Liberazione 7.5.05"Mamma non mamma"...
C'è poco da festeggiareMaria Vittoria VittoriDai romanzi e i manuali patinati che arrivano dagli Usa ai libri di psicoanalisi che aiutano a capire: la maternità come gioco di luci e di ombre, di amore e di odio. A volte con esiti dolorosi: di morte e di sangueLa mamma sorridente e cotonata che nel libro delle elementari vegliava sul focolare, la mamma un po' sciattona e generosa che "tutti i suoi frutti ti dà", erano, per noi figlie dei tardi anni '50, le uniche tipologie contemplate e contemplabili di mamma. Un'era dopo il femminismo, e dopo le "mamme al vento" in permanente terapia psicoanalitica e le buffe tardo-hippy descritte con sferzante ironia da Erminia Dell'Oro e Lidia Ravera, come "stiamo" a maternità?
Intanto, si registra un clamoroso balzo in avanti delle lancette dell'orologio biologico: se prima l'allarme scattava prima dei trent'anni, ora le quasi quarantenni in piena precarietà di lavoro e di esistenza sono ancora lì, a sfogliare la margherita del "mamma non mamma". Ancora una volta, sono le intrepide fanciulle americane a indicarci il cammino. I titoli riversati in libreria a ridosso della fatale festa della mamma lo confermano: c'è un'epidemia in corso di ex-fanciulle taglia 40 che alla soglia dei quaranta (anni) scoprono, con autentico terrore, di avere qualche strano meccanismo interno che le rende simili alle altre donne. A quelle che fanno figli. E così le modaiole creature che per principio non si negano mai niente, decidono che faranno un figlio, però a modo loro. Prendono lezioni via internet dall'esclusivo club "
Mommy and me" si scelgono un ginecologo alla Richard Gere, si drogano d'abbigliamento premaman, come la protagonista di
Sul punto di scoppiare (Mondadori, pp. 308, eur017,00) della losangelina Risa Green. Oppure, se sono scafate pubblicitarie, si organizzano una campagna promozionale tenendo il diario della gravidanza, come succede in
Premaman a vita bassa di Suzanne Finnamore (Sperling&Kupfer, pp. 168, euro 15,00) anche lei targata California.
Ma dite, potevamo farci mancare, noi precarie italiane, un metodo di management applicato alla maternità? Meno male che ci hanno aiutato le consorelle losangeline facendosi confezionare dallo psicologo Spencer Johnson un manuale ad hoc,
Professione mamma (Sperling&Kupfer, pp. 128, eur012,50). Fortunatamente, ci pensa l'ironia selvatica e benignesca - nel senso di derivante da Benigni - di Nicoletta Bortolotti in Neomamme allo stato brado (Baldini Castoldi Dalai, pp. 160, euro 13,40) a dissipare lo stucchevole sciame delle mamme e degli psicologi made in California. Dura la vita di queste neomamme allo stato brado: sprovviste di ginecologi alla Richard Gere, di deliziosi pancini abbronzati e delle più elementari nozioni di management. Vanno alla deriva nel gran mare della maternità senza aggrapparsi né alle rassicuranti ciambelle di salvataggio di mamme e zie mediterranee, né alle modaiole certezze delle loro consorelle americane.
Ci si può illudere fidandosi delle vernici sbrilluccicanti, della glasse zuccherine che avvolgono queste storie di mamme e le rituali celebrazioni della maternità: ma la maternità resta, sempre e comunque, evento forte e problematico. Ben lo sanno gli psicologi che dopo aver ricondotto alla figura materna ogni sorta di complesso e frustrazione, ora, forse per il preoccupante calo di natalità, fanno a gara per rassicurarci che va bene così, che non esistono mamme perfette. Grazie, ma lo sapevamo. Attraverso l'imperfezione ci siamo passate tutte; e ben sappiamo che quel "
baby blues" di cui amabilmente parlano psicologi e riviste femminili non è un malinconico languore ma una depressione nera.
Di quali e quante ambivalenze sia costituita una madre ne abbiamo fatta - e ne stiamo facendo - esperienza dal vivo, e ci hanno aiutato, in questa difficilissima arte di metterci all'ascolto di noi stesse, filosofe come Luce Irigaray e Luisa Muraro, psicoanaliste come Lella Ravasi e Silvia Vegetti Finzi. Aiuta anche la letteratura, non quella edulcorata e consolatoria ma quella che sa parlare anche con voce aspra, violenta. Riesce quindi a scrostare le false certezze, le false mitologie intorno alla maternità. La maternità si lascia cogliere solo così, nelle pieghe segrete di un rapporto con i figli che è sempre e comunque conflittuale (
Madre e figlia di Francesca Sanvitale,
Terremoto con madre e figlia di Fabrizia Ramondino,
Vincoli segreti di Grazia Livi, Figlie e madri a cura di Joyce Carol Oates): si lascia addomesticare solo da una sapiente ironia e autoironia, si lascia intravedere in tutta la sua intensità solo in certe storie cupe e paradossali.
Come accade in due libri recenti, che dal buio fitto delle vicende rappresentate riescono a riversare sulla maternità uno di quei flash potentissimi, capace di mettere ambivalenze e contraddizioni in piena luce. Nel testo teatrale di Grazia Verasani
From Medea (Sironi, pp. 122, euro 10,50) è il tragico fantasma di Medea che ritorna, ripartito in quattro donne diversissime tra loro ma accomunate dall'aver levato la mano sui loro figli. Nel romanzo breve di Veronique Olmi
In riva al mare (Einaudi, pp.94, euro 9,00) una mamma sta partendo con i suoi figli per una gita a lungo desiderata. Fin dalle prime battute s'avverte, con un allarme scavato nel profondo, che il loro sarà un viaggio di sola andata.
Siamo portati a liquidarli come effetto di raptus, di follia, questi casi che si leggono anche in cronaca, perché ci fanno paura. Non ne vogliamo sapere, non vogliamo capirli, non vogliamo interrogarci. Ma è la forza potente della rappresentazione a non consentirci scappatoie, a farci intuire il tremendo paradosso della maternità: «Quando uccidi tuo figlio è te stessa che fai fuori in quel momento». Perché la maternità - e fa bene ricordarlo in un tempo che banalizza sentimenti e riflessioni o li deforma in polemiche strumentali - è luce e lutto, possesso e perdita che convivono, inseparabili. Intuire che cosa c'è nel suo abisso aiuta a prendere le misure, a trovare di volta in volta un equilibrio.
Proprio perché intimamente sappiamo di quale formidabile portata siano le questioni connesse alla maternità, non possiamo lasciare che siano i politici, per di più di sesso maschile, a dibattere sui diritti dell'embrione, a cercare di stabilire, attraverso sofistiche e strumentali controversie, qual è il momento esatto nel quale inizia la vita. Quell'ovulo fecondato, barlume di vita, ha la possibilità di diventare creatura solo se la donna lo accoglie, gli dice sì.
Liberazione 7.5.05
Uno studio Eurispes sul "familismo utilitaristico": giovani a casa fino ai 34 anniLa famiglia? Rifugio contro la precarietà economicaLaura EduatiLo chiamano freddamente "familismo utilitaristico" e per spiegarlo possiamo dire che è la tendenza a considerare la famiglia non più come nucleo affettivo che ci accoglie, ripara e fortifica di fronte alle miserie del mondo, bensì come un modello di coabitazione che ci dà soprattutto benefici economici e sociali. A registrare il modo in cui è cambiata la famiglia è uno studio Eurispes intitolato, per l'appunto, "Familismo utilitaristico", secondo il quale oggi si fa fatica a staccarsi dal nucleo originario perché da soli è difficile far quadrare i conti. «L'emigrazione di ritorno dei figlioli prodighi, l'impossibilità materiale per diversi giovani, di abbandonare la famiglia d'origine, la difficoltà di alcuni a recidere il legame matrimoniale per via dei costi economici e sociali del divorzio o della separazione, stanno originando un modello relazionale-famigliare basato soprattutto sui benefici della coabitazione», riassume il presidente Gian Maria Fara. Sono soprattutto i figli a rimanere a casa con i genitori fino ai 30 anni e oltre, e non per mammismo. Su cento studenti ultradiciottenni, il 98% non se ne vuole andare: «Non si tratterebbe di una stranezza se parlassimo di studenti universitari che, presa la laurea (breve o lunga), a 21/25 anni, trovano un lavoro e vanno via di casa», scrive il rapporto, «il problema è che qui abbiamo "ragazzi" e "ragazze" dai 18 ai 34 anni la cui qualifica di studente nasconde nella maggior parte dei casi uno stato di inoccupazione prolungata». E che non siano tutti studenti lo conferma il fatto che l'81, 2% di loro sta cercando un lavoro; quando lo trovano, il 56% preferisce comunque stare con mamma e papà. «Più che la comodità di non doversi occupare di se stessi o di una propria famiglia, sembra sia la mancanca di sicurezza economica ciò che spinge i cosiddetti giovani a non lasciare il nido familiare». I contratti sempre più precari, i lavori intermittenti senza indennità per ferie, malattia o vacanze costringono d'altronde il 20% dei 33-37enni che si erano emancipati a tornare in famiglia. Continua il trend che sposta in avanti il ciclo della vita individuale: le donne fanno il primo figlio più tardi, ci si sposa più tardi e sempre di meno in chiesa. «La posticipazione va di pari passo con la secolarizzazione del rito matrimoniale», è la conclusione dell'Eurispes, che individua inoltre l'aumento di separazioni - +4, 9% rispetto al 1995 - e divorzi - + 4, 4%. La maggior parte dei divorziati e dei separati è relativamente giovane, visto che oscilla tra i 35 e i 44 anni (nel 30% dei casi), e tra i 45 e i 54 anni (27%). Il Sud, per tradizione e cultura, preferisce salvare la famiglia: qui le separazioni non toccano il 4% delle coppie sposate, mentre al Nord e al Centro sono il 6, 5%.
Quando la coppia scoppia, solitamente i figli rimangono a lei, che diventa madre single, con tutte le conseguenze e le difficoltà del caso. A rifarsi una famiglia riesce solo il 27% degli uomini e al 20% delle donne, per le quali è più difficile far accettare i propri figli ad un nuovo compagno - accade solo nel 13% dei casi. Nel complesso, gli uomini single e separati hanno più facilità a ricostruirsi una vita dopo il fallimento del matrimonio, visto che quelli con figli a carico costituiscono appena il 9%. Nonostante i problemi economici che scandiscono la maggior parte delle separazioni e dei divorzi, solamente il 9% degli uomini e il 5% delle donne accetta di tornare a vivere con i genitori, e la percentuale si assottiglia se si considerano i casi di aggregazioni famigliari con amici o parenti.
La famiglia, insomma, cambia e si trasforma. Per l'Eurispes «indebolita dagli effetti della crisi e dai processi di disgregazione cominciati con l'introduzione del divorzio e con l'ingresso della donna nel mondo del lavoro, la famiglia resiste come soggetto economico e relazionale in grado di fornire ai suoi membri un riparo dall'inospitalità del mondo». Una delle conseguenze più palesi, e non è da oggi che se ne parla, è il bassissimo tasso di natalità, rinsanguato dall'arrivo di immigrati, più prolifici, che per la prima volta nel 2003 hanno determinato un saldo attivo di 300mila nuovi nati. Nel complesso, invece, le coppie con figli rimangono la maggioranza - 66% - ma sono in diminuzione, mentre le coppie senza figli sono la minoranza - 33, 9% - ma in aumento.
Fare meno figli, per le motivazioni più varie tra le quali rientra anche la sterilità, invecchia progressivamente la popolazione: al 1 gennaio 2003 l'indice di vecchiaia -ovvero il rapporto percentuale tra la popolazione di età superiore ai 65 anni e la popolazione di età compresa tra 0 e 14 anni - risulta pari al 133, 8%: cioé per ogni 100 bambini ci sono 133 anziani.
Aumentano anche le coppie che rinunciano alle nozze e vanno a convivere: nel 1994 erano solo l'1, 8%, oggi il 3, 6%, cioé 510.251 unità. Quasi la metà dei componenti di queste unioni proviene da un matrimonio fallito. Ma il vero cambiamento è l'arrivo dei single sul panorama sociale. Nel 1971 erano 2 milioni, cioé il 13% delle famiglie. Oggi sono una famiglia su quattro è composta da una sola persona, non sempre anziana, e nel 97% dei casi si tratta di persone che vivono con altre: ritorna anche qui la coabitazione come mezzo per fronteggiare i costi della vita sempre più alti.