da Samuel Gridley Howe che voleva reinserire socialmente bambini problematici. Ma progressivamente gli obiettivi dell'istituto mutarono, anche in conseguenza dell'affermazione, sia tra gli esperti sia tra il gran pubblico, delle teorie di quanti ribadivano la superiorità delle classi protestanti medio-alte. Sostenuta dalla Fondazione per il Miglioramento della razza, nei primi decenni del '900, era di gran moda l'eugenetica, il desiderio di affermare il dominio di una razza e di difendersi dal dilagare degli «inferiori». Bisognava così arrestare la riproduzione di quanti avrebbero potuto dar vita a loro volta a «bambini degenerati». Cosa fare, dunque? Individuarli e rinchiuderli era il rimedio consigliato. Tutti i maestri o i professori che «scoprivano» scolari mentalmente inadeguati o carenti nell'apprendimento dovevano segnalarli alle autorità, in una campagna di prevenzione che passava a setaccio la nazione e coinvolgeva forze di polizia e assistenti sociali. Gli «idioti» vennero anche sottoposti a sterilizzazione. Negli anni Venti negli States vi furono circa 66 mila interventi di castrazione. Con 20 mila operazioni, la California fu la capofila degli stati «interventisti». Negli anni Trenta gli eugenisti tedeschi guardavano con sincera ammirazione agli «scienziati» americani che erano approdati a queste sperimentazioni così rivelatrici. Con la fine della seconda guerra mondiale, dopo gli orrori dei campi di sterminio, in America queste pratiche cominciarono a declinare. Contemporaneamente il numero dei ricoverati nelle cliniche per «deficienti» prese un andamento in salita, poiché le misurazioni del Q.I. erano sempre più rigide. Nel 1949 i «tonti» rinchiusi in tutti gli States erano circa 150 mila. Di questi in realtà almeno 12 mila erano perfettamente normali. Sono cifre spaventose. Erano all'ordine del giorno malnutrizione, sporcizia, miseria, abusi sessuali da parte di medici e infermieri. Come testimonia l'esperienza di Frederick Boyce, entrato nella Fernald a sette anni, la scuola favoriva l'involuzione anziché l'educazione e lo sviluppo. A parte un paio di visite settimanali di psicologi, i ragazzini, dopo una doccia gelida e una frugale colazione, venivano costretti a passare tutta la giornata in completa inazione. Seduti su panche di legno non dovevano fare assolutamente niente. Quando alcuni dottori facevano balenare la possibilità di essere iscritti al prestigioso Club della Scienza, i candidati non mancavano mai. In cambio era concessa una partita di baseball. E così si diventava cavie umane.
Solo quando John F. Kennedy, la cui sorella Rosemary era stata operata di lobotomia, si interessò direttamente degli istituti statali e delle loro carenze, le condizioni di vita cominciarono a migliorare. Ma intanto mutava anche il punto di vista scientifico e la misurazione del Q.I. diventava più elastica: per molti «ricoverati» - che più volte tentarono il suicidio, la fuga, la rivolta - si prospettò per la prima volta una possibilità di libertà. Parecchi - come Frederick, per esempio - nonostante fossero poverissimi, senza una casa e senza un'istruzione, finalmente sciolti dai terribili lacci della reclusione seppero conquistarsi una vita regolare, un lavoro e una famiglia.
Ma l'eredità del passato non abbandonava i Figli dello Stato. Dopo i processi e i risarcimenti, per alcuni ecco l'aggressione del cancro, segno indelebile degli esperimenti a cui erano stati sottoposti. Frederick ha avuto più di un'operazione. Ma ha continuato a impegnarsi per divulgare la storia della Fernald e degli idioti destinati a rivelarsi di gran lunga superiori ai loro persecutori.

biologia

L'Unità 9 Maggio 2005
Il libro di Telmo Pievani, «Introduzione alla filosofia della biologia», affronta i problemi teorici di una disciplina basata sulla storia e quelli della sua teoria più potente: l’evoluzionismo
I paradossi di una scienza che non può fare previsioniPietro Greco

«Non c'è spiegazione possibile in biologia che quella storica», sosteneva il biofisico italiano Mario Ageno. Ed è proprio la spiegazione storica che richiede a chi si accosta al mondo evolutivo dei sistemi viventi una filosofia specifica. Una filosofia della biologia diversa e autonoma (ma non indipendente) dalla filosofia della fisica o dalla filosofia della chimica, discipline che non sono segnate dalla storia.
La differenza tra la filosofia della biologia e la filosofia delle scienze che si occupano di sistemi non viventi non è di poco conto. E pone enormi problemi teorici, che - stranamente - sono stati affrontati solo in tempi relativamente recenti. Tanto che, fino a qualche giorno fa, non esisteva nel nostro paese un manuale di filosofia della biologia scritto da un italiano. La lacuna è stata finalmente colmata da Telmo Pievani, giovane docente di epistemologia presso l'università di Milano-Bicocca, che ha appena fatto uscire per i tipi della Laterza una «Introduzione alla filosofia della biologia».
La storia attraversa per intero le pagine del libro di Telmo Pievani e fa emergere, grazie alla rara capacità di sintesi e di chiarezza dell'autore, i temi fondamentali del discorso intorno alla spiegazione scientifica del mondo biologico.
La storia, dunque. La storia che impedisce ai biologi di verificare sempre con un esperimento le proprie ipotesi. La storia, informata dal caso e dalla contingenza che rendono unico ogni evento nel mondo biologico, cosicché i biologi a differenza dei fisici e dei chimici non possono chiedere alle loro spiegazioni una forte e cogente capacità di previsione. La storia che rende unico ogni organismo vivente: cosicché il biologo non può studiare classi di enti tutti uguali a se stessi - come fanno i fisici quando studiano, per esempio, gli elettroni - ma devono studiare popolazioni di individui tutti diversi tra loro.
È per tutti questi motivi che i fenomeni biologici possono avere una spiegazione completa solo ex-post, dopo che sono avvenuti, ma non possono essere interamente previsti apriori. In biologia non esistono leggi generali.
Tuttavia esistono teorie in biologia. Anzi, come nota Telmo Pievani, esiste una sola, grande teoria: la teoria darwiniana dell'evoluzione delle specie. Una teoria rigorosa che, pur non avendo (non potendo avere) forti capacità di previsione, trova conferma in svariate filiere di un numero enorme di osservazioni indipendenti ed è l'unica sul campo in grado di «salvare i fenomeni biologici». Per questa sua forte coerenza logica interna e per la sua capacità di spiegare a tutti i fenomeni biologici noti, l'evoluzionismo darwiniano è una teoria scientifica. Diversa dalle teorie fisiche, ma che pretende una pari dignità epistemologica.
Per certi versi la biologia teorica si trova in una condizione migliore della fisica teorica. I fisici, infatti, sono ancora alla ricerca di una «teoria del tutto» e si sentono piuttosto frustrati nel dover tuttora constatare l'inconciliabilità delle due grandi teorie, la meccanica relativistica e la meccanica quantistica, che spiegano i fenomeni a diversa scala. I biologi, invece, l'hanno trovata la loro «teoria del tutto»: la teoria darwiniana si è mostrata invece capace di «salvare i fenomeni biologici» a ogni scala: da quella macroscopica degli ecosistemi e degli organismi, a quella microscopica dei geni.
Ciò non significa che il discorso in biologia sia chiuso. E che la filosofia della biologia sia una mera e noiosa discussione sui dettagli. Tutt'altro. Come mostra Telmo Pievani molti sono i problemi aperti in biologia. E molte le (sane) polemiche. L'evoluzione è un «orologiaio cieco», priva di un progetto o invece un percorso di progresso, ancorché tortuoso? Qual è il ruolo del caso, della necessità e della contingenza nell'evoluzione biologica? L'evoluzione è pluralista o l'unico fattore evolutivo è la selezione naturale? Procede per salti o è graduale? Qual è l'elemento prevalente in biologia, la funzione o la forma?
Telmo Pievani ha il merito di proporre al lettore tutto il ventaglio di risposte date a queste domande. Tuttavia è possibile individuare il suo tragitto culturale. Che forse oggi è quello prevalente. L'evoluzione biologica non ha un progetto, ma è indirizzata dalla contingenza. Procede, spesso, con brusche accelerazioni cui seguono lunghi periodi di quiete. È mossa, principalmente ma non unicamente, dalla selezione naturale. È adattativa, benché non infranga e talvolta si lasci vistosamente guidare dalle leggi della forma.

«anche i ricchi piangono»
attacchi di panico

La Provincia di Como 9.5.05
L'indagine
A fare paura sono soprattutto cambiamenti e flop: frequenti tra i quarantenni gli attacchi di panico
Manager, 40 anni: vivono con l'angoscia di perdere il successo

Chi è in carriera teme gli insuccessi e i cambiamenti

ROMA Altro che approdo, dopo anni di gavetta, alla tranquillità data da un buon posto di lavoro e un cospicuo conto in banca. I manager e le persone fra 25 e 44 anni, con una punta massima intorno ai 40, sono i più spaventati: a fare paura sono soprattutto cambiamenti e insuccessi. Frequenti, inoltre, gli attacchi di panico. È quanto risulta da un'indagine condotta dal mensile Riza Psicosomatica, in edicola in questi giorni, e basata su un campione di mille persone. I più spaventati, secondo l'indagine, sembrano essere manager e quadri aziendali (26%), seguiti da imprenditori e liberi professionisti (16%). Sono invece una minoranza operai e casalinghe (8%) così come disoccupati e pensionati. Dimostrazione che i detti hanno ragione e i soldi non danno sempre la felicità. A spaventare di più, nella vita di tutti i giorni, sono i cambiamenti (25%) più che la routine (8%), gli insuccessi (22%) e gli imprevisti di varia natura (17%). Fa paura anche essere messi alla prova (14%) così come la competizione continua (9%). Il 31% degli intervistati si è poi dichiarato vittima di attacchi di panico che si manifestano sia al lavoro o a scuola (27%), sia in casa (23%), il lunedì quando si torna in ufficio (26%) come nel week-end (18%). A scatenare l'ansia sembrano essere soprattutto la paura di perdere il lavoro (24%) e quella di avere un figlio (22%), povertà (16%), malattie (13%) ed essere abbandonati dal partner (10%).

maternità e famiglia

Liberazione 7.5.05
"Mamma non mamma"...
C'è poco da festeggiare
Maria Vittoria Vittori

Dai romanzi e i manuali patinati che arrivano dagli Usa ai libri di psicoanalisi che aiutano a capire: la maternità come gioco di luci e di ombre, di amore e di odio. A volte con esiti dolorosi: di morte e di sangue

La mamma sorridente e cotonata che nel libro delle elementari vegliava sul focolare, la mamma un po' sciattona e generosa che "tutti i suoi frutti ti dà", erano, per noi figlie dei tardi anni '50, le uniche tipologie contemplate e contemplabili di mamma. Un'era dopo il femminismo, e dopo le "mamme al vento" in permanente terapia psicoanalitica e le buffe tardo-hippy descritte con sferzante ironia da Erminia Dell'Oro e Lidia Ravera, come "stiamo" a maternità?
Intanto, si registra un clamoroso balzo in avanti delle lancette dell'orologio biologico: se prima l'allarme scattava prima dei trent'anni, ora le quasi quarantenni in piena precarietà di lavoro e di esistenza sono ancora lì, a sfogliare la margherita del "mamma non mamma". Ancora una volta, sono le intrepide fanciulle americane a indicarci il cammino. I titoli riversati in libreria a ridosso della fatale festa della mamma lo confermano: c'è un'epidemia in corso di ex-fanciulle taglia 40 che alla soglia dei quaranta (anni) scoprono, con autentico terrore, di avere qualche strano meccanismo interno che le rende simili alle altre donne. A quelle che fanno figli. E così le modaiole creature che per principio non si negano mai niente, decidono che faranno un figlio, però a modo loro. Prendono lezioni via internet dall'esclusivo club "Mommy and me" si scelgono un ginecologo alla Richard Gere, si drogano d'abbigliamento premaman, come la protagonista di Sul punto di scoppiare (Mondadori, pp. 308, eur017,00) della losangelina Risa Green. Oppure, se sono scafate pubblicitarie, si organizzano una campagna promozionale tenendo il diario della gravidanza, come succede in Premaman a vita bassa di Suzanne Finnamore (Sperling&Kupfer, pp. 168, euro 15,00) anche lei targata California.
Ma dite, potevamo farci mancare, noi precarie italiane, un metodo di management applicato alla maternità? Meno male che ci hanno aiutato le consorelle losangeline facendosi confezionare dallo psicologo Spencer Johnson un manuale ad hoc, Professione mamma (Sperling&Kupfer, pp. 128, eur012,50). Fortunatamente, ci pensa l'ironia selvatica e benignesca - nel senso di derivante da Benigni - di Nicoletta Bortolotti in Neomamme allo stato brado (Baldini Castoldi Dalai, pp. 160, euro 13,40) a dissipare lo stucchevole sciame delle mamme e degli psicologi made in California. Dura la vita di queste neomamme allo stato brado: sprovviste di ginecologi alla Richard Gere, di deliziosi pancini abbronzati e delle più elementari nozioni di management. Vanno alla deriva nel gran mare della maternità senza aggrapparsi né alle rassicuranti ciambelle di salvataggio di mamme e zie mediterranee, né alle modaiole certezze delle loro consorelle americane.
Ci si può illudere fidandosi delle vernici sbrilluccicanti, della glasse zuccherine che avvolgono queste storie di mamme e le rituali celebrazioni della maternità: ma la maternità resta, sempre e comunque, evento forte e problematico. Ben lo sanno gli psicologi che dopo aver ricondotto alla figura materna ogni sorta di complesso e frustrazione, ora, forse per il preoccupante calo di natalità, fanno a gara per rassicurarci che va bene così, che non esistono mamme perfette. Grazie, ma lo sapevamo. Attraverso l'imperfezione ci siamo passate tutte; e ben sappiamo che quel "baby blues" di cui amabilmente parlano psicologi e riviste femminili non è un malinconico languore ma una depressione nera.
Di quali e quante ambivalenze sia costituita una madre ne abbiamo fatta - e ne stiamo facendo - esperienza dal vivo, e ci hanno aiutato, in questa difficilissima arte di metterci all'ascolto di noi stesse, filosofe come Luce Irigaray e Luisa Muraro, psicoanaliste come Lella Ravasi e Silvia Vegetti Finzi. Aiuta anche la letteratura, non quella edulcorata e consolatoria ma quella che sa parlare anche con voce aspra, violenta. Riesce quindi a scrostare le false certezze, le false mitologie intorno alla maternità. La maternità si lascia cogliere solo così, nelle pieghe segrete di un rapporto con i figli che è sempre e comunque conflittuale (Madre e figlia di Francesca Sanvitale, Terremoto con madre e figlia di Fabrizia Ramondino, Vincoli segreti di Grazia Livi, Figlie e madri a cura di Joyce Carol Oates): si lascia addomesticare solo da una sapiente ironia e autoironia, si lascia intravedere in tutta la sua intensità solo in certe storie cupe e paradossali.
Come accade in due libri recenti, che dal buio fitto delle vicende rappresentate riescono a riversare sulla maternità uno di quei flash potentissimi, capace di mettere ambivalenze e contraddizioni in piena luce. Nel testo teatrale di Grazia Verasani From Medea (Sironi, pp. 122, euro 10,50) è il tragico fantasma di Medea che ritorna, ripartito in quattro donne diversissime tra loro ma accomunate dall'aver levato la mano sui loro figli. Nel romanzo breve di Veronique Olmi In riva al mare (Einaudi, pp.94, euro 9,00) una mamma sta partendo con i suoi figli per una gita a lungo desiderata. Fin dalle prime battute s'avverte, con un allarme scavato nel profondo, che il loro sarà un viaggio di sola andata.
Siamo portati a liquidarli come effetto di raptus, di follia, questi casi che si leggono anche in cronaca, perché ci fanno paura. Non ne vogliamo sapere, non vogliamo capirli, non vogliamo interrogarci. Ma è la forza potente della rappresentazione a non consentirci scappatoie, a farci intuire il tremendo paradosso della maternità: «Quando uccidi tuo figlio è te stessa che fai fuori in quel momento». Perché la maternità - e fa bene ricordarlo in un tempo che banalizza sentimenti e riflessioni o li deforma in polemiche strumentali - è luce e lutto, possesso e perdita che convivono, inseparabili. Intuire che cosa c'è nel suo abisso aiuta a prendere le misure, a trovare di volta in volta un equilibrio.
Proprio perché intimamente sappiamo di quale formidabile portata siano le questioni connesse alla maternità, non possiamo lasciare che siano i politici, per di più di sesso maschile, a dibattere sui diritti dell'embrione, a cercare di stabilire, attraverso sofistiche e strumentali controversie, qual è il momento esatto nel quale inizia la vita. Quell'ovulo fecondato, barlume di vita, ha la possibilità di diventare creatura solo se la donna lo accoglie, gli dice sì.

Liberazione 7.5.05
Uno studio Eurispes sul "familismo utilitaristico": giovani a casa fino ai 34 anni

La famiglia? Rifugio contro la precarietà economica
Laura Eduati

Lo chiamano freddamente "familismo utilitaristico" e per spiegarlo possiamo dire che è la tendenza a considerare la famiglia non più come nucleo affettivo che ci accoglie, ripara e fortifica di fronte alle miserie del mondo, bensì come un modello di coabitazione che ci dà soprattutto benefici economici e sociali. A registrare il modo in cui è cambiata la famiglia è uno studio Eurispes intitolato, per l'appunto, "Familismo utilitaristico", secondo il quale oggi si fa fatica a staccarsi dal nucleo originario perché da soli è difficile far quadrare i conti. «L'emigrazione di ritorno dei figlioli prodighi, l'impossibilità materiale per diversi giovani, di abbandonare la famiglia d'origine, la difficoltà di alcuni a recidere il legame matrimoniale per via dei costi economici e sociali del divorzio o della separazione, stanno originando un modello relazionale-famigliare basato soprattutto sui benefici della coabitazione», riassume il presidente Gian Maria Fara. Sono soprattutto i figli a rimanere a casa con i genitori fino ai 30 anni e oltre, e non per mammismo. Su cento studenti ultradiciottenni, il 98% non se ne vuole andare: «Non si tratterebbe di una stranezza se parlassimo di studenti universitari che, presa la laurea (breve o lunga), a 21/25 anni, trovano un lavoro e vanno via di casa», scrive il rapporto, «il problema è che qui abbiamo "ragazzi" e "ragazze" dai 18 ai 34 anni la cui qualifica di studente nasconde nella maggior parte dei casi uno stato di inoccupazione prolungata». E che non siano tutti studenti lo conferma il fatto che l'81, 2% di loro sta cercando un lavoro; quando lo trovano, il 56% preferisce comunque stare con mamma e papà. «Più che la comodità di non doversi occupare di se stessi o di una propria famiglia, sembra sia la mancanca di sicurezza economica ciò che spinge i cosiddetti giovani a non lasciare il nido familiare». I contratti sempre più precari, i lavori intermittenti senza indennità per ferie, malattia o vacanze costringono d'altronde il 20% dei 33-37enni che si erano emancipati a tornare in famiglia. Continua il trend che sposta in avanti il ciclo della vita individuale: le donne fanno il primo figlio più tardi, ci si sposa più tardi e sempre di meno in chiesa. «La posticipazione va di pari passo con la secolarizzazione del rito matrimoniale», è la conclusione dell'Eurispes, che individua inoltre l'aumento di separazioni - +4, 9% rispetto al 1995 - e divorzi - + 4, 4%. La maggior parte dei divorziati e dei separati è relativamente giovane, visto che oscilla tra i 35 e i 44 anni (nel 30% dei casi), e tra i 45 e i 54 anni (27%). Il Sud, per tradizione e cultura, preferisce salvare la famiglia: qui le separazioni non toccano il 4% delle coppie sposate, mentre al Nord e al Centro sono il 6, 5%.
Quando la coppia scoppia, solitamente i figli rimangono a lei, che diventa madre single, con tutte le conseguenze e le difficoltà del caso. A rifarsi una famiglia riesce solo il 27% degli uomini e al 20% delle donne, per le quali è più difficile far accettare i propri figli ad un nuovo compagno - accade solo nel 13% dei casi. Nel complesso, gli uomini single e separati hanno più facilità a ricostruirsi una vita dopo il fallimento del matrimonio, visto che quelli con figli a carico costituiscono appena il 9%. Nonostante i problemi economici che scandiscono la maggior parte delle separazioni e dei divorzi, solamente il 9% degli uomini e il 5% delle donne accetta di tornare a vivere con i genitori, e la percentuale si assottiglia se si considerano i casi di aggregazioni famigliari con amici o parenti.
La famiglia, insomma, cambia e si trasforma. Per l'Eurispes «indebolita dagli effetti della crisi e dai processi di disgregazione cominciati con l'introduzione del divorzio e con l'ingresso della donna nel mondo del lavoro, la famiglia resiste come soggetto economico e relazionale in grado di fornire ai suoi membri un riparo dall'inospitalità del mondo». Una delle conseguenze più palesi, e non è da oggi che se ne parla, è il bassissimo tasso di natalità, rinsanguato dall'arrivo di immigrati, più prolifici, che per la prima volta nel 2003 hanno determinato un saldo attivo di 300mila nuovi nati. Nel complesso, invece, le coppie con figli rimangono la maggioranza - 66% - ma sono in diminuzione, mentre le coppie senza figli sono la minoranza - 33, 9% - ma in aumento.
Fare meno figli, per le motivazioni più varie tra le quali rientra anche la sterilità, invecchia progressivamente la popolazione: al 1 gennaio 2003 l'indice di vecchiaia -ovvero il rapporto percentuale tra la popolazione di età superiore ai 65 anni e la popolazione di età compresa tra 0 e 14 anni - risulta pari al 133, 8%: cioé per ogni 100 bambini ci sono 133 anziani.
Aumentano anche le coppie che rinunciano alle nozze e vanno a convivere: nel 1994 erano solo l'1, 8%, oggi il 3, 6%, cioé 510.251 unità. Quasi la metà dei componenti di queste unioni proviene da un matrimonio fallito. Ma il vero cambiamento è l'arrivo dei single sul panorama sociale. Nel 1971 erano 2 milioni, cioé il 13% delle famiglie. Oggi sono una famiglia su quattro è composta da una sola persona, non sempre anziana, e nel 97% dei casi si tratta di persone che vivono con altre: ritorna anche qui la coabitazione come mezzo per fronteggiare i costi della vita sempre più alti.

la legge spagnola sulla fecondazione assistita

Liberazione 7.5.05
Zapatero apre le porte
alla fecondazione assistita


Il governo spagnolo ha approvato ieri la riforma della legge sulla procreazione assistita. Con questa norma, in Spagna sarebbe consentito ciò che in Italia è vietato: la fecondazione eterologa, ad esempio, viene concessa anche se solo attraverso il ricorso ai centri autorizzati di ovuli e spermatozoi di donatori per i quali viene stabilito un apposito albo. La ricerca sulle cellule staminali embrionali viene esplicitamente permessa. E così pure la diagnosi pre-impianto sull'embrione. In questo caso, la legge spagnola permette addirittura che quando una coppia abbia un figlio con una malattia curabile attraverso il ricorso a cellule staminali embrionali compatibili, le viene consentito di concepire un altro figlio con la fecondazione assistita in modo da selezionarlo geneticamente per essere in grado di donare il suo codice genetico "sano" al fratello, per curarlo. Si vieta invece tassativamente la clonazione umana riproduttiva, che viene così chiaramente distinta da quella terapeutica.

il manifesto 7.5.05
Zapatero detta legge sulla fecondazione
Approvato da Madrid un nuovo testo. Aperto alle donne single e alla selezione terapeutica
ALBERTO D'ARGENZIO

Il governo Zapatero ha messo ieri le mani anche sulla fecondazione assistita: nessun limite al numero di ovociti fecondati in ogni ciclo, estensione della diagnosi pre-impianto, accesso alla terapia anche per i single, ma soprattutto possibilità di attuare la selezione genetica con fini terapeutici per terzi - il cosiddetto «bebé medicina» - e generalizzazione della ricerca sugli embrioni sovrannumerari. Sono queste le grandi novità del progetto di legge sulla «riproduzione assistita» approvata ieri dall'esecutivo e che sostituisce in un sol colpo la norma di «fecondazione assistita» datata 1988 e la riforma apportata dal Partido popular appena due anni fa. «La legge - spiega la vicepresidente dell'esecutivo Teresa Fernandez de la Vega - ha aperto la porta alle speranze di molte persone che vogliono avere figli, costituisce un passo da gigante nel campo della ricerca per lottare contro malattie di carattere ereditario ed inoltre mira a migliorare l'informazione». Un altro pianeta in confronto all'Italia dove ricerca, fecondazione eterologa e diagnosi pre-impianto sono tabù.
Il testo spagnolo precisa che per accedere alle terapie - inseminazione artificiale, fecondazione «in vitro», iniezione intracitoplasmica di spermatozoi o tecniche future - basterà aver compiuto 18 anni e dimostrare piena capacità di intendere e di volere (cioè non ci sono limiti di età anche se verranno valutate attentamente le possibilità di successo ed i rischi sulla salute mentre viene chiesto il sì del marito se la donna è sposata), viene invece vietata espressamente in «linea con la Costituzione europea» la «clonazione per fini riproduttivi», interdetta pure la pratica «dell'utero in affitto» e la selezione del sesso (sempre che non serva ad evitare malattie ereditarie) mentre aumentano i controlli e le multe in caso di infrazione o di cattiva pratica. La legge ovviamente non piace ai popolari che promettono una dura battaglia in Parlamento.
Il punto che infastidisce di più l'opposizione è quello del bebé medicamento: «inaccetabile dal punto di vista etico», dice Mario Mingo, portavoce del Pp nella Commissione sanità. Questa tecnica di selezione genetica (che permette ai genitori di un figlio malato selezionare un embrione che porti alla nascita di un bambino sano e compatibile per curare o salvare la vita del primo) si pratica già negli Usa, in Gran Bretagna ed in Belgio ed inoltre il suo utilizzo sarà soggetto ad un'analisi caso per caso da parte della Commissione nazionale di riproduzione umana assistita.
Il progetto di legge elimina il tetto massimo di ovociti che possono essere ottenuti in ogni ciclo - fissato in tre nel 2003 dal governo Aznar - in modo da evitare di dover effettuare nuovamente l'operazione se non ne escono dei figli. Rimane invece sempre fissato a tre il limite per gli embrioni che si possono impiantare, in attesa di miglioramenti delle tecniche e per evitare parti plurigemellari con conseguenti danni per la madre e per i discendenti.
La ricerca verrà permessa su tutti gli embrioni con meno di 14 giorni e con gameti (ovuli e spermatozoi), sempre che i progenitori diano il loro ok. La riforma del Pp prevedeva la ricerca solo su quelli creati prima dell'entrata in vigore della legge. Al tempo stesso la legge prevede che il seme possa venire congelato in banche di gameti autorizzate dal donante.
Vietata la madre in affitto ma prevista la possibilità di donare di gameti e preembrioni gratuitamente e confidenzialmente, il donante dovrà essere maggiorenne ed in buona salute. Infine le multe che vanno da 1.000 a un milione di euro a seconda della colpa. Un parto ben diverso da quello del governo Berlusconi.

via dall'Iraq

L'Unità 8 Maggio 2005
«La posizione del ritiro non è stata inventata da Bertinotti o Diliberto, i membri della Coalizione stanno cercando una via d’uscita»
«Tutti fuggono dall’Iraq, l’Italia non può restare»
Toni Fontana, colloquio con Claudio Rinaldi

ROMA «La situazione in Iraq sta tragicamente peggiorando, le forze della Coalizione si sono infilate in un vicolo cieco, quella del ritiro non è una posizione propria solo della sinistra radicale italiana, ma di molti paesi alleati di Bush, che stanno richiamando i loro soldati». È l’opinione di Claudio Rinaldi, editorialista, già direttore dell’Espresso e di Panorama.
Dall’Iraq arrivano notizie di spaventose stragi...
«La situazione è disastrosa, l’assenza di sicurezza totale, le uccisioni si susseguono. La vita quotidiana di tutti gli iracheni, non solo quelli minacciati dagli attentati, è peggiorata rispetto al passato: la produzione di petrolio è si è ridotta, l’erogazione dell’energia elettrica è frammentaria e manca anche l’acqua. Secondo un sondaggio pubblicato dall’Economist il 38% degli iracheni ritiene che la situazione è peggiorata rispetto ai tre anni fa quando Saddam era ancora al potere. Il processo politico che è stato avviato è molto lento e dagli esiti dubbi. Vedendo gli iracheni in fila per votare ci siamo commossi e abbiamo pensato che fosse iniziata una svolta epocale, ma la situazione appare in realtà molto più complicata».
Il processo di transizione è incerto ed il voto ha tracciato i confini tra le comunità irachene, ma, tra enormi difficoltà, sono stati indicati presidente e premier ed è stato formato un governo...
«Ciò è vero, ma non si può dimenticare che le autorità religiose sciite, avevano emesso precise direttive per spingere la popolazione a votare, mentre le autorità sunnite hanno invitato gli elettori a disertare i seggi e ciò è accaduto in alcune zone. La prospettiva dell’inserimento dei sunniti nel processo politico, anche dopo l’assegnazione di alcuni ministeri, ancora non si intravede. Vi è il rischio che l’incomunicabilità tra queste due confessioni diventi “cronica”. Per giungere alla democrazia, o perlomeno a qualcosa che assomigli alla democrazia, occorre ancora fare enormi passa in avanti».
Non appare tuttavia assolutamente realistico prevedere che, nel breve periodo, l’Onu assuma maggiori responsabilità...
«Ciò è vero, chi dice questo si affida ad una vaga speranza. L’Onu non può essere un embrione di governo mondiale, per i limiti che le Nazioni Unite scontano nella gestione politica. Pensare che l’Onu possa riuscire dove ha fallito la Coalizione è irrealistico».
E quindi su quali ipotesi è invece realistico discutere?
«Alla sinistra radicale viene attribuita una posizione che si può riassumere così: “ritiriamoci subito dall’Iraq” come se solo Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio la pensassero in questo modo. Non è così: il ritiro strisciante è in corso da tempo, molti paesi hanno richiamato o deciso di richiamare le loro truppe, mi riferisco al Giappone e alla Bulgaria, e prima ancora alla Polonia, all’Olanda, alla Danimarca, al Portogallo. Questi paesi, alleati degli Usa, hanno ritenuto inutile, sotto il profilo del rapporto costi-benefici, rimanere li. Il ritiro, in realtà, è in atto da tempo. Washington non è in grado di aumentare il corpo di spedizione per imporre “manu militari” l’ordine a Baghdad anche perché negli Stati Uniti cresce la difficoltà di reclutamento. Il prossimo anno, con l’avvicinarsi delle elezioni di medio termine, Bush inizierà a suonare la ritirata, pur affermando il contrario, s’inventerà che il governo iracheno ha ripreso in mano la situazione. Alcuni esponenti del governo di Baghdad ipotizzano il ritiro delle forze internazionali entro il prossimo anno e tutti i gruppi politici e religiosi, pur esprimendo posizioni diverse, vogliono il progressivo ritiro degli stranieri».
Quindi secondo lei la scelta giusta è quella di andar via dall’Iraq?
«Restando li ora e in questo modo non si “guadagna” nulla. Quale senso ha restare ad oltranza? È poco dignitoso, da parte di Berlusconi, sostenere che resteremo fino a quando ce lo chiederà Baghdad; la presenza del nostro contingente non può essere assoggettata alla volontà di un governo esterno, anche se a Baghdad si è insediato un governo “amico”. Si va insomma avanti alla cieca».
Abbandonare il paese potrebbe aprire la strada alla guerra civile?
«Nessuno può escludere che la situazione irachena degeneri e scoppi la guerra civile, però è difficile dimostrare che, adesso, la presenza della Coalizione aiuti invece a mantenere l’ordine. Fino a pochi mesi le fonti militari a Nassiriya emanavano bollettini nei quali si parlava di ritrovamenti di armi, arresti di sospetti terroristi, ora non c’è più nulla di nulla. I militari stranieri, anche quelli americani passano gran parte del loro tempo consegnati negli accampamenti. Si tratta dunque realisticamente di salvare la faccia, la situazione potrebbe degenerare in un “nuovo Vietnam”. Anche Bush e Berlusconi stanno in realtà cercando una via d’uscita.
A fine anno scade il mandato concesso dall’Onu alla forza multinazionale, non a caso paesi come la Polonia hanno annunciato il ritiro per quella data. Al tempo stesso occorre fare ogni sforzo per valorizzare le istituzioni sorte in Iraq e per addestrare le forze di sicurezza locali. A chi teme che, se gli stranieri partiranno, scoppierà la guerra civile vorrei ricordare che vi sono stati due anni di occupazione ed ora si constata che la situazione si sta drammaticamente aggravando; la Coalizione si è cacciata in un vicolo cieco e quindi è opportuno chiudere questa pagina il prima possibile».

dal nostro angolino d'universo: innumerevoli galassie

L'Arena Domenica 8 Maggio 2005
Il cielo di maggio. Ce ne sono per tutti i «gusti»
Gli occhi puntati su migliaia di galassie
Giovanni Zonaro

La primavera si presta particolarmente per osservazioni del "profondo cielo", vale a dire quel settore dell'astronomia osservativa che si occupa di scrutare le profondità del cosmo al di fuori del nostro sistema solare alla ricerca di nebulose, galassie, ammassi aperti, globulari ecc. In questo periodo il nostro occhio può spaziare "indisturbato" per milioni, miliardi di anni luce alla ricerca delle innumerevoli galassie che popolano l'universo.
Partendo dalla nostra in cui siamo immersi, e volgendo lo sguardo verso la costellazione della Vergine e dirigendoci poi verso la Chioma di Berenice e quindi Orsa Maggiore e Cefeo, potremmo osservare migliaia di queste "isole". Ce ne sono per tutti i "gusti", tanto che non avremo nessuna difficoltà ad osservarne almeno una per ogni tipo classificato dagli scienziati, a patto, naturalmente, di possedere uno strumento di potenza adeguata (sono più che sufficienti gli strumenti con apertura dai 20 cm in su), comunque sempre alla portata dell'astrofilo medio.
Sostanzialmente le galassie si dividono in tre gruppi: il primo, quello delle spirali, si divide a sua volta in sottogruppi a seconda del rapporto che intercorre tra nucleo e bracci a spirale. Gli scienziati hanno classificato questi tipo di oggetti con una S seguita dal sottotipo (a,b,c. ecc.). In questo gruppo è compresa anche la nostra galassia che si classifica come spirale di tipo b. Esiste un'altra "versione" di spirali che prendono il nome di Spirali barrate (Sb), cioè oggetti caratterizzati da una barra al centro che collega i bracci. Anche qui come per le spirali semplici il rapporto tra la barra e i bracci ne caratterizza il tipo (Sba,Sbb,Sbc, ecc.).
Il secondo gruppo comprende le galassie ellittiche oggetti di tipo circolare che appaiono schiacciate per un effetto prospettico. Anche in questo caso di ellittiche ce ne sono di diversi tipi: si parte dal tipo E0 dall'aspetto più circolare alla E4 più schiacciata. L'osservazione delle ellittiche è un po' deludente soprattutto per gli astrofili alle prime armi, l'oculare infatti non mostra molti particolari, solo un profilo luminoso che degrada dal centro alla periferia.
Un tipo di galassie che non sono comprese né tra le ellittiche né tra le spirali sono quelle denominate "lenticolari". Ritenute in un primo momento l'anello di congiunzione tra il primo e il secondo gruppo sono considerate oggi dagli scienziati un tipo morfologico a sé stante.
L'ultima categoria di galassie è quella delle irregolari. Non hanno una forma precisa (da qui deriva il loro nome) senza nucleo né bracci, hanno fattezze che le fanno assomigliare più ad una nebulosa. Di questa categoria fanno parte le due nubi di Magellano, piccole galassie satelliti della Via Lattea visibili molto bene dall'emisfero australe.
Come si sono formate le galassie e come è stata possibile una tale diversificazione morfologica? Sono domande a cui gli scienziati non sanno ancora dare una risposta esaustiva, negli ultimi tempi però abbiamo compreso molto, sia della formazione che della loro evoluzione. Le galassie si sarebbero formate nei primi istanti di vita dell'universo, o almeno gli embrioni di esse, da alcune anomalie che si sarebbero create dopo il fenomeno parossistico che va sotto il nome di Big Bang. Queste fluttuazioni, che sono state rivelate di recente dal satellite COBE, avrebbero generato dei luoghi dove la materia era più concentrata e lì si sarebbero formati gli ammassi di galassie che a loro volta si sarebbero divisi in singole componenti.
L'evoluzione è invece qualcosa di molto più complesso: qui il panorama è molto più confuso, non è chiaro se i diversi tipi morfologici siano i vari stadi a cui possono giungere questi oggetti. In passato si riteneva che le galassie nascessero spirali e successivamente si spogliassero progressivamente di questi mantenendo solo il nucleo mediante un fenomeno di impoverimento. Oggi invece si va affermando una teoria diversa: le ellittiche non sarebbero altro che il resto di interazioni e fusioni tra galassie che si scontrano tra loro.

l'ultima intervista di Pasolini

L'Unità 9 Maggio 2005
Pasolini: «Siamo tutti in pericolo»
l’ultima intervista

Furio Colombo

Questo che pubblichiamo è il testo dell’intervista di Furio Colombo a Pier Paolo Pasolini pubblicato sull’inserto “Tuttolibri” del quotidiano “La Stampa” l’8 novembre del 1975

Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista.
Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto - ha detto - Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».
Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo...
Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo» non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.
(...)
Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.
Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto riderei bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo... È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno - se torno - ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.
E qual è la verità?
Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.
Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?
A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.
Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse - se ha ancora un soffio di vita - in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non facio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. l’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.
E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.
Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di fari libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta». Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.
Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»...
Che mi fa rabbrividire.
Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?
Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non solo quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.
Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?
Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.
Pasolini, se tu vedi la vita così - non so se accetti questa domanda - come pensi di evitare il pericolo e il rischio?
È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande.
Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina.

Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.

quanto "pesano" i cattolici? meno del 30%

Corriere della Sera 9.5.05
L’OSSERVATORIO
Nella sfida tra i poli è decisivo il «partito dei cattolici»

di RENATO MANNHEIMER

(...)
gli esiti delle consultazioni dipendono in larga misura dai movimenti da e per l'astensione e dalla quota, assai piccola (4-5%) ma decisiva, di votanti che si sposta da una coalizione all'altra. Questi ultimi tendono normalmente a definirsi «di centro» o, più spesso, non vogliono o non sanno collocarsi sul continuum sinistra-destra. Ebbene, sia tra chi si sente di centro, sia tra chi si definisce estraneo alle tradizionali categorie della politica, i cattolici praticanti sono presenti in misura maggiore. Per questo, per la loro posizione «centrale», gli orientamenti dei cattolici appaiono oggi addirittura più rilevanti per l'esito elettorale di quanto non lo fossero nella prima Repubblica. Anche se, sul piano strettamente quantitativo, la dimensione dell'elettorato cattolico è rimasta grossomodo la stessa, ormai da molti lustri: poco meno del 30% della popolazione, con una forte accentuazione tra chi ha più di 60 anni, tra le donne, tra chi risiede nei centri di minore dimensione.
(...)

psichiatria e nazismo nella Provincia di Venezia

estratto da: http://www.provincia.venezia.it
L'OLOCAUSTO PSICHIATRICO NELLA GERMANIA DEL III REICH
di Ernst Klee - Francoforte sul Meno

Fra Psichiatria e Nazismo non vi è alcuna contraddizione. Nell'uccisione di pazienti handicappati durante il nazionalsocialismo Hitler fu il servo della psichiatria. Lo Stato nazista consentì ciò che gli psichiatri già da tempo chiedevano a Hitler: l' eliminazione delle "vite non degne di essere vissute". Gli psichiatri tedeschi salutarono le terapie dell'uccisione delle "esistenze zavorra" incapaci di intendere e di volere e avviarono i pazienti più difficili alla gassificazione. Il periodo nazista fu utilizzato allo scopo di osservare gli esseri umani, ucciderli e sezionarli Per esempio il famoso neuroanatomista Julius Hallervordern "ordinava" per sé soggetti portatori di handicap, presenziava alla loro soppressione in camera a gas e ne tagliava i cervelli ancora nell'istituto dove la gassificazione aveva avuto luogo.
Ernst Klee, autore dello studio standard "Eutanasia" nello stato nazista traccia la continuità fra uccisione dei malati e degli ebrei. Gli assassini di Treblinka si mossero nel 1943/44 verso l'Italia, facendo capo principalmente a Trieste. Venezia fu l'ultima sede di Franz Stangl, il comandante del lager di sterminio di Treblinka. Nell'ottobre 1944 alcuni ammalati furono selezionati da Stangl e deportati fuori da Venezia.