mercoledì 5 gennaio 2005

i crimini cattolici
non si salva neanche Roncalli: anticomunista, fascista e filonazista!

Corriere della Sera 5.1.05
IL CASO
Il papa buono
Il vero volto di Roncalli al tempo della Shoah
di DARIO FERTILIO


E adesso vacilla il mito di Giovanni XXIII. La polemica sui battesimi forzati dei bambini ebrei, dopo aver coinvolto la figura già discussa di Pio XII, lambisce persino il Papa buono. Prima ancora che un beato, tanti fedeli vedono in lui una figura rassicurante, l’incarnazione della chiesa dal volto umano, l’immagine popolare del nonno che benedice i nipotini. E naturalmente ricordano l’autore del magistrale discorso dal balcone, quello della «magnifica luna» e della «carezza del Papa» da portare a casa e dedicare ai bambini. Come si concilia questa figura con l’altra, antecedente di vent’anni, ai tempi della nunziatura a Istanbul durante la guerra, così ossequiosa e addirittura allineata alla propaganda fascista? Come spiegare che l’uomo del Concilio e dell’apertura a sinistra, dell’amicizia con Kennedy e del dialogo con i marxisti, potesse ammirare la Germania hitleriana ancora negli anni in cui si preparavano i campi di sterminio per gli ebrei? Possibile che lo stesso personaggio, incarnazione già nei tratti fisici campagnoli della tolleranza religiosa e dell’indulgenza cattolica, avesse sintetizzato di suo pugno, in francese, la direttiva vaticana che prevedeva di non restituire alle famiglie ebree i bambini ebrei sottratti ai nazisti, e battezzati?
Questo Giuseppe Roncalli uno e due, contraddittorio almeno in apparenza, dal comportamento addirittura inspiegabile, emerge da nuove testimonianze storiche che sembrano mutarne il profilo. E dunque suggeriscono una diversa lettura della sua figura: ortodossa, allineata alle direttive vaticane, diplomatica e astuta, prigioniera dei pregiudizi antigiudaici del tempo. E soprattutto vittima del mito «buonista» che, quando era ancora in vita, gli era stato costruito attorno.
Ripercorriamo la vicenda. Lo storico Alberto Melloni pubblica sul «Corriere», nei giorni scorsi, il documento vaticano dell’ottobre 1946, avallato da Pio XII, dedicato ai «piccoli giudei» che «se battezzati, devono ricevere un’educazione cristiana». Immediatamente la stampa internazionale, non solo europea, scatena una polemica sulle effettive responsabilità di Papa Pacelli, quasi a rinfocolare antiche accuse sul suo «antisemitismo» connivente con il regime nazista. Storici come Goldhagen si spingono fino a chiederne la condanna, escludendolo da qualsiasi futuro processo di beatificazione; ieri, invece, lo studioso Matteo Luigi Napolitano, sul Giornale, ridimensiona la portata del documento, negando che si riferisca a singoli casi di bambini ebrei sottratti ai genitori, se mai alle organizzazioni sioniste che intendevano fare emigrare i piccoli (compresi quelli battezzati) in Israele.
Nemmeno il tempo di rifiatare, ed ecco su Avvenire il padre gesuita Peter Gumpel, relatore della causa di beatificazione di Pio XII, esporre i suoi dubbi. Uno, in particolare: perché mai il documento al centro della polemica è scritto in francese, dal momento che si tratta di una comunicazione rivolta dal Sant’Uffizio romano al nunzio di Parigi, l’italiano Giuseppe Roncalli? Già, perché nel fervore della polemica è scivolato in secondo piano un particolare importante: colui che avrebbe dovuto seguire le indicazioni vaticane a proposito dei bambini ebrei altri non era se non il futuro Giovanni XXIII (all’epoca già intorno ai 65 anni), il famoso «Papa buono». Domanda pertinente, quella di Gumpel, che oggi trova risposta: probabilmente era stato proprio Roncalli a redigere quella sintesi in francese (esagerando forse nella semplificazione) per informare delle direttive vaticane la chiesa di Francia.
E dunque? Come è possibile continuare a contrapporre Pio XII a Giovanni XXIII, dal momento che quest’ultimo ne era il subordinato, e fedele collaboratore? Ecco il punto, già sottolineato da Matteo Luigi Napolitano sul Giornale: come mai Roncalli non annotò, nelle agende cui affidava i suoi pensieri, nemmeno una riga sulla questione delle persecuzioni naziste, né tanto meno sulla sorte dei «piccoli giudei»? È vero che, da Istanbul, si era adoperato per assistere praticamente molti ebrei perseguitati. Ma perché, quando osò manifestare le sue perplessità alla Santa Sede durante la Shoah, fu soltanto a proposito della emigrazione degli ebrei in Palestina e della pericolosa utopia sionista, cioè la ricostruzione del «regno d’Israele»?
Domande che sembrano già aprire un nuovo capitolo «revisionistico», questa volta su papa Giovanni. Del resto gli «elementi d’accusa» non sono di oggi: ne è testimone Pier Giorgio Zunino, che insegna storia contemporanea all’università di Torino, e che più di un anno fa ne La Repubblica e il suo passato (edito dal Mulino) portò alla luce alcuni documenti sorprendenti su Giuseppe Roncalli. Sono lettere spedite ai familiari in due periodi diversi quando era nunzio in Turchia: nel 1940, e tre anni più tardi. Nel '40 il futuro Papa dichiara la sua ammirazione non solo per Mussolini, ma anche per la Germania, che ai suoi occhi ha dato prova di ammirevole compattezza nazionale al momento della fulminea vittoria sulla Francia. La società tedesca, commenta, è fatta di uomini «pronti e forti», ben meritevoli di imporsi sulla «sfibrata democrazia francese». Di più: con un incauto parallelismo evangelico paragona i tedeschi di Hitler alle «vergini sagge» che conservano l’olio della fede, mentre i francesi aggrediti gli appaiono simili alle «vergini stolte» (ma i passi più delicati verranno significativamente soppressi nella prima edizione dell’epistolario giovanneo, curato da monsignor Loris Capovilla nel ’68). Tre anni più tardi, fra il luglio e l’agosto del ’43, quando dunque le notizie sugli orrori della guerra e dello sterminio ebraico si sono diffusi, Roncalli raccomanda ancora ai familiari di mantenere «fiducia immutata» nel regime fascista, con l’aggiunta della esortazione: «Voi lavorare, pregare, soffrire, obbedire, e tacere tacere tacere».
C’è qualcosa di cui meravigliarsi? Certamente no, secondo Pier Giorgio Zunino, convinto che «la visione religiosa di cui era imbevuto e portatore, l’età già avanzata e l’alto grado nella gerarchia ecclesiastica, la sua stessa cultura lo portavano a sposare l’idea di una Chiesa capace di acquisire il maggior numero possibile di fedeli e di anime». Ma l’appoggio al nazismo e al fascismo? «È l’esempio di una tradizione culturale che vedeva nell’obbedienza assoluta all’autorità, qualunque fosse, un valore assoluto. Dunque, una società gerarchica, in cui tenere nettamente separati gli obblighi di chi comanda e chi deve obbedire». Per cui, afferma Zunino, il messaggio di Roncalli ai familiari durante la guerra si può sintetizzare così: non preoccupatevi delle scelte politiche italiane, c’è chi ha scelto per voi.
Si profila, dunque, un Roncalli «perfettamente inserito nella cultura cattolica di maggioranza, allineato al fascismo, estimatore della Controriforma (di cui era stato uno studioso), pronto a riconoscere alla Germania il ruolo di nazione guida dell’Europa, nemico del comunismo sovietico ma anche sospettoso delle democrazie occidentali, considerate anticattoliche». E come si spiega il suo chiudere gli occhi di fronte alle persecuzioni naziste degli ebrei? «La domanda - secondo Zunino - non trova risposta sulla base dei documenti. Del resto, pochissime personalità cattoliche furono coscientemente antifasciste. Probabilmente - aggiunge - la dimensione apocalittica del nazismo per molto tempo non venne percepita». Nemmeno nel ’43, quando alla nunziatura di Istanbul molte cose dovevano essere note? «Direi che in quel caso si adeguò - risponde Zunino - con un atteggiamento da alto burocrate».
Resta da spiegare l’evoluzione del suo pensiero e il suo passaggio brusco da cardinale conservatore a uomo del Concilio, dell’apertura a sinistra, del dialogo. Ci fu, da parte sua, soltanto un adeguarsi, un cogliere «i segni del tempo»? Oppure, come ricorda Cesare Cavalleri, direttore di Studi cattolici, «tutti i documenti dottrinali e gli interventi di Giovanni XXIII attestano la sua stretta e rigorosa ortodossia»? Tanto è vero - ribadisce Cavalleri - che «il Concilio era stato affidato, nella fase preparatoria, al più che ortodosso cardinale Ottaviani» e nelle intenzioni del Papa tutto avrebbe dovuto concludersi «entro Natale».
Poi si sa come andarono le cose: lo Spirito soffiò dove voleva, e soprattutto nacque il mito del «Papa buono», con il contorno pittoresco di piatti, scialli e statuette che riproducevano un Roncalli pacioso e gioviale mentre stringeva la mano a John Kennedy, l’uomo della nuova frontiera, o riceveva nel suo studio il direttore della sovietica Isvestija. «Mito fasullo e posteriore - secondo Cavalleri - di cui finì col restare prigioniero quando era ancora in vita. E dire che la sua abilità diplomatica, molto poco campagnola, si era già vista a Parigi, quando aveva messo in campo mondanità, diplomazia e persino alta gastronomia (aveva assunto il miglior cuoco di Parigi) per servire la causa vaticana». E il suo vero spirito, fuori dalla mitologia? «Battagliero, addirittura ascetico».
E allora, a chi giovò la creazione di quel mito? «Fu contrabbandato come tale da teologi del nord, belgi olandesi e tedeschi, personaggi come Schillebeekx, Küng, Alfrink, e finì con l’intaccare l’impianto della morale tradizionale. Ebbe come conseguenza la chiusura dei seminari e la perdita delle vocazioni. E gli effetti di quella strumentalizzazione, l’immagine di un Papa dialogante e aperturista anche con i marxisti, portò a quella teologia della liberazione che ha devastato l’America Latina».
Prigioniero del mito o vittima del post Concilio? «Tutt’e due le cose», per Cavalleri. Ma proprio per questo, meritevole della beatificazione. E comunque, di fronte al giudizio della storia, «non colpevole».
una segnalazione di Roberto Martina

una notizia che non era ancora apparsa sul blog:
Il 12 dicembre 2004 è apparso questo flash su tutti i seguenti quotidiani:

Nuova Sardegna - il Centro - Mattino di Padova - Tribuna di Treviso - Nuova Venezia - Gazzetta di Mantova - Gazzetta di Modena - Gazzetta di Reggio - Nuova Ferrara - Provincia Pavese - Corriere delle Alpi - Trentino/Alto Adige

i quotidiani in elenco sono i cosidetti quotidiani FINEGIL, ovvero una serie di quotidiani locali di proprietà del gruppo Espresso-Repubblica

Testo:

«Noi non abbandoniamo il comunismo, anzi vogliamo rendere nuovamente attuale nell’esperienza concreta il termine comunista: ci poniamo una nuova ricerca di liberazione e perciò siamo interessati ad approfondire l’esperienza critica dell’Analisi Collettiva».

Fausto Bertinotti, segretario Prc


il professor Alberto Oliverio: «la biologia non è tutto»

Il Messaggero 5 gennaio 2004
LA BIOLOGIA NON È TUTTO
di ALBERTO OLIVERIO


UN GRUPPO di ricercatori delle Università del Michigan e del Maryland ha scoperto un gene che modifica la sensibilità al dolore: il gene esiste in due forme diverse, una in grado di attivare dei meccanismi di analgesia naturali, l’altra che è invece meno efficace. Le persone in cui predomina la prima forma sono meno sensibili al dolore, o meglio ad alcuni tipi di dolore, rispetto alle seconde: nel loro organismo viene infatti prodotta una maggiore quantità di oppioidi endogeni, degli analgesici naturali che hanno un’azione antidolorifica paragonabile a quella della morfina.
La scoperta è interessante, soprattutto per chi studia il cervello: il gene in questione, infatti, regola l’attività di alcuni neuroni che possono attivare o inibire la funzione di altri neuroni, quelli appunto che producono analgesici naturali. Il gene, però, non è il “gene del dolore”, come si potrebbe affermare frettolosamente, ma uno dei tanti che entrano a far parte di una catena di eventi che culminano in una maggiore o minore percezione della sofferenza fisica. Per di più, non tutti i dolori hanno dinamiche fisiologiche simili; tra quello che caratterizza una scottatura, un mal di pancia o una banale emicrania non ci sono solo differenze di quantità: sono tre tipi di dolore diversi.
Per una strana coincidenza, a distanza di 24 ore sono state date due notizie che hanno qualcosa in comune: oggi molti media parlano del “gene del dolore”, ieri del gene “della timidezza” che farebbe sì che alcuni bambini diventino rossi come peperoni se si rivolge loro la parola e altri siano invece sfrontati e indifferenti alle interazioni sociali. E poi ci sono stati il gene dell’ansia, della tossicodipendenza e via dicendo. Chi non è un biologo molecolare o un neuroscienziato può avere la falsa impressione che ci sia un gene per ogni aspetto della nostra fisiologia e della psiche: se si ha un tipo di gene ci si comporta in un dato modo, se non lo si ha si è qualcosa di diverso, un po’ come nel romanzo di Robert Stevenson Dr. Jekyll poteva trasformarsi in Mister Hyde e passare dalla bontà alla cattiveria. Ci si può quindi domandare perché mai, se è stato scoperto un particolare gene, non si possa, se lo si vuole, regolarne la funzione facendo ad esempio in modo che un ragazzino molto timido o ansioso smetta di arrossire, di essere retratto o preoccupato per un nulla.
La risposta è che, salvo alcune situazioni, nel nostro organismo non esiste un gene di un tipo o dell’altro ma una maggiore presenza di numerose forme geniche: per di più un gene può essere più o meno espresso, vale a dire modificare la biochimica del nostro corpo, a seconda degli organi, dell’età e della presenza di altri geni che, insieme, stabiliscono il modo in cui siamo fatti e ci comportiamo. In alcuni casi, inoltre, come in quello del “gene della timidezza” sono più o meno coinvolti dei recettori che hanno un ruolo anche in altri aspetti del comportamento, come l’ansia, la tendenza ad essere depressi, l’impulsività, la ricerca di stimoli e novità: difficile dire in che senso si orienterà la nostra psiche sulla base delle caratteristiche di un gene che agisce su tanti aspetti del funzionamento cerebrale. Si aggiunga poi il fatto che il nostro comportamento non è dettato soltanto dai geni: quanti di noi, ad esempio, erano timidi da ragazzini e sono oggi disinibiti ed estroversi? Gli anni e le esperienze possono modificare, per fortuna, il modo in cui ci comportiamo, trasformando alcuni aspetti della nostra personalità: conoscere il gioco dei geni è fondamentale ma non banalizziamone le caratteristiche.

il professor Sergio Givone, sulla malinconia

Il Messaggero Mercoledì 5 Gennaio 2005
QUANTI POETI MALINCONICI
di SERGIO GIVONE


IDENTIFICARE le cause biologiche dei nostri stati emotivi è un sogno antico quanto la medicina. Per secoli, a partire da Ippocrate e da Galeno, poi fino alle soglie dell'età moderna, si è pensato che l'atteggiamento nei confronti di se stessi, degli altri e del mondo fosse determinato dalla prevalenza di uno dei quattro umori fondamentali del corpo umano. Così per esempio la bile nera era ritenuta responsabile della malinconia, il flegma della calma e della prudenza, e avanti su questa falsariga. La medicina scientifica e in particolare la genetica sembrano voler confermare quell'intuizione.
Salvo che le cause delle emozioni e delle affezioni psichiche non sono più cercate negli umori, ma per l'appunto nei geni.
Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. L'annuncio recente per cui sarebbe stato scoperto il gene della timidezza, a conferma della teoria in base alla quale i comportamenti degli esseri umani dipenderebbero dal corredo genetico di ciascuno, s'inserisce all'interno di un quadro noto. Sarà la scienza a darne conferma.
Senonché fin da ora possiamo dire che, quand'anche la scienza fosse in grado di tracciare una completa mappatura dei geni e delle emozioni corrispondenti, resterebbe da risolvere più di un problema.
Intanto bisogna considerare che le grandi emozioni umane (e non soltanto le grandi, naturalmente) nel corso del tempo mutano, cambiano figura, diventano tutt'altro da quel che erano. Prendiamo uno stato emotivo che è anche una patologia sempre più diffusa e minacciosa, per certi aspetti una vera e propria epidemia psichica del nostro tempo: la depressione. Solo venti o trent'anni fa si sarebbe parlato non già di depressione bensì di angoscia. A sua volta l'angoscia era stata preceduta da una lunga storia e anzi da un'intera costellazione di concetti, nei quali troviamo espresso il senso di vuoto, di sgomento e di morte che afferrano il cuore e la mente e non lasciano spazio alcuno alla speranza. Vedi l'inglese spleen. O il tedesco weltschmerz. O il francese ennui. Tutti termini il cui significato echeggia nella noia leopardiana. La quale noia ha ben poco in comune con la noia di cui parliamo noi oggi, in quanto a differenza di quest'ultima essa era espressione di un pessimismo cosmico che nell'insensatezza del vivere vedeva la cifra del nostro destino e dunque rinviava semmai alla melancholia rinascimentale e al taedium vitae dei romani, pur essendo cosa un po' diversa... Come la mettiamo allora? Sembra difficile poter ipotizzare che tutte queste esperienze siano governate dallo stesso gene.
Ma c'è anche un'altra questione. Diamo pure per dimostrato che lo stesso gene sia la causa della depressione, dell'angoscia, della malinconia, ecc. Il depresso non potrebbe che prenderne atto con un certo sollievo. Se non altro perché potrebbe chiedere di intervenire sull'origine della sua malattia in modo definitivo, in modo cioè da rimuoverne la causa. Come non ricordargli però che quando la sua patologia era chiamata altrimenti (angoscia, malinconia) ci fu chi vide in essa non tanto una forma di disagio psichico da eliminare quanto la via d'accesso a forme di esperienza e di conoscenza che diversamente sarebbero precluse all'uomo? Certo, questa non è una ragione sufficiente per dire al malato di tenersi la sua malattia e di soffrire in nome di sublimi realtà spirituali. E tuttavia l'intera storia della cultura attesta che molte (se non tutte, come credeva Aristotele) delle più grandi opere dell'ingegno umano sono figlie di qualche patologia.
Vogliamo curarle, queste patologie? Benissimo. Purché ci si renda conto con chi e con che cosa abbiamo a che fare. Prendiamo la malinconia, ma lo stesso vale per la timidezza, e per tutti gli altri stati emotivi che sono propri dell'uomo. Se ci si dice che, essendo stata identificata la causa della malinconia in un determinato gene non resta che intervenire sul gene, il sospetto d'aver imboccato una strada sbagliata è più che legittimo.

sinistra
Bertinotti, Cossutta, Rizzo

Gazzetta del Sud 5.1.05
Fausto Bertinotti invita la sinistra a non inseguire la personalizzazione politica
Condanno l'aggressione di Piazza Navona: è di destra
di Martino Martellini


ROMA – «Chi mi contesta per il fatto che ho condannato l'aggressione di Piazza Navona è legato alla cultura del gesto e non si rende conto che atti di questo genere sono di destra, hanno un sapore dannuziano che non ha niente della forza efficace e non violenta della critica di massa». Fausto Bertinotti taglia corto sulle polemiche sorte intorno all'interpretazione del gesto del muratore mantovano e preferisce un'analisi più profonda sui rischi della personalizzazione della politica.
Lei ha detto che le interessa più contrastare la politica economica del premier che la persona Berlusconi... «La politica della sinistra deve tendere alla partecipazione di massa, alla più ampia condivisione degli obiettivi e deve sottrarsi alla personalizzazione dello scontro. Non mi posso fermare alla critica della persona ma debbo fare una lucida lettura del sistema e allora dico subito: ragioniamo su quanto il maggioritario ci ha condizionati».
Questo è un discorso che lei ha fatto più volte... «Non mi stancherò mai di farlo, ci sono anche dei sondaggi recenti che ci spiegano quanto incide sul sistema il peso della personalizzazione della politica. È un sistema malato, vince la spettacolarizzazione. Come negli Stati Uniti dove le aggressioni al simbolo, all'uomo immagine, sono il rischio di certe esasperazioni».
Ma il leader non si può criticare? «Attenzione a non stabilire un corto circuito che sarebbe lesivo dell'esercizio della critica democratica. È quello che sta tentando di fare la destra quando lega con un principio di causa ed effetto la contestazione, magari anche non rispettosa, all'aggressione fisica. Questo non può essere accettato perché allora dovremmo parlare ai lesa maestà ed onestamente mi sembra assurdo ragionare in questi termini. Noi non siamo gli oppositori di Sua Maestà!».
Le forze dell'alleanza democratica stanno insieme perché legate dall'antiberlusconismo? «Ma è chiaro. Io su questo tema non me la sento di avere un atteggiamento aristocratico. Interpreto il dissenso che c'è nel paese e dico che bisogna battere la politica del premier. Punto. È chiaro che non c'è solo questo ma per favore non ci dimentichiamo che la politica è fatta di sì e di no. E qui c'è bisogno di un bel no».
Sono «fuori luogo» le polemiche, che vengono sia da destra che da sinistra, sull'aggressione ai danni di Silvio Berlusconi. A richiamare i poli è Armando Cossutta, che ribadisce la posizione già assunta nei giorni scorsi e definisce «sterili» gli scambi di accuse tra Cdl e Gad. «Considero del tutto fuori luogo le polemiche a sinistra in difesa (o quasi) del gesto di Dal Bosco. Il gesto del giovane mantovano va condannato: punto e basta – afferma il presidente dei Comunisti Italiani – Ma va condannata ogni polemica a destra contro il giudice che lo ha legittimamente scarcerato, così come va condannata ogni aggressione e demonizzazione delle autonome posizioni del senatore a vita Mario Luzi: punto e basta». Singolare la posizione di un altro comunista. «È incredibile, la vicenda di Dal Bosco pare una sceneggiata, mancavano giusto la lettera di pentimento e il perdono finale del “saggio e magnanimo padre” in una atmosfera da racconto miracolistico», afferma l'europarlamentare Marco Rizzo. «E ora l'invito ad andare a Roma ad incontrare il premier accettato dal giovane – prosegue Rizzo – ha un po' il sapore della parabola del figliuol prodigo. Niente male per uno che cinque o sei giorni prima era riuscito a filtrare la poderosissima scorta del presidente del Consiglio. Ma sarà tutto vero?» «Il governo – conclude – ha l'abilità massmediatica di utilizzare qualsiasi evento che succede, casuale o meno, non importa, sempre e comunque a fini propagandistici pro domo sua, offuscando sotto una pesante coltre di “boutades”, le vere problematiche del Paese che lasciate a loro stesse non fanno che peggiorare».

altre informazioni sul Prozac e i crimini della Eli Lilly

Yahoo! Notizie Mercoledì 5 Gennaio 2005, 15:07
Il Prozac può essere associato a comportamento violento
da Depressione.net


(Xagena - Psichiatria) - L’FDA, l’Agenzia USA per il Controllo sui Farmaci, sta revisionando i documenti che Eli Lilly non avrebbe presentato nel corso di un processo, tenutosi 10 anni fa, per strage.
I documenti sembrano indicare un’associazione tra il farmaco antidepressivo Fluoxetina (Prozac) e l’ideazione suicidaria ed omicida.
Il British Medical Journal ha ricevuto questi documenti da una fonte anonima.
Questi documenti non sarebbero stati presentati durante il processo Wesbecker nel 1994.
Nel 1989 Joseph Wesbecker, armato di un fucile mitragliatore AK-47, uccise 8 persone, ne ferì altre 12 ed infine si suicidò.
Wesbecker soffriva da lungo tempo di depressione e da un mese stava assumendo il Prozac.
Uno dei documenti pervenuti al British Medical Journal, datato 8 novembre 1988, riportava che negli studi clinici la Fluoxetina presentava una maggiore incidenza di nuova attivazione rispetto al placebo (38% versus 19%).
Recentemente l’FDA ha emesso un warning riguardo alla possibilità da parte dei farmaci antidepressivi SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) di produrre sintomi stimolanti, quali agitazione, attacchi di panico, insonnia ed aggressività.
Dal processo Wesbecker, Eli Lilly, la società farmaceutica produttrice del Prozac, usci con un verdetto di non responsabilità.
Tuttavia il giudice Potter, sospettando un accordo segreto tra Eli Lilly ed i querelanti nel 1997 modificò il verdetto da “uno a favore di Eli Lilly” ad uno di “dismissed as settlet with prejudice”. (Xagena)

Fonte: British Medical Journal

forse D'Alema e la direzione dei ds non riusciranno a rimettere sotto il proprio controllo l'Unità

STAMPA
«Unità»: congelata la direzione, si riparte dal rilancio
Furio Colombo incontra Marialina Marcucci. Che apre al confronto sul piano bocciato dal cda
MI. B.


ROMA . La precipitazione non c'è stata. Anzi, le manovre in corso all'Unità per un ricambio al vertice del quotidiano, dopo il colloquio di ieri tra la direzione e la presidente del consiglio d'amministrazione della Nuova iniziativa editoriale hanno subito un rallentamento. Prima Furio Colombo, poi Antonio Padellaro, nel pomeriggio si sono visti a quattr'occhi con Marialina Marcucci. Un incontro separato che ha meravigliato la redazione e fatto ipotizzare soluzioni diverse per il direttore e il condirettore: messo in uscita il primo (tra le destinazioni possibili, l'Authority per le comunicazioni), il secondo potrebbe restare al quotidiano con un ruolo di primo piano. Anzi, c'è chi ipotizza che se Paolo Franchi (candidato numero uno alla successione) dovesse rinunciare all'offerta di dirigere l'Unità per rimanere al Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli (e dove Franchi ora firma una rubrica in prima pagina, il Diario ulivista), lo stesso Padellaro potrebbe prendere il testimone alla guida della testata fondata da Antonio Gramsci. Tra le altre candidature circolate in questi giorni, quella di Lucia Annunziata, che però ha posto condizioni di diverso tipo e vorrebbe anche evitare di apparire come la «normalizzatrice» spedita dai vertici della Quercia (in particolare dal presidente Massimo D'Alema).
Ma, appunto, la questione di una nuova direzione risulta per il momento congelata. «Saremo noi a decidere quando andare via», ha anzi assicurato ieri pomeriggio Padellaro. Dopo che il cda, subito prima di Natale, ha bocciato il piano di rilancio presentato da i direttori, ieri la presidente Marcucci ha fatto un passo indietro. Sostenendo che quel piano potrà essere una base di discussione. Quel che chiedevano anche i giornalisti che l'altro ieri si sono riuniti in assemblea e hanno dato mandato al cdr di indire lo stato di agitazione in attesa dell'apertura di un confronto. «I redattori dell'Unità giudicano negativamente ogni manovra dilatoria da parte dell'azienda perché pregiudica le possibilità del rilancio del giornale», era scritto nel comunicato uscito sull'edizione di ieri. E ancora: «Abbiamo bisogno di certezze, non di rinvii».
Ieri, il comitato di redazione ha visto Colombo e Padellaro reduci dal summit con Marialina Marcucci. I due hanno spiegato che di nuovi direttori nel loro colloquio non si è parlato ma che, appunto, si ripartirà dal piano per rilanciare il quotidiano che negli ultimi mesi ha subito un calo delle vendite: da lì sarà elaborato un documento da presentare alla redazione. Dal canto suo, la presidente del cda non ha però ritenuto di convocare a sua volta il comitato di redazione. E per il momento resta lo stato di agitazione.
In ogni caso la proprietà ha deciso di calibrare meglio le prossime mosse valutando con maggiore cautela tempi e modi del licenziamento di Furio Colombo, da sempre mal digerito ai piani alti del Botteghino e ultimamente messo in discussione anche dalla proprietà che lo aveva invece difeso in precedenti occasioni di attrito con la Quercia.

psicologi americani
«attenti al malocchio...»

Il Messaggero 5.1.05
UNO STUDIO SCIENTIFICO
Gli psicologi: il malocchio esiste
PAOLA MARIANO


Amici e parenti dovrebbero stare attenti a fare pronostici, soprattutto se spiacevoli, che riguardano i propri cari perché l'effetto su di loro potrebbe essere quello di una vera e propria iattura. Tre psicologi americani della Iowa State University (Stephanie Madon, Max Guyll, Richard Spoth e Jennifer Willard) sostengono infatti di aver dimostrato che quando numerose persone sentenziano che qualcosa accadrà a qualcuno di loro conoscenza, vi è una buona probabilità che tale "profezia" di gruppo si avveri. È possibile, hanno spiegato gli esperti sulla rivista «Psychological Science» che le false convinzioni altrui promuovano l'avverarsi di certi fatti condizionando il comportamento della persona oggetto della "profezia". Inoltre, ha sottolineato la Madon, vi è un effetto sinergico in questo potere profetico, ovvero sembra proprio che più è larga la cerchia delle persone con indole da "Cassandra", più è probabile che l'esito da loro vaticinato si realizzerà. Gli esperti hanno ricordato come già precedenti ricerche avevano evidenziato la possibilità che ciascuno, prevedendo o paventando l'esito di una situazione futura che lo riguarda, in qualche modo incanala gli eventi verso quella direzione. Quindi per esempio se un attore pensa o teme che nel bel mezzo di una performance inciamperà e cadrà sul palcoscenico, la probabilità che questi ha di cadere inesorabilmente aumenta come se la sua convinzione avesse in sé la forza di avverarsi. Nel nuovo studio, i ricercatori hanno coinvolto 115 coppie di genitori che dovevano dare il loro pronostico circa il consumo di alcolici che i loro figli adolescenti avrebbero tenuto nei 12 mesi successivi. All'inizio dell'osservazione gli psicologi hanno somministrato ai ragazzini un questionario per avere una stima dei loro consumi medi di alcol.Dopo 12 mesi i teenager hanno risposto a un nuovo questionario, questa volta per monitorare il loro recente consumo di bevande alcoliche. Gli psicologi hanno confrontato ciò che i genitori avevano predetto con la realtà raccontata dai rispettivi figli. Così hanno visto che quando gli adulti avevano una convinzione negativa forse anche esagerata, ovvero pensavano che i figli avrebbero bevuto molto, effettivamente i ragazzi dichiaravano di non essersi limitati affatto nel consumo di alcol. Inoltre i ricercatori si sono accorti che tanto più mamma e papà erano d'accordo nelle loro stime pessimistiche, quanto più queste si dimostravano poi veritiere, segno di un forte effetto sinergico sulla previsione. Le predizioni, ha osservato la Madon, sembrano avverarsi molto più fedelmente quando hanno una valenza negativa. Ma questo non significa che i nostri cari portino sfortuna, ha tenuto a precisare la psicologa, bensì rispecchia l'atteggiamento tipico delle persone di dare più valore a informazioni con significato negativo e di soppesare più i costi che i benefici quando ci si pone di fronte a una scelta.

il professor Giulio Giorello, sul mito

Repubblica 5.1.05
NON SPARATE SUL MITO
Intervista a Giulio Giorello che in un libro indaga su Gilgamesch, Prometeo e Ulisse

A che cosa si deve il loro potere di seduzione? Un filosofo della scienza ci spiega perché il sapere mitico è importante quanto quello scientifico
Tre figure mitiche, lontane nel tempo, che hanno affascinato artisti e scrittori Esse rivivono attraverso Mary Shelley, James Joyce e Ezra Pound
di ANTONIO GNOLI

Giulio Giorello che veste come Joyce, l'immagine campeggia nella copertina del suo ultimo libro, non è una stravaganza. O almeno non è solo questo. Giorello ci ha infatti abituato a una libertà di modi e di pensiero che ne fanno un caso probabilmente unico in Italia. La scuola è quella di Geymonat (è stato il suo maestro), ma il cuore batte per Feyerabend (è stato il suo autore di riferimento). Epistemologia più letteratura, ma anche filosofia più fumetti. E ora il mito. Come mostra il libro uscito per Raffaello Cortina: Prometeo, Ulisse, Gilgamesch (pagg. 250, euro 19,80).
Perché ha scelto queste tre figure?
«Un po'per ragioni biografiche, ricordo che mia madre mi raccontava di Gilgamesch. E il fatto che avesse conoscenze di mitologia sumerico accadica credo derivasse da un bellissimo album di figurine dedicato alla Mesopotamia antica».
Quanto a Prometeo e Ulisse?
«Prometeo mi affascina perché, come dice Marx, è il primo santo laico del calendario. Quanto a Ulisse ho sempre preferito di gran lunga l'Odissea all'Iliade. Queste sono ragioni personali, ma in realtà se tocchiamo l'aspetto concettuale vediamo che questi miti hanno in comune il fatto di essere tre escursioni tra la vita e la morte».
Intesa come esistenza finita?
«Ma anche come promessa di immortalità. Prometeo è un Dio che soffre ma non può morire, almeno nella versione di Eschilo. Ulisse, nel libro V dell'Odissea, abbandona la promessa di immortalità di Calypso per andare a Itaca e finire da mortale i suoi giorni. Mentre Gilgamesch cerca disperatamente l'immortalità senza venire a capo del segreto della vita».
Si tratta insomma di un'analisi del mito come confine fra mondo e oltremondo.
«Sì, il punto in cui il regno della luce e dell'ombra si toccano».
L'aspetto che incuriosisce è che lei non fa riferimento solo al mito preso alla sua origine ma anche alle sue trasformazioni e rinascite in contesti diversi.
«Ho abbinato ai tre miti originari tre intellettuali che li hanno rivisitati: Prometeo e la rilettura che ne fa Mary Shelley in Frankenstein, Ulisse e Joyce, infine Gilgamesch e Pound. Potevo naturalmente essere tentato di vedere Prometeo nel modo ironico in cui lo tratta Gide, con l'aquila che si stanca di mangiargli il fegato; o magari giocare con Ulisse mediante il registro di Dante, ma alla fine ho scelto tre scrittori di lingua inglese, perché è la mia cultura di riferimento».
Mentre sono abbastanza chiari i legami fra Prometeo-Shelley e Ulisse-Joyce, lo è meno fra Gilgamesch e Pound.
«Nei Cantos c'è un richiamo al Noè sumerico, a una figura in qualche modo unica perché capace di aver conquistato l'immortalità, di aver umanizzato il divino. Ma è una umanizzazione che riesce una sola volta. Di qui il bisogno di cercare l'immortalità altrove».
Dove?
«Nella tecnica o nella parola. La creazione cui Pound consegna la sua speranza di immortalità è la parola. E lo sconfitto Gilgamesch consegna alle mura la sua speranza di immortalità. O vivi nella costruzione tecnica o vivi nella parola. C'è il verso finale dei Cantos che recita: "Uomini siate, non distruttori". È il modo con cui Pound cerca di costruire il paradiso in terra».
Ma quel paradiso prese forme politicamente imbarazzanti.
«Se allude all'innamoramento di Pound per Mussolini e all'idea che egli fosse il presupposto dell'uomo nuovo, non c'è dubbio. Fu un tragico fallimento».
Le tre rivisitazioni possono essere interpretate come una meditazione su come sconfiggere il tempo.
«In effetti l'utilizzo del mito può essere la risposta alla constatazione pessimistica di Lucrezio quando scopre che il tempo distrugge tutte le cose. In questo senso il mito non è solo una fonte della memoria ma, per citare la Shelley, le ombre che il futuro proietta sul nostro presente».
Non ritiene che sia proprio la filosofia a scalzare il mito attraverso una riflessione sul tempo?
«Il tempo è una delle grandi sfide della filosofia».
Si pone il problema, a differenza del mito. E se lo pone per scioglierne i paradossi.
«Potrei anche citare le trattazioni che del tempo fa la fisica. In particolare della fisica dopo Einstein. Hermann Weyl, fisico matematico, lettore di Husserl, sosteneva che il tempo non c'è, è semplicemente una dimensione in più dello spazio. E quindi quello che noi percepiamo come scorrimento del tempo è solo una impressione, un elaborato della nostra coscienza».
Un fisico, in fondo, porta alle estreme conseguenze il discorso filosofico. Ridurre il tempo allo spazio significa dire che abitiamo nel tempo, ci siamo dentro.
«Anche un fisico, al pari di un essere umano, riconosce che siamo intessuti di tempo, siamo fatti di tempo. Darei ragione a Borges: facciamo numerosi tentativi filosofici per esorcizzare la tigre, ma il tempo è una tigre e quella tigre forse sono io stesso».
Lei mi fa pensare a un funambolo che passa con grande abilità da un equilibrio all'altro.
«Sono convinto che la razionalità scientifica non elimini il sentire mitico, e che l'una e l'altro si alimentino anche se in modo stridente».
Davvero ritiene che il mito possa aiutare la filosofia?
«Da Platone a Heidegger, i filosofi a volte hanno civettato con il mito».
Che è una cosa diversa dal farne una provincia della filosofia.
«Però hanno provato ad annettersela».
Pensi al tema dell'immagine. Mentre si può propriamente parlare di immagine mitica, poetica o letteraria, è più complicato parlare di immagine filosofica. La filosofia si occupa di immagini, ma non le crea.
«È vero, però la scienza è in grado di fornirci delle grandi immagini: il big bang è una di queste. La scienza ha sviluppato capacità evocative molti vicine alla narrativa».
È una tendenza guardata con sospetto dai positivisti.
«Io credo che possano convivere. Un fisico standard quando parla con un cosmologo può obiettargli questo: voi vi occupate dei primi tre minuti dell´universo, noi facciamo il resto con una solida scienza controllabile. Detto ciò, con tutto il rispetto per il fisico, non si può trascurare il momento altamente evocativo di figure come Einstein, Bohr, Eisenberg, o per venire più vicini a noi, Thom e Prigogine».
Che il mito possa sopravvivere al di là di se stesso è possibile verificarlo anche nell'orizzonte contemporaneo. Non trova che i grandi produttori di miti oggi sono il cinema e i media?
«Rispetto a certe gabbie filosofiche dentro cui il pensiero speculativo ha sequestrato il mondo e contro la pesantezza ontologica si sarebbe tentati di dire: ben venga non solo la leggerezza del cinema, ma quella dei cartoons. Quanto ai media fanno quello che facevano i greci».
Cioè?
«Il mito nasce dentro una grande tradizione orale e sarà utilizzato per fissare la prima grande cultura scritta. Omero, o chi per lui, raccoglie il sapere marinaro di greci e fenici».
Il mito di Ulisse che ruolo svolge in questa sistemazione?
«È il grande destabilizzatore dello status quo. Compare ogni qualvolta l'intelligenza svolge il suo ruolo chiarificatore e pericoloso».
È un eroe che crea disordine.
«È un eroe a cui non va tutto bene. Anzi se c'è un'altra caratteristica che accomuna le tre figure è che sono esposte al fallimento. Prometeo è lì che cova la sua vendetta, ma intanto perfino la roccia, come dice Kafka, si è dimenticata di lui. Ulisse è un personaggio di multiforme ingegno, ma gli vanno male molte cose e anche il ritorno a Itaca non è così pacifico, visto che deve affrontare una specie di guerra civile. E il povero Bloom quando si accorge che il letto di Molly è caldo, rinuncia alla guerra civile e accetta con filosofica sopportazione il suo nuovo stato di cornuto».
Liberazione 31.12.04
Lettere
Non basta la solidarietà, allora...
da Lamberto Vaghetti, via e-mail


Caro direttore, ho letto la lettera di Alessandro Gigli (giovedì 30 dicembre), che, giustamente, denuncia l'ipocrisia di coloro che in questi giorni, di fronte alla catastrofe umana che lo tsunami ha provocato, mostrano il volto perbenista di chi fa l'elemosina ai poveri. Sono d'accordo con lui. Allora, cosa aspettiamo a proporre non più l'elemosina ma una reale possibilità di sviluppo dei paesi sottosviluppati? Come? È semplice: proporre che il futuro (speriamo) governo del centro-sinistra stanzi una cifra consistente, ad esempio l'1% del Pil, da investire in opere che pongano le basi di un futuro sviluppo di quei paesi. Da troppo tempo la politica è al servizio dell'economia. Perché non provare a rovesciare questo paradigma?