La Stampa 13 Luglio 2003
FILOSOFI, ECONOMISTI, SCIENZIATI: IL CONVEGNO TORINESE SUL COGNITIVISMO
Nel pozzo della mente
di Mario Baudino
CAPIRE come funziona la nostra mente è la nuova frontiera non solo degli studi psicologici ma anche di quelli filosofici e sociali. Soprattutto per quanto riguarda un campo d’applicazione fondamentale come è quello dell’economia, dove mai come oggi può valere il principio enunciato più d’un secolo fa dal poeta Charles Baudelaire al teorico del socialismo utopico, Jacques Proudhon: prima dei grandi scenari vengono gli individui. Ce lo ricorda il professor Riccardo Viale, direttore del Laboratorio di Scienze Cognitive, Metodologiche e Socioeconomiche (istituito dalla Fondazione Rosselli e dalle Università Bocconi e Statale di Milano), a conclusione dell’incontro internazionale «European Society for Philosophy and Psycology», organizzato sulla collina torinese, a Villa Gualino, sempre dalla Fondazione Rosselli.
E’ stato un momento importante di confronto fra studiosi di varia estrazione che si muovono all’interno di una disciplina considerata ormai uno dei campi più avanzati e cruciali nella ricerca sociale: il cognitivismo appunto, parola dal sapore un po’ misterioso e un po’ iniziatico, e che tuttavia sta incidendo ormai da anni, in profondo, sulla vita di tutti noi. In qualche modo, si tratta di una specie di ritorno al passato, per esempio nell’economia, dove l’attenzione agli aspetti psicologici dell’individuo può ricordare addirittura le teorie di Adam Smith. Un ritorno all’insegna del pragmatismo.
«Basti pensare che il premio Nobel per l’economia - dice ancora il professor Viale - è stato assegnato nel 2002 a uno psicologo come Daniel Kahneman». Con la motivazione di essere riuscito ad integrare argomenti della ricerca psicologica con le scienze dell'economia, in particolare per quanto riguarda i processi decisionali e di giudizio nelle incertezze. Il che sta dimostrare come si sia largamente imposta l’idea della necessità di elaborare, specialmente in questo campo, teorie con base empirica più fondata. Questo che cosa significa, nella pratica? «Per esempio che è meglio chiederci attraverso quali meccanismi l’individuo arriva a prendere una decisione, prima di metterci a disegnare scenari globali».
E le risposte che arrivano possono essere applicate nei settori più disparati, dalla borsa, per esempio, al lavoro, alla politica. «Se si vanno a vedere le università più importanti dal punto di vista della produzione scientifica, troviamo che questi temi pervadono vari campi del sapere. La scienza cognitiva ci permette di capire meglio certi problemi filosofici, che a me interessano molto, in quanto epistemologo che cerca di indagare direttamente i fenomeni: per esempio se le osservazioni scientifiche sono impregnate o meno di teoria, e in generale tutto il problema legato alle decisioni in campo scientifico».
Il professor Viale fa l’esempio della «conoscenza tacita», ovvero quella forma di sapere personale che coinvolge anche la sfera delle emozioni, degli ideali e dei valori, degli schemi e dei modelli mentali, influenza la nostra percezione del mondo ma è molto difficile da far emergere in modo efficace in un contesto collettivo di ricerca o di produzione. Anche in questo caso, avere delle chiavi per capire come funziona la mente permette di liberare energie, di migliorare il nostro rapporto con gli altri, i risultati del nostro lavoro, in generale la nostra stessa vita. In una parola il cognitivismo consente di attivare delle procedure per saperne di più sul gioco di individui che costituisce la società. Magari di evitare qualche errore: per esempio, gli eccessi di visioni economiche che pretendono di fare calcoli e previsioni sui futuri scenari del mondo in maniera astratta, e che hanno caratterizzato il Novecento.
In fondo, nei totalitarismi non c’era, forte, questa componente? «I totalitarismi concepivano, a partire dal centro del sistema, dal cuore del potere, pianificazioni economiche e previsioni ritenendo di avere la forza per realizzarle. Oggi assistiamo a un fenomeno sempre più vasto dove si vede come vengano abbandonate le ipotesi che si basavano su premesse intuitive». Quindi grandi passi avanti? Il termometro, anche in questo caso, possono essere gli studenti. Come li vede, il professor Viale, dalla sua cattedra universitaria? «Molto attenti. Possono verificare in modo diretto quanto sia importante per loro capire la propria mente, magari già agli esami».
In questo caso si tratta piuttosto di capire la mente degli altri, degli esaminatori. «Certo. E gli studenti ormai hanno imparato, ad esempio, che se si riesce ad ancorare la valutazione del professore a una prima risposta particolarmente brillante, poi è molto difficile che il giudizio positivo possa cambiare». Insomma, è fatta. Ma i professori dovrebbero saperlo e reagire, azzerando questo piccolo vantaggio. Invece, non si può mai dire. «Anche gli studiosi di statistica, quando devono prendere una decisione che li riguarda direttamente, diventano degli “inesperti”». Come l’astronomo della favola di Esopo, che mentre guarda le stelle cade in un pozzo e viene sbeffeggiato da un passante? «E’ un fatto che quando entra in gioco l’intuizione, tutti tendiamo a comportarci da inesperti».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 13 luglio 2003
Peppe Dell'Acqua, psichiatra basagliano, e la schizofrenia...
Galileo 13.7.03
LIBRI
Schizofrenia, il bicchiere è mezzo pieno
Peppe Dell'Acqua
Fuori come va?
Editori Riuniti, 2003
pp. 320, euro 15,00
Peppe Dell'Acqua, psichiatra, origini campane e baffi da vichingo, porta dentro di sé la straordinaria esperienza di chi ha lavorato a Trieste insieme a Franco Basaglia, partecipando a quell'opera di riforma che, nella primavera del 1978, portò prima alla legge 180 e poi alla chiusura dei manicomi italiani. Oggi Dell'Acqua è il direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, che ha sede proprio in un padiglione dell'ex ospedale psichiatrico. E da questo osservatorio privilegiato, non ha mai smesso di farsi una domanda semplice e diretta: "Fuori come va?".
Oggi quella domanda è diventata il titolo di un libro, anzi di un "manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi", che affronta con coraggio un tema difficile e controverso: la schizofrenia. Con coraggio perché abbandona il linguaggio specialistico nel tentativo di dare una risposta chiara ai problemi che affliggono chi si trova a fare i conti con l'esperienza della malattia mentale: famiglie, operatori sanitari, pazienti. Senza perdere l'occasione di lanciare un messaggio positivo: guardiamo con ottimismo alle cure e ai servizi che in Italia hanno sostituito l'istituzione manicomiale.
E' un messaggio importante, perché arriva proprio nel momento in cui la legge 180 viene rimessa in discussione con l'accusa di aver costretto le famiglie a farsi carico della sofferenza dei propri cari affetti da un disturbo mentale. Ma proprio l'esperienza di Trieste, in cui il manicomio è stato sostituito da una rete efficiente di servizi territoriali aperti 24 ore su 24, dimostra che un'alternativa è possibile: al contenimento si può sostituire la cura, all'emarginazione la partecipazione e il dialogo.
L'ottimismo di Dell'Acqua si basa su oltre 15 anni di confronto e riunioni con i parenti delle persone affette da schizofrenia. La stessa divisione del libro in dieci capitoli rispecchia simbolicamente il numero di incontri che forma un ciclo di ascolto, e il lettore, insieme alle nozioni teoriche di base, può trovare informazioni pratiche che corrispondono a un percorso terapeutico sperimentato nella quotidianità.
E se da un lato il linguaggio viene semplificato affinché il messaggio risulti comprensibile a tutti, dall'altro il manuale scritto da Dell'Acqua ha il pregio di restituire al lettore la complessità del mondo della malattia mentale, in cui non esiste un'unica causa, un'unica definizione, un'unica via di guarigione. Una complessità che può essere anche una risorsa, e che non ha impedito a John Nash, malato di schizofrenia, di vincere il premio Nobel per l'economia, "né a Nicole di riprendere il suo lavoro e di diventare la splendida madre che è".
LIBRI
Schizofrenia, il bicchiere è mezzo pieno
Peppe Dell'Acqua
Fuori come va?
Editori Riuniti, 2003
pp. 320, euro 15,00
Peppe Dell'Acqua, psichiatra, origini campane e baffi da vichingo, porta dentro di sé la straordinaria esperienza di chi ha lavorato a Trieste insieme a Franco Basaglia, partecipando a quell'opera di riforma che, nella primavera del 1978, portò prima alla legge 180 e poi alla chiusura dei manicomi italiani. Oggi Dell'Acqua è il direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, che ha sede proprio in un padiglione dell'ex ospedale psichiatrico. E da questo osservatorio privilegiato, non ha mai smesso di farsi una domanda semplice e diretta: "Fuori come va?".
Oggi quella domanda è diventata il titolo di un libro, anzi di un "manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi", che affronta con coraggio un tema difficile e controverso: la schizofrenia. Con coraggio perché abbandona il linguaggio specialistico nel tentativo di dare una risposta chiara ai problemi che affliggono chi si trova a fare i conti con l'esperienza della malattia mentale: famiglie, operatori sanitari, pazienti. Senza perdere l'occasione di lanciare un messaggio positivo: guardiamo con ottimismo alle cure e ai servizi che in Italia hanno sostituito l'istituzione manicomiale.
E' un messaggio importante, perché arriva proprio nel momento in cui la legge 180 viene rimessa in discussione con l'accusa di aver costretto le famiglie a farsi carico della sofferenza dei propri cari affetti da un disturbo mentale. Ma proprio l'esperienza di Trieste, in cui il manicomio è stato sostituito da una rete efficiente di servizi territoriali aperti 24 ore su 24, dimostra che un'alternativa è possibile: al contenimento si può sostituire la cura, all'emarginazione la partecipazione e il dialogo.
L'ottimismo di Dell'Acqua si basa su oltre 15 anni di confronto e riunioni con i parenti delle persone affette da schizofrenia. La stessa divisione del libro in dieci capitoli rispecchia simbolicamente il numero di incontri che forma un ciclo di ascolto, e il lettore, insieme alle nozioni teoriche di base, può trovare informazioni pratiche che corrispondono a un percorso terapeutico sperimentato nella quotidianità.
E se da un lato il linguaggio viene semplificato affinché il messaggio risulti comprensibile a tutti, dall'altro il manuale scritto da Dell'Acqua ha il pregio di restituire al lettore la complessità del mondo della malattia mentale, in cui non esiste un'unica causa, un'unica definizione, un'unica via di guarigione. Una complessità che può essere anche una risorsa, e che non ha impedito a John Nash, malato di schizofrenia, di vincere il premio Nobel per l'economia, "né a Nicole di riprendere il suo lavoro e di diventare la splendida madre che è".
Hannah Arendt
La Gazzetta di Parma 13.7.03
«L'archivio Arendt - 2. 1950 - 1954», raccolta di scritti della celebre pensatrice tedesca (Feltrinelli)
Capire, una lezione di civiltà
Pagine di alto valore etico e profondo respiro intellettuale. Tra i temi trattati, l'Olocausto
Se il nostro io è artificiale, lo è altrettanto lo Stato che legifera i diritti, la paura, l'ignoranza, la maggioranza, il razzismo, la deformazione medianica e le sue sinonimie.
Un esempio d'attualità di mezzo secolo fa? «Comunismo e totalitarismo: un'equazione stabilita senza riflettere e messa in circolazione come arma per dare la caccia a chiunque abbia a cuore l'uguaglianza sociale o una società senza privilegi di classe».
Lo ha scritto Simona Forti nell'introduzione all'«Archivio Arendt - 2. 1950-1954» (Feltrinelli, 230 pagine, 30 euro, traduzione Paolo Costa), due anni dopo il primo volume «1930-1948».
Sono diciassette capitoletti composti da documenti e convegni, repliche e dibattiti, pareri e commenti, articoli e saggi inediti, tra i più belli e fulminanti di Hannah Arendt, la pensatrice adorata e detestata, sia a destra sia a sinistra, sia da ebrei sia da cattolici, da tradizionalisti e femministe.
Ignorata dalla Garzantina di filosofia benché fosse nata nel 1906 a Hannover (Bassa Sassonia), si laureò con Jasper («Carteggio 1926-1969, Filosofia e politica» Feltrinelli 1988), fu allieva e amante di Heidegger (iscritto al partito di Hitler, rettore all'Università di Friburgo, autore di «Essere e tempo» che ispirò «L'essere e il nulla» di Sartre).
Sposatasi in seconde nozze nel 1936 con Henrich Blücher a Parigi, dove giunse con la madre dalla Svizzera a causa delle persecuzioni naziste, frequentò Benjamin, Aron, Brecht. Internata in un campo dal governo Vichy, appena rilasciata, a Marsiglia, con il marito s'imbarcò per l'America.
Apolide, sradicata, mantenendosi con delle collaborazioni editoriali sino ai cinquant'anni, insegnò all'università di Chicago, di Berkeley, di Princeton, morì d'infarto a New York il 14 dicembre 1975. A Dresda funziona l'«Hannah-Arendt-Institut für Totalitarismusforschung».
In Italia fra i suoi titoli più noti citiamo «Vita activa» (1958), saggio incompiuto su Marx e marxismo; «La banalità del male - Eichmann a Gerusalemme» (Feltrinelli 1964), cronaca del famigerato processo; «Le origini del totalitarismo» (Edizioni di Comunità 1967), ovvero «la negazione più radicale della libertà (...) la convinzione che tutto sia permesso, che tutto sia possibile»; e «Sulla violenza» (Guanda 1996), perpetuata da chi anche democraticamente conquista il potere.
Temi ricorrenti in questo stesso «Archivio»; e dall'intensa prefazione della brava Simona Forti ricopiamo: «Le pagine straordinarie dedicate a 'I postumi del dominio nazista - reportage dalla Germania - riflettono sull'effetto a lungo termine di quell'intossicazione diventata letale nei regimi totalitari, intossicazione che continua a colpire gli uomini post-totalitari: la loro capacità, diabolica e ineffabile a un tempo, di trasformare i fatti in opinioni, il possibile nell'attuale e il contingente nel necessario».
Ed anche se «non vi è nulla che possiamo compiere in maniera assolutamente perfetta», l'assenza assoluta di pensiero, di realtà, diventano assenza di responsabilità (tutti colpevoli, nessun colpevole, si sa). L'anima si atrofizza, si acceca, si assorda.
Allora si edificano laboratori perpetui, trame banali, micce di male che agiscono le une vicine alle altre, dentro di noi, con indifferenza. Già, non siamo solo materia organica e indistinta, «morenti (...) come se il mondo moderno pagasse coi regimi totalitari il prezzo della rottura con la tradizione, espiasse l'abbandono della ''retta via'' segnata dall'etica antica e cristiana».
Alla ricerca di truismi, cioè di quelle verità ovvie che custodiscono il mobilissimo e irripetibile «essere singolare plurale», per rintuzzare politiche poco nobili che sanno riprodurre più diseducazione che garbo, più disoccupazione che talento, più disuguaglianza che parsimonia, più incoltura e spreco che bellezza e bontà.
Dovremmo rifiutare che i riflessi condizionati dei cani, come quelli del fisiologo russo Pavlov (premio Nobel 1904), trasformino l'umanità; ci rendano un ammasso indistinto e disamato senza sole, senza spazio, senza speranze, alla maniera degli allevamenti zootecnici.
Dovremmo finirla di giustificare le uova rotte per sfornare appetibili frittate, le quali, meno simbolicamente, equivalgono a mortificazioni corporali per spaccare «la vita della mente».
Concetti chiari, semplici, sani, che l'Arendt espresse trent'anni prima del francese Foucault e dell'italiano Mario Mieli.
Giudizi che inducono ad una «ontologia del presente», un termine coniato alla fine del XVII secolo per definire la scienza dell'essere in quanto essere, la «filosofia prima» di Aristotele chiamata metafisica: il luogo che contiene i principii della conoscenza. O, a proposito di Heidegger e di linguaggi strumentali, il destino occidentale che supera l'oblio dell'essere e della poesia. In povere parole, visto che «il presente non è mai la ripetizione del passato», Hannah Arendt esorta all'intelligencija.
Non basta essere buoni per agire bene, occorre intuire, afferrare, scegliere, soprattutto capire; siccome ogni cosa influisce su altre, «la comprensione rappresenta il modo specificamente umano di rimanere vivi».
L'ancheggiante magnificenza del mondo, pregava la più giovane Etty Hillesum prima di morire ad Auschwitz.
«L'archivio Arendt - 2. 1950 - 1954», raccolta di scritti della celebre pensatrice tedesca (Feltrinelli)
Capire, una lezione di civiltà
Pagine di alto valore etico e profondo respiro intellettuale. Tra i temi trattati, l'Olocausto
Se il nostro io è artificiale, lo è altrettanto lo Stato che legifera i diritti, la paura, l'ignoranza, la maggioranza, il razzismo, la deformazione medianica e le sue sinonimie.
Un esempio d'attualità di mezzo secolo fa? «Comunismo e totalitarismo: un'equazione stabilita senza riflettere e messa in circolazione come arma per dare la caccia a chiunque abbia a cuore l'uguaglianza sociale o una società senza privilegi di classe».
Lo ha scritto Simona Forti nell'introduzione all'«Archivio Arendt - 2. 1950-1954» (Feltrinelli, 230 pagine, 30 euro, traduzione Paolo Costa), due anni dopo il primo volume «1930-1948».
Sono diciassette capitoletti composti da documenti e convegni, repliche e dibattiti, pareri e commenti, articoli e saggi inediti, tra i più belli e fulminanti di Hannah Arendt, la pensatrice adorata e detestata, sia a destra sia a sinistra, sia da ebrei sia da cattolici, da tradizionalisti e femministe.
Ignorata dalla Garzantina di filosofia benché fosse nata nel 1906 a Hannover (Bassa Sassonia), si laureò con Jasper («Carteggio 1926-1969, Filosofia e politica» Feltrinelli 1988), fu allieva e amante di Heidegger (iscritto al partito di Hitler, rettore all'Università di Friburgo, autore di «Essere e tempo» che ispirò «L'essere e il nulla» di Sartre).
Sposatasi in seconde nozze nel 1936 con Henrich Blücher a Parigi, dove giunse con la madre dalla Svizzera a causa delle persecuzioni naziste, frequentò Benjamin, Aron, Brecht. Internata in un campo dal governo Vichy, appena rilasciata, a Marsiglia, con il marito s'imbarcò per l'America.
Apolide, sradicata, mantenendosi con delle collaborazioni editoriali sino ai cinquant'anni, insegnò all'università di Chicago, di Berkeley, di Princeton, morì d'infarto a New York il 14 dicembre 1975. A Dresda funziona l'«Hannah-Arendt-Institut für Totalitarismusforschung».
In Italia fra i suoi titoli più noti citiamo «Vita activa» (1958), saggio incompiuto su Marx e marxismo; «La banalità del male - Eichmann a Gerusalemme» (Feltrinelli 1964), cronaca del famigerato processo; «Le origini del totalitarismo» (Edizioni di Comunità 1967), ovvero «la negazione più radicale della libertà (...) la convinzione che tutto sia permesso, che tutto sia possibile»; e «Sulla violenza» (Guanda 1996), perpetuata da chi anche democraticamente conquista il potere.
Temi ricorrenti in questo stesso «Archivio»; e dall'intensa prefazione della brava Simona Forti ricopiamo: «Le pagine straordinarie dedicate a 'I postumi del dominio nazista - reportage dalla Germania - riflettono sull'effetto a lungo termine di quell'intossicazione diventata letale nei regimi totalitari, intossicazione che continua a colpire gli uomini post-totalitari: la loro capacità, diabolica e ineffabile a un tempo, di trasformare i fatti in opinioni, il possibile nell'attuale e il contingente nel necessario».
Ed anche se «non vi è nulla che possiamo compiere in maniera assolutamente perfetta», l'assenza assoluta di pensiero, di realtà, diventano assenza di responsabilità (tutti colpevoli, nessun colpevole, si sa). L'anima si atrofizza, si acceca, si assorda.
Allora si edificano laboratori perpetui, trame banali, micce di male che agiscono le une vicine alle altre, dentro di noi, con indifferenza. Già, non siamo solo materia organica e indistinta, «morenti (...) come se il mondo moderno pagasse coi regimi totalitari il prezzo della rottura con la tradizione, espiasse l'abbandono della ''retta via'' segnata dall'etica antica e cristiana».
Alla ricerca di truismi, cioè di quelle verità ovvie che custodiscono il mobilissimo e irripetibile «essere singolare plurale», per rintuzzare politiche poco nobili che sanno riprodurre più diseducazione che garbo, più disoccupazione che talento, più disuguaglianza che parsimonia, più incoltura e spreco che bellezza e bontà.
Dovremmo rifiutare che i riflessi condizionati dei cani, come quelli del fisiologo russo Pavlov (premio Nobel 1904), trasformino l'umanità; ci rendano un ammasso indistinto e disamato senza sole, senza spazio, senza speranze, alla maniera degli allevamenti zootecnici.
Dovremmo finirla di giustificare le uova rotte per sfornare appetibili frittate, le quali, meno simbolicamente, equivalgono a mortificazioni corporali per spaccare «la vita della mente».
Concetti chiari, semplici, sani, che l'Arendt espresse trent'anni prima del francese Foucault e dell'italiano Mario Mieli.
Giudizi che inducono ad una «ontologia del presente», un termine coniato alla fine del XVII secolo per definire la scienza dell'essere in quanto essere, la «filosofia prima» di Aristotele chiamata metafisica: il luogo che contiene i principii della conoscenza. O, a proposito di Heidegger e di linguaggi strumentali, il destino occidentale che supera l'oblio dell'essere e della poesia. In povere parole, visto che «il presente non è mai la ripetizione del passato», Hannah Arendt esorta all'intelligencija.
Non basta essere buoni per agire bene, occorre intuire, afferrare, scegliere, soprattutto capire; siccome ogni cosa influisce su altre, «la comprensione rappresenta il modo specificamente umano di rimanere vivi».
L'ancheggiante magnificenza del mondo, pregava la più giovane Etty Hillesum prima di morire ad Auschwitz.
l'uomo nuovo...
Corriere della Sera 13.7.03
ELZEVIRO Dal nazismo al comunismo
Creare l’uomo nuovo Il mito del Novecento
di GIOVANNI BELARDELLI
(...)
Quel mito ha avuto corso soprattutto nei regimi totalitari, i quali puntavano a conquistare un dominio totale sulle coscienze attraverso gli strumenti della pedagogia di massa. Tra le due guerre la creazione dell’«uomo nuovo» fu così uno dei grandi obiettivi del regime sovietico, di quello nazionalsocialista, di quello fascista (ma anche, nella seconda metà del secolo, della Cina di Mao o della Cuba di Castro): se i «valori» che si volevano inculcare nelle nuove generazioni erano diversi nei vari casi, analoga era l’intenzione di combattere la «vecchia» e «corrotta» mentalità borghese. Analogo era anche l’intento di distruggere l’individualità, di formare giovani istintivamente portati ad uniformarsi al gruppo, educati ad accettare spontaneamente e senza obiezioni i comandi della collettività (cioè dei vertici del regime).
In realtà il mito dell’«uomo nuovo» ha radici più antiche, che risalgono al secolo XVIII. L’illuminismo condivideva l’idea che l’educazione (come scrisse Helvétius) «potesse tutto». Sulla stessa scia, gli uomini della Rivoluzione francese riconobbero alla collettività il diritto ad impadronirsi delle giovani generazioni, per trasformarle secondo i nuovi valori democratici. Ciò, naturalmente, non implicava di necessità gli esiti totalitari delle dittature del ’900: dalla fiducia nell’onnipotenza dell’educazione sono anche nati i moderni sistemi di istruzione pubblica. E tuttavia qualcosa del sogno illuminista e giacobino di «rigenerare» gli esseri umani, giungendo al punto di cambiare le teste e i cuori delle persone, si ritrova appunto nel mito novecentesco dell’«uomo nuovo» di cui si occupano questi Annali di storia dell’educazione .
Uno dei saggi, scritto da Luca La Rovere, è dedicato all’Italia fascista e alla vasta opera di pedagogia di massa attuata per vent’anni dal regime mussoliniano, con risultati che la storiografia ha generalmente considerato scarsi. Non soltanto, infatti, l’azione educativa del regime si trovò di fronte l’ostacolo rappresentato dalla Chiesa cattolica [ostacolo? ndr]. Soprattutto, il partito fascista ridusse gran parte della formazione delle nuove generazioni, che aspirava ad essere nientemeno che una rivoluzione antropologica, a «un rigido conformismo esteriore e alla ripetizione pedissequa di comportamenti codificati». Non a caso l’azione che avrebbe dovuto formare le nuove leve di giovani e renderle fasciste nel profondo dell’animo finì così con l’essere dominata da una «vera e propria ossessione per il vigore fisico» e col puntare sempre più sull’attività sportiva come chiave di volta dei «nuovi italiani». Nonostante questi innegabili limiti, La Rovere suggerisce però di non considerare irrilevante la politica fascista volta alla creazione dell’«uomo nuovo». Il fatto che, nel 1943-45, tanti giovani avessero seguito Mussolini perfino nell’esperienza di Salò sembra indicare che quella politica, purtroppo, non era stata priva di risultati.
ELZEVIRO Dal nazismo al comunismo
Creare l’uomo nuovo Il mito del Novecento
di GIOVANNI BELARDELLI
(...)
Quel mito ha avuto corso soprattutto nei regimi totalitari, i quali puntavano a conquistare un dominio totale sulle coscienze attraverso gli strumenti della pedagogia di massa. Tra le due guerre la creazione dell’«uomo nuovo» fu così uno dei grandi obiettivi del regime sovietico, di quello nazionalsocialista, di quello fascista (ma anche, nella seconda metà del secolo, della Cina di Mao o della Cuba di Castro): se i «valori» che si volevano inculcare nelle nuove generazioni erano diversi nei vari casi, analoga era l’intenzione di combattere la «vecchia» e «corrotta» mentalità borghese. Analogo era anche l’intento di distruggere l’individualità, di formare giovani istintivamente portati ad uniformarsi al gruppo, educati ad accettare spontaneamente e senza obiezioni i comandi della collettività (cioè dei vertici del regime).
In realtà il mito dell’«uomo nuovo» ha radici più antiche, che risalgono al secolo XVIII. L’illuminismo condivideva l’idea che l’educazione (come scrisse Helvétius) «potesse tutto». Sulla stessa scia, gli uomini della Rivoluzione francese riconobbero alla collettività il diritto ad impadronirsi delle giovani generazioni, per trasformarle secondo i nuovi valori democratici. Ciò, naturalmente, non implicava di necessità gli esiti totalitari delle dittature del ’900: dalla fiducia nell’onnipotenza dell’educazione sono anche nati i moderni sistemi di istruzione pubblica. E tuttavia qualcosa del sogno illuminista e giacobino di «rigenerare» gli esseri umani, giungendo al punto di cambiare le teste e i cuori delle persone, si ritrova appunto nel mito novecentesco dell’«uomo nuovo» di cui si occupano questi Annali di storia dell’educazione .
Uno dei saggi, scritto da Luca La Rovere, è dedicato all’Italia fascista e alla vasta opera di pedagogia di massa attuata per vent’anni dal regime mussoliniano, con risultati che la storiografia ha generalmente considerato scarsi. Non soltanto, infatti, l’azione educativa del regime si trovò di fronte l’ostacolo rappresentato dalla Chiesa cattolica [ostacolo? ndr]. Soprattutto, il partito fascista ridusse gran parte della formazione delle nuove generazioni, che aspirava ad essere nientemeno che una rivoluzione antropologica, a «un rigido conformismo esteriore e alla ripetizione pedissequa di comportamenti codificati». Non a caso l’azione che avrebbe dovuto formare le nuove leve di giovani e renderle fasciste nel profondo dell’animo finì così con l’essere dominata da una «vera e propria ossessione per il vigore fisico» e col puntare sempre più sull’attività sportiva come chiave di volta dei «nuovi italiani». Nonostante questi innegabili limiti, La Rovere suggerisce però di non considerare irrilevante la politica fascista volta alla creazione dell’«uomo nuovo». Il fatto che, nel 1943-45, tanti giovani avessero seguito Mussolini perfino nell’esperienza di Salò sembra indicare che quella politica, purtroppo, non era stata priva di risultati.
Marco Bellocchio
Repubblica Bologna, 13.7.03
GLI SHOW NELLE PIAZZE
Herlitzka, notte con Leopardi
Le poesie del pessimismo cosmico davanti a San Domenico
L´artista eclettico e versatile reciterà alcuni versi tra i più e meno noti del recanatese
Intermezzi musicali del pianista jazz Marco di Gennaro, avvezzo alle performance di lettura
«Non posso che sentirmi un attore un po´ anomalo, dato che me lo dicono tutte le volte. Credo che ciò dipenda molto dalle scelte che compio, le quali, per quanto riguarda il teatro naturalmente, partono sempre da testi che hanno un assoluto valore anche letterario», così, con la sua disincantata profondità, il grande attore Roberto Herlitzka rispondeva tempo fa a chi gli chiedeva lumi sul suo lavoro. In effetti, un po´ anomalo Herlitzka lo è davvero. O meglio, più che anomalo, sarebbe forse meglio definirlo assai prolifero, eclettico e versatile. Torna ora a Bologna, dopo un anno di assenza dalle nostre scene.
(...)
Roberto Herlitzka, torinese di nascita, voce ipnotica e pastosa, piena di ´grana´ come direbbe Roland Barthes, si è formato artisticamente alla scuola di Orazio Costa, al teatro ha legato indissolubilmente il proprio nome a partire dagli anni ´ 60: ha lavorato con Luca Ronconi, Gabriele Lavia, Mario Missiroli, Luigi Squarzina, Peter Stein.
(...)
...sono però numerose anche le partecipazioni e i ruoli cinematografici, non ultima quella a fianco del grande Marco Bellocchio: ne "Il Sogno della farfalla" del 1994, con l´onirica fotografia del greco Yorgos Arvanitis, abituale operatore di Theo Anghelopulos, e nel nuovo (le riprese sono terminate da pochissimo) "Buongiorno Notte", dedicato alla vita di Aldo Moro, con Herlitzka nei panni del protagonista.
GLI SHOW NELLE PIAZZE
Herlitzka, notte con Leopardi
Le poesie del pessimismo cosmico davanti a San Domenico
L´artista eclettico e versatile reciterà alcuni versi tra i più e meno noti del recanatese
Intermezzi musicali del pianista jazz Marco di Gennaro, avvezzo alle performance di lettura
«Non posso che sentirmi un attore un po´ anomalo, dato che me lo dicono tutte le volte. Credo che ciò dipenda molto dalle scelte che compio, le quali, per quanto riguarda il teatro naturalmente, partono sempre da testi che hanno un assoluto valore anche letterario», così, con la sua disincantata profondità, il grande attore Roberto Herlitzka rispondeva tempo fa a chi gli chiedeva lumi sul suo lavoro. In effetti, un po´ anomalo Herlitzka lo è davvero. O meglio, più che anomalo, sarebbe forse meglio definirlo assai prolifero, eclettico e versatile. Torna ora a Bologna, dopo un anno di assenza dalle nostre scene.
(...)
Roberto Herlitzka, torinese di nascita, voce ipnotica e pastosa, piena di ´grana´ come direbbe Roland Barthes, si è formato artisticamente alla scuola di Orazio Costa, al teatro ha legato indissolubilmente il proprio nome a partire dagli anni ´ 60: ha lavorato con Luca Ronconi, Gabriele Lavia, Mario Missiroli, Luigi Squarzina, Peter Stein.
(...)
...sono però numerose anche le partecipazioni e i ruoli cinematografici, non ultima quella a fianco del grande Marco Bellocchio: ne "Il Sogno della farfalla" del 1994, con l´onirica fotografia del greco Yorgos Arvanitis, abituale operatore di Theo Anghelopulos, e nel nuovo (le riprese sono terminate da pochissimo) "Buongiorno Notte", dedicato alla vita di Aldo Moro, con Herlitzka nei panni del protagonista.
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