martedì 4 maggio 2004

«all'improvviso arriva la paura»

ricevuto da P. Cancellieri

Il Manifesto martedì 4 maggio 2004
Cultura
I virus della paura
Dalle nuove malattie un colpo alla ragione e un altro all'immaginazione
di FRANCO VOLTAGGIO


In un celebre frammento di Archiloco, singolare figura di poeta greco «trasgressivo» del VII secolo a.C., leggiamo: «all'improvviso arriva la paura» (ex aélptou o phóbos anérchetai). Se possiamo fare solo deboli ipotesi sul contenuto e la natura dell'opera di cui ci resta solo questo semplice verso, ci è forse possibile azzardarci a confutare la traduzione consueta dell'originale ex aélptou, «all'improvviso», sostituendola con quella letterale, dall'inatteso, rubando, magari un po' grossolanamente, il mestiere ai filologi e prendendoci tutta la libertà consentita alla nostra condizione di semplici lettori. Archiloco sembra allora trasmetterci un preciso messaggio: un affetto così sconvolgente, qual è la paura, pare sopraggiungere da qualcosa che viene avvertito come esterno, lontano e inaspettato. A quanto ci risulta, inaspettati e venuti da lontano sono avvertiti in Occidente soprattutto i virus, responsabili di gravi epidemie. E' stato così per l'antrace, che terrorizzò gli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001, per la Sars scoppiata e diffusa nel 2003, per la «influenza dei polli», che oggi tanto intriga l'opinione pubblica, e, infine, qualche anno fa per la patologia prodotta dal virus ebola. Poco importa, a questo punto, se non sempre quelli che il pubblico chiama «virus» rientrino nella categoria dei microrganismi così propriamente detti (il patogeno dell'antrace, per la precisione, è un batterio, il Bacillus anthracis). Sono infatti indistintamente percepiti dall'immaginazione popolare quali «virus», cioè «veleni», conservando con ciò l'antico significato che la parola latina virus ha in Virgilio, Lucrezio, Plinio il Vecchio, Seneca. Con lo sgomento che provocano attivano una complicazione importante, per l'appunto la paura di massa, la quale fa immediatamente una vittima, degna di attenzione: la tenuta, già per altri versi tanto deteriorata, delle relazioni umane e politiche. Di qui la necessità di qualche riflessione speculativa che mobiliti la vecchia buona filosofia nella battaglia contro le emozioni da virus. Per cominciare, può essere utile provarci a discriminare tra ragione e immaginazione. La ragione, quella spicciola, ci dice innanzitutto che sarebbe sensato prestare ascolto alle informazioni e assicurazioni dei singoli medici e delle istituzioni sanitarie. Ma questo non convince i molti, specie perché le istituzioni sono screditate. In genere un'emergenza epidemica trova il governo e la sanità pubblica profondamente addormentati nello stesso letto. E' generalmente così in Italia, ma è stato così anche negli Stati Uniti almeno in un'importante occasione: come non ricordare lo sciagurato comportamento dei Centers for Diseases Control americani che battezzarono l'Aids «The Gay Syndrome», «la malattia degli omosessuali»? Ci occorre un altro tipo di ragione, quella critica che, come è suo antico costume, procede non per certezze preconcette, ma per interrogativi.
Perché «virus» nuovi o presunti tali colpiscono la nostra immaginazione? Proprio perché sono nuovi. Questa risposta suona indubbiamente come la scoperta dell'acqua calda, ma va posta perché stimola a porci domande non banali: che cos'è l'immaginazione? Quale relazione corre tra immaginazione e ragione? Per rispondere al primo interrogativo, dobbiamo riferirci alla cultura rinascimentale. Leonardo da Vinci sosteneva che tutte le forme di letteratura, riassunte nella poesia, sono costruzioni di immagini, così che il poeta è, in definitiva, fratello naturale del pittore (ut pictura poësis). Per lui, come per tanti dotti del tempo, l'immaginazione è la facoltà umana di produrre immagini (vis imaginitiva). In un'età segnata dal trionfo delle arti figurative e, in particolare, dalla pittura, si pensava che la funzione dell'artista, soprattutto del pittore, non fosse tanto quella di riprodurre con fedeltà le cose reali, magari abbellendole o al contrario rendendole orride, quanto piuttosto quella di creare nuovi oggetti, destinati poi a esistere di un'esistenza propria al pari degli oggetti naturali. In larghissima misura, gli artisti del Rinascimento fecero di questa idea un vero programma di lavoro. Non si spiegherebbe altrimenti un autentico miracolo come La melanconia di Dürer: una figura di donna, di una giovinezza in procinto di sfiorire, seduta mestamente su una larga pietra squadrata che, con il mento appoggiato alla mano guarda cupa davanti a sé, circondata da una quantità di strani oggetti, mentre un cane, altrettanto mesto, è accucciato ai suoi piedi. La malinconia diventa, a questo punto, non semplicemente il soggetto di un'incisione di strepitosa bellezza, ma un inedito oggetto reale, che sembra suggerire come l'infelicità dell'anima possa essere un inquietante spirito femminile, capace di trovare ricetto nel corpo di uomini e donne.
Questa visione perversa dell'eterno femminino veicola l'idea, in parte riprodotta in numerosi trattati medici dell'epoca che descrivono la malattia come un insieme di sintomi, svogliatezza, persistente senso di debolezza e di inferiorità, morbosità, che la tenacia del pregiudizio ritiene tipico appannaggio delle donne. La vis imaginativa rinascimentale operò, tra l'altro, la trasformazione delle grandi malattie epidemiche in entità malvagie (tale era la peste che si immaginava come uno scheletro armato di falce e sempre sul punto di correre di landa in landa) che bastava evocare perché irrompessero in una comunità disseminando la morte. Così, per esempio, Paracelso racconta, nel De vita longa, il caso di due fratelli, l'uno residente in Italia, l'altro in Francia, il primo morto di peste, il secondo colpito e deceduto per il medesimo morbo solo per averne appreso, con sbigottimento, la notizia. Come dire che per lui pensare la peste, evocarla e renderla operante fu tutt'uno.
Se non ci lasciamo prendere la mano dallo scientismo, che è altra cosa dall'autentico spirito scientifico, e non liquidiamo con un'alzata di spalle il racconto di Paracelso, forse arriviamo a disporre degli elementi per rispondere al secondo interrogativo. La lezione che Paracelso, suo malgrado, ci dà è la seguente: l'immaginazione produce immagini e queste, corpi non meno intensi e vividi degli oggetti reali, producono concetti che guidano a farsi un quadro complessivo della realtà. Il processo di produzione dei concetti, in questo caso, non differisce affatto da quello che ci conduce a formarci il concetto di casa o quello di albero. Con una sola differenza, che è però determinante: il quadro, con le sue immagini, mentre ritrae un soggetto spaventato davanti a qualcosa di nuovo è falso o meglio scorretto, perché manca degli elementi di criticità e di pazienza che sono associati a un corretto sentire le cose. E' in altre parole un pregiudizio. Claude Bernard, invocato solitamente come il campione della razionalità scientifica in medicina, sosteneva che il corretto ragionamento medico ha luogo unicamente quando «si sente giustamente» e affermava: «i pazzi ragionano perfettamente, ma non sentono giustamente». L'immaginazione resta la base di ogni ragionamento, scientifico, o più o meno assennato; e ciò che segna lo spartiacque tra la ragionevolezza e il suo contrario è l'assenza di criticità, la cui origine è, generalmente, la paura, fonte di ogni nevrosi, la quale conduce ad allucinare le immagini produttive di scenari deformati del reale. E' quanto, a nostro parere, è accaduto e continua ad accadere con i «virus».
Scomodando Jung - autore, tra l'altro, di uno straordinario saggio, Paracelso come fenomeno spirituale (1942) - rammentiamo che non vi è essere umano che non disponga, oltre alla propria immaginazione con la quale elabora un corredo di immagini che lo guidano a formarsi un pensiero, giusto o sbagliato che sia, su quanto accade, anche di un bagaglio di immagini che gli vengono tanto dalla cultura di appartenenza, quanto, forse soprattutto, dal retaggio della specie. Queste figure - essenziali per la costruzione delle stesse idee scientifiche -comprendono tuttavia anche vere e proprie visioni, quasi idee «fossili», che sono autentici veicoli di paura e disagio collettivi. Tra queste ci sono le figure evocate dalle parole «malattia» ed «epidemia», voci il cui uso in medicina contrassegna, rispettivamente, una qualsiasi individualità clinica e un morbo che colpisce una popolazione (per solito, come si teorizza dal tempo di Ippocrate, in coincidenza con l'evenienza di stress ambientali, soprattutto climatici); ma che, nell'immaginario collettivo, hanno un ben diverso significato: «malattia» è l'opera di un «malo», uno spirito malvagio che si diverte a tormentare il nostro corpo; «epidemia» è la «visita» che un'entità soprannaturale fa a una popolazione per punirla di una qualche sua colpa (e del resto l'originario termine greco, epidemía, significava letteralmente «visita a un demo»). L'occorrenza di un'epidemia scatena di conseguenza, in quanti ne sono colpiti, un generale senso di colpa.
In generale, va detto, il senso di colpa è sempre colpevole. Lo è in più di un senso: perché individui e comunità hanno sempre, comunque, uno scheletro nell'armadio di cui farsi perdonare; lo è, soprattutto, perché il senso di colpa è talmente angoscioso da spingere chi lo prova ad assolversi, a declinare ogni responsabilità, e, infine, a scaricare la colpa sugli altri. Come sempre accade con i meccanismi nevrotici, si tratta di processi che, dall'alba della specie in poi, si ripetono invariabilmente, ma, ovviamente, l'untore, di volta in volta imputato, cambia con il variare del contesto storico complessivo. L'Occidente, preso nel suo complesso, sembra aver trovato il suo untore nella Cina e ha razionalizzato l'individuazione del presunto colpevole denunciando i disastri ambientali provocati dalla Repubblica Popolare Cinese, e la mancata accortezza mostrata dalle locali autorità sanitarie prima di fronte all'epidemia di Sars, ora di fronte alla «influenza dei polli». Al di là del fatto che pionieri nella devastazione ecologica sono stati (e continuano a essere) i grandi Paesi dell'Occidente, i quali parlatro non brillano certo per accortezza sanitaria, c'è da chiedersi se queste accuse non nascondano per avventura qualche altra cosa. Qualcosa di antico e qualcosa di nuovo.
Tenuto conto del fatto che l'immaginario collettivo è sì un insieme di contenuti prevalentemente (ma non del tutto) inconsci, ma è, tuttavia, diversamente modulato dalla storia specifica delle grandi comunità, può essere utile rammentare che per l'occidentale medio «Oriente» continua a essere sinonimo di qualcosa di misterioso e sconcertante, addirittura il «buio dello spirito» - è così che lo vedeva Hegel nella sua filosofia della storia - un'abissale tenebra in cui non alberga né la coscienza, né, di conseguenza, il senso di responsabilità attiva. A questa superstizione antichissima si associa però un nuovo timore. L'Oriente si identifica, per tanti, con la Cina, il paese continente che, al tempo della «rivoluzione culturale», alimentava speranze e paure (forse qualcuno dei lettori ricorderà un vecchio film di Marco Bellocchio, La Cina è vicina) e che oltre trent'anni fa, nelle sue corrispondenze dall'estero, Alberto Moravia assimilava alla figura del «convitato di pietra». Se l'Occidente resta, come nella metafora di Moravia, il protagonista di un continuo libertinaggio ai danni della natura e del proletariato, il gigante asiatico è ora però espressione di una colossale potenza destinata a trasformarsi nel terzo polo dell'economia mondiale, un polo che, coalizzando le risorse economiche e umane dell'intera Asia, può imporre muove regole e forse, chissà, annullare le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione. E' il caso di stupirsi, allora, se nell'immaginario collettivo occidentale alla rassicurante e pacifica immagine di milioni di contadini cinesi armati di cucchiaini da te per dragare i loro grandi fiumi si è ora sostituita quella di folle di untori «gialli» che aggrediscono l'Occidente portando con sé innumerevoli virus?
Nessuno può ovviamente pretendere che autorità pubbliche impartiscano lezioni di filosofia a un pubblico spaventato, tanto meno in Italia. Non lo saprebbero fare ed è bene che non lo facciano perché, se si attentassero a farlo, sarebbero capaci di ben altro, come, ad esempio, adottare la sciagurata strategia dei moniti e divieti quali quelli riprodotti sui pacchetti di sigarette, che lungi dallo scoraggiare il «vizio» del fumo, hanno sinora semplicemente umiliato ed emarginato milioni di infelici cittadini. Ad accogliere il nostro sommesso invito dovrebbero essere semmai i maîtres à penser, che qui si vuole stimolare a scorgere nel problema una delle chiavi di decifrazione di quella «modernità» che tanto li intriga.

psicologi lombardi
(la pubblicità è l'anima del commercio...)

Yahoo! Notizie Adnkronos 3.5.04
Salute: a Maggio Consulenze Gratis Da Psicologi Lombardi


Milano, 3 mag. (Adnkronos) - Porte aperte per tutto il mese di maggio negli studi degli psicologi lombardi, per consulenze gratuite e informazioni sulla salute mentale. E' stata presentata oggi a Milano la seconda edizione della 'Settimana del benessere psicologico', estesa per la prima volta da sette a 30 giorni dedicati al benessere mentale. Bastera' telefonare al numero verde 800.430.400 per prenotare una consulenza presso lo psicologo della propria citta' o quello piu' vicino a casa. Inoltre - ha spiegato oggi Robert Bergonzi, presidente dell'ordine degli psicologi lombardi - convegni e seminari aperti al pubblico sono stati organizzati a Milano e in tutte le province della Lombardia. ''Obiettivo - ha spiegato Bergonzi - informare i cittadini sull'utilita' della consulenza psicologica. La fase preventiva, infatti, e' decisiva: bisogna intervenire per tempo sulle cause del malessere psicologico, fin dalle scuole. Purtroppo gli psicologi passano nelle scuole italiane solo il 5% delle ore lavorate, contro il 25% della media europea''. E non va meglio nei luoghi di lavoro. ''Lamentiamo anche una disattenzione da parte del Parlamento - ha detto Bergonzi - sulle nostre proposte per una graduale 'convenzionabilita'' delle spese per l'assistenza psicoterapeutica''. All'incontro di oggi e' stata presentata anche la prima polizza italiana sulle cure psicoterapiche. ''Grazie ad un accordo con il Movimento Psicologi Indipendenti - ha detto Lorenzo Bifone, direttore generale di UniSalute Spa - e' nata 'Serenamente', che garantisce anche il rimborso delle cure psicoterapiche''. Nella prima edizione della 'Settimana del benessere' a consultare gli esperti lombardi sono state soprattutto donne (70,7%) dai 26 ai 45 anni. Grazie alla collaborazione dell'ATM (Azienda Trasporti Milanesi), locandine pubblicitarie della manifestazione sono state affisse sui mezzi pubblici milanesi, e uno spot tv verra' diffuso nelle stazioni della metropolitana. (Mar/Adnkronos Salute)

stress da routine

Il Messaggero Lunedì 3 Maggio 2004
Una ricerca di un’equipe di psicologi rivela l’angoscia di molti Quelli che a tavola con il partner o i genitori preferiscono tacere
Pranzo in famiglia, la noia è servita
Per un italiano su 4 è un incubo. L’ideale? Mangiare da soli davanti alla tv
di ELENA CASTAGNI


ROMA - Ma chi glielo fa fare agli italiani di continuare a ritrovarsi a tavola, famiglie intere, tre generazioni come minimo, sedute intorno allo stesso tavolo con lo scopo di passare una bella giornata di festa, ma con la consapevolezza mal celata di non poterne più? Se sono veri - è gli esperti confermano - i risultati di una ricerca della rivista Riza psicosomatica, sarebbe meglio abolire il rituale del pranzo della domenica perché sei volte su dieci si trasforma in un incubo collettivo dove i commensali neanche riescono a parlare tra loro, mentre l’ansia cresce, ci si concentra sul cibo, e si cade vittima di quello che gli esperti chiamo “l’ingrasso emotivo”.
Non solo la tavola delle feste è responsabile di questa sindrome che colpisce in particolare i maschi (64 per cento) soprattutto i single di età compresa tra i 28 e i 34 anni. Anche la cenetta a due spesso finisce in un mutismo consumato davanti a una pizza e una birra, con lei e con lui che neanche si sfiorano con lo sguardo, preda di noia e ansia, interpreti di una pesantezza così assoluta da contagiare anche gli ignari vicini di tavola.
Già, per un italiano su quattro, cenare con la fidanzata o con i genitori è un incubo, anche se il 27 per cento neanche si ribella, perché è comunque una consuetudine impossibile da evitare, ma due su dieci la vivono come una terribile incombenza.
Il perché di tanta tortura va ricercato nel fatto che tra i vari commensali non ci sarebbe un vero legame affettivo, solo una conoscenza superficiale alimentata da conversazioni superficiali, quando pranzo non si traduce in un vero e proprio interrogatorio per i ragazzi costretti a dire ai genitori sempre le solite cose (come è andata la scuola? sei stato interrogato? come era il compito in classe? con chi esci oggi? e così via) che i più decidono di dribblare con un mugugno.
Innocui, ma ugualmente pesanti, sono i problemi di lavoro che gli italiani portano a tavola: silenzio, tanti pensieri e cibo ingurgitato senza neanche gustarne il sapore, è il quadretto che ne esce. E’ inquietante invece scoprire che tre su dieci tacciono perché troppo concentrati su loro stessi, oppure perché provano completo disinteresse per gli altri commensali.
Forse sono proprio questi ultimi che si pentono di non aver rifiutato l’invito finché erano in tempo e che cercano di estraniarsi per tutta la durata del pasto. Ma la maggior parte (il 24 per cento) si concentra sul cibo e mangia senza sosta per poi confessare, una volta abbandonata la tavola, di sentirsi appesantito fino alla nausea. Come se non bastasse il tasso di colesterolo alzato a colpi di creme e condimenti, ci sono anche i sensi di colpa e una forte sensazione di ansia che colpiscono il 22 per cento dei commensali. Niente a che vedere con l’immagine della famiglia felice riunita intorno alla tavola (solo il 19 per cento si definisce sazio e contento). Una fotografia di altri tempi, certamente più dilatati di questi, con meno richiami all’esterno per le giovani generazioni. Infatti, gli intervistati salvano solo le cene e i pranzi con gli amici, mentre l’ideale è rappresentato dalle pasti solitari davanti alla tv: un momento catartico contro lo stress della vita di tutti i giorni.

Il Mattino 3.5.04
Gli italiani grassi per noia:
mangiano per non parlare


Tra una portata e l’altra noia, ansia e silenzi imbarazzati. Oppure la tv accesa. Così gli italiani, per soffocare gli sbadigli e sfogare la tensione dei pasti in famiglia, si gettano sul cibo e diventano vittime di quello che gli esperti chiamano l’ingrasso emotivo. A rivelarlo è un’indagine di Riza psicosomatica secondo la quale, almeno in 6 casi su 10 i pranzi e le cene degli italiani, siano essi in famiglia, con i parenti o anche in coppia, sono sempre più silenziosi. Ci si riempie la bocca di continuo pur di non dover essere obbligati a parlare. Insomma, la tavola, da luogo in cui portare la gioia di stare in compagnia, si è trasformata - secondo l’indagine - nel luogo nel quale esplodono le frustrazioni e domina la noia.

Cina e Stati Uniti

Corriere della Sera 4.5.04
Il governatore Zhou: le riforme procedono, però a zig-zag. I danni ecologici
Credito facile e grattacieli vuoti La tigre cinese ora vuole frenare
Stretta sulle banche statali. Ma anche l’America teme la fine del boom
di Massimo Gaggi


SHANGHAI - VACILLA l´ultimo pilastro della leadership americana nel mondo, il primato nella scienza. L´Asia tallona la supremazia degli Stati Uniti anche in questo campo: brevetti, scoperte, invenzioni, formazione universitaria. Dopo aver svuotato "dal basso" l´industria tecnologica americana, portandole via le mansioni operaie, le potenze asiatiche ora alzano il tiro e lanciano la sfida a un livello superiore. Le aiuta involontariamente la guerra di George Bush al terrorismo: le restrizioni ai visti negli Stati Uniti incoraggiano un´emigrazione alla rovescia, il "ritorno dei cervelli" in Cina e in India, due giganti in pieno boom economico. Anche l´esplosione della spesa militare americana è sotto accusa perché sacrifica gli investimenti pubblici nell´istruzione. Una responsabilità a parte spetta all´integralismo religioso del presidente, che ostacola la sperimentazione scientifica in campi come le cellule staminali.
Il New York Times apre la prima pagina con questo allarme: "U.S. is losing its dominance in the sciences", gli Stati Uniti stanno perdendo il loro dominio nelle scienze.

Il sole tramonta nella foschia di Shanghai, ma il cantiere nel quale si costruisce la seconda torre dell’hotel Shangri-la non si ferma. Dalla mia camera nella prima torre, lo spettacolo è impressionante: le gru continuano a girare nell’oscurità, gli operai montano le travi d’acciaio sotto la luce dei riflettori.
All’una di notte conto ancora quattro cascate di scintille, le squadre dei saldatori. Ma l’albergo non è pieno. Il giorno dopo chiedo al manager il perché di tutta questa fretta. «Sa, anche quest’anno l’economia deve crescere al 9%» è la disarmante risposta.
Fino a qualche settimana fa la Cina preoccupava l’Occidente per la rapidità della sua crescita che sottrae lavoro a molti Paesi industrializzati e sconvolge i mercati delle materie prime, a cominciare da petrolio, acciaio e carbon-coke.
Si chiedeva al governo guidato da Wen Jiabao di azionare la leva del freno, anche per ridurre il surriscaldamento del sistema finanziario, e di rivalutare il renmimbi, anche per rendere le merci cinesi un po’ meno competitive. Gli economisti americani ed europei studiavano le mosse del governo soprattutto per capire fino a che punto fossero sinceri gli impegni presi per rallentare il ritmo di crescita e guidare la trasformazione di un’economia pianificata in un vero sistema di mercato.
Quando, alla fine del primo trimestre 2004, i dati hanno mostrato che il Pil cinese continua a crescere a una velocità poco inferiore al 10% annuo, furono in molti a concludere che il governo aveva mentito, dato che un’economia pianificata e centralizzata non può finire fuori controllo. Ma il governo ribadì il suo impegno e la banca centrale iniziò a intervenire sul sistema creditizio. In pochi giorni il clima è mutato: le Borse asiatiche (e non solo) hanno reagito con forti ribassi all’ipotesi di una frenata cinese; gli esperti hanno cominciato a temere un rallentamento troppo brusco che potrebbe togliere carburante alla ripresa internazionale fin qui alimentata proprio da Pechino, e in parte dagli Usa.
Cosa sta accadendo? La sensazione è che la tecnocrazia al governo abbia chiara la percezione dei rischi che corre l’economia cinese e stia cercando di pilotare una sorta di «atterraggio morbido», che però non è detto che riesca pienamente. Anche perché, se il potere centrale è effettivamente molto forte, il controllo dei venti o trenta dirigenti di Pechino che davvero «contano» su un Paese sterminato e sovrappopolato, non può essere così capillare. Non è, del resto, storia recente: un antico proverbio dice che il dragone (cioè l’impero) è potente, ma i serpenti (i feudatari al potere nelle varie province) sanno come sopravvivere ai suoi artigli.
Qualche giorno fa, il passaggio-chiave: la banca centrale, verificato che gli istituti - che col loro credito facile sono stati i veri «fuochisti» dell’economia cinese - anche a marzo avevano incrementato i prestiti addirittura del 20%, ha invitato tutti a voltare pagina. E la Commissione che controlla il sistema creditizio ha deciso di inviare squadre di ispettori in tutte le sette province del Paese per controllare che la disposizione venga realmente eseguita e che l’esposizione si riduca, in particolare nei settori più esposti: acciaio, industria automobilista e settore immobiliare, il cui boom, soprattutto a Shanghai e nelle zone di nuova urbanizzazione, sta producendo molta inflazione.
Insomma, la volontà di frenare sicuramente c’è: il governo teme davvero un surriscaldamento dell’economia, comincia a calcolare anche i danni ambientali prodotti da un’industrializzazione «selvaggia» e capisce che il disordine creato nel mercato mondiale delle materie prime danneggia i suoi stessi partner commerciali. Ma la frenata non può essere troppo pronunciata perché il Paese ha comunque bisogno di un certo livello di crescita per creare i nuovi posti di lavoro (circa 15 milioni l’anno) necessari per fronteggiare l’incremento demografico e i flussi migratori dalle campagne.
Che la manovra riesca è però tutto da vedere: alcune riforme sono state impostate, ma si procede a zig-zag, come dice il governatore della Banca centrale, Zhou Xiaochuan. Dal mercato del lavoro vengono flebili segnali che possono far sperare in qualche forma di riequilibrio tra Cina e Paesi avanzati, nel lungo periodo. Oggi il salario di un operaio di Shanghai in media è otto volte più basso rispetto all’Occidente. E, soprattutto in alcuni settori come le costruzioni, vige una sorta di «caporalato» che rende il lavoro tanto «flessibile» quanto privo delle più elementari garanzie. Ora qualcosa sta cambiando. A esempio a Pechino, dove tre milioni di lavoratori emigrati dalle campagne ricevono incarichi precari, è stato vietato il subappalto dei lavori a società che non garantiscono i requisiti minimi di sicurezza e spesso non pagano nemmeno i loro dipendenti. E gli operai che oggi vengono pagati una volta l’anno, dovranno ricevere il salario mensilmente. Non molto, visto dall’Europa, ma un cambiamento significativo per la Cina. Dove per alcune professionalità (a esempio gli ingegneri laureati in America che tornano in patria) si cominciano a pagare retribuzioni comparabili con quelle di altri Paesi industrializzati.
Se nel mondo del lavoro qualcosa si muove, dalle banche per ora non vengono indicazioni incoraggianti. Abituate a operare come rami della pubblica amministrazione che garantisce tutti i loro crediti, le quattro grandi banche cinesi hanno continuato per anni a erogare cifre enormi ai clienti, prevalentemente aziende di Stato, senza curarsi della redditività dei progetti finanziati. Cinque anni fa lo Stato destinò il 3% del reddito nazionale a un loro massiccio rifinanziamento (270 miliardi di yuan, circa 27 miliardi di euro, al cambio di oggi). Dovevano entrare nel sistema finanziario internazionale con un adeguato grado di patrimonializzazione. Ma la musica non è cambiata: pressate anche dai governi delle singole province, desiderosi di sostenere lo sviluppo, queste banche hanno continuato a finanziare di tutto. Così Pechino ha appena dovuto spendere ben 45 miliardi di dollari per rifinanziare due di queste banche. Ora, però, il sentiero si è fatto stretto: l’elevato livello dei crediti «in sofferenza» o già inesigibili - ufficialmente il 21% del totale, ma c’è chi ritiene che siano più del doppio - richiederebbe infatti una frenata brusca che verrebbe pagata a caro prezzo dall’economia cinese e da quella internazionale. Una frenata troppo morbida rischia invece di non allontanare il pericolo di un « meltdown » finanziario.
E così ieri sul «New York Times» Thomas Friedman ha trasformato la sua corrispondenza sulla Cina in una preghiera (ironica fino a un certo punto) al Padre Celeste, affinché mantenga i governanti cinesi forti e in buona salute fino all’età di 120 anni, capaci di governare con saggezza un processo di riforme economiche che consenta alla Cina di crescere per sempre al 9 per cento l’anno. Scavalcando, uno alla volta, tutti gli altri grandi protagonisti dell’economia mondiale, America compresa.

Repubblica 4.5.04
Dalle pubblicazioni sulle riviste specializzate al numero dei brevetti, gli americani perdono terreno
Vacilla il primato Usa nelle scienze ora la ricerca si fa in Asia ed Europa
L'allarme sulla prima pagina del New York Times: "Il mondo ci sta per raggiungere"
Le restrizioni ai visti favoriscono il ritorno dei cervelli in Cina e in India, giganti in ascesa
DAL NOSTRO INVIATO FEDERICO RAMPINI


Il quotidiano denuncia la sottovalutazione generale delle «conseguenze per l´occupazione, l´industria, la sicurezza nazionale o il dinamismo della vita culturale del paese». «Il resto del mondo ci sta raggiungendo», conferma John Jankowski della National Science Foundation, l´agenzia federale che studia proprio i trend della scienza. L´allarme è fondato su dati e indicatori precisi. Una misura della competizione internazionale nel sapere è il numero di brevetti. Qui gli Usa conservano una lunghezza di vantaggio su tutti, ma il margine si assottiglia di anno in anno, con un calo dal 60 al 52% in un ventennio, mentre in alcuni settori specifici i paesi asiatici sono già passati in testa.
Un altro indicatore che gli esperti guardano con attenzione è il numero di pubblicazioni su riviste scientifiche. Qui il sorpasso è già accaduto. Nella fisica, per esempio, gli studi americani sono caduti dal 61% del totale vent´anni fa, al 29% oggi. Il direttore della Physical Review, Martin Blume, rivela che la Cina è ormai passata in testa con più di mille studi presentati all´anno, e afferma che lo stesso sta accadendo in altre discipline avanzate.
Il New York Times cita Diana Hicks del Georgia Institute of Technology, secondo cui il ritmo dell´ascesa asiatica nella scienza e nell´innovazione tecnologica «è incredibile, studi e brevetti salgono in modo stupefacente». Il giornale mette sotto accusa il provincialismo di un´America che si crede il centro del mondo, e talvolta ignora i progressi altrui. Ricorda l´esempio delle missioni su Marte: la notizia che la sonda europea ha individuato tracce di metano nell´atmosfera è stata ignorata dai mass media americani, troppo intenti a esaltare le prodezze della missione Nasa.
L´opposizione democratica cavalca l´allarme, il capogruppo al Senato Tom Daschle parla di un «momento di svolta», in cui si moltiplicano «i segni che il primato americano nel mondo scientifico è scosso». La proliferazione delle spese militari in passato ha avuto effetti benefici anche sul progresso tecnologico, e tuttora la ricerca a scopi bellici riceve 66 miliardi di dollari di finanziamenti all´anno. Ma il peso della guerra in Iraq sui deficit pubblici costringe a tagli dolorosi e gravidi di conseguenze in altri campi: 21 agenzie federali su 24 che si occupano di ricerca scientifica hanno visto i propri bilanci decurtati, le tre che si salvano sono quelle che si occupano esclusivamente di missioni spaziali e sicurezza nazionale.
La priorità alla sicurezza si ritorce contro la scienza in un altro modo. Una conseguenza dell´11 settembre è stato il giro di vite sulle procedure per i visti d´ingresso agli stranieri. I nuovi controlli hanno allungato a dismisura i tempi di rilascio anche per i visti di studio. Questo rallenta e ostacola l´arrivo di quei talenti stranieri - docenti, ricercatori o studenti - che da sempre contribuiscono alla forza delle università americane. Il numero di laureati stranieri che hanno presentato domanda per un dottorato di ricerca negli Usa nel prossimo anno accademico è sceso del 25%. Pochi giorni fa un summit d´emergenza ha portato i rettori delle principali università americane alla Casa Bianca, per tentare di porre un riparo a questa emorragia di cervelli. Ma la paura di attentati e l´inefficienza dell´Immigration Service hanno creato un collasso burocratico da cui è difficile uscire in tempi rapidi.
L´impatto negativo della nuova politica dei visti coincide con una fase in cui emergono come nuovi poli d´attrazione la Cina e l´India, due tradizionali serbatoi d´emigrazione qualificata verso gli Usa. Negli anni ?90 un terzo delle nuove imprese fondate nella Silicon Valley - il centro californiano delle tecnologie avanzate - era stato creato da imprenditori-scienziati di origine asiatica. Oggi una parte di loro stanno tornando a casa, attirati dall´opportunità di usare la propria esperienza americana nella "nuova frontiera" del boom asiatico. Ormai per molti giovani laureati provenienti da Cina, India, Corea, Taiwan, anche se hanno già in tasca il visto Usa la prospettiva è cambiata. Un dottorato a Berkeley, Stanford o Harvard è solo una tappa prima di tornare a far carriera in patria, non l´anticamera dell´emigrazione negli Stati Uniti. A questa inversione di tendenza contribuiscono le stesse multinazionali americane. Da Ibm a Microsoft, da Intel a Hewlett Packard, tutte investono in Cina non più solo per crearvi fabbriche con manodopera a buon mercato, ma per costruire centri di ricerca avanzata, design, progettazione. La grande paura americana dell´offshoring assume di colpo un significato nuovo. Non sono solo posti di lavoro che vengono trasferiti sull´altra sponda del Pacifico, ma la stessa ricetta-chiave della leadership americana nel mondo. Giappone, Taiwan e Corea del Sud già rappresentano da soli un quarto di tutti i brevetti industriali registrati sul mercato americano, Cina e India sono sulla buona strada. «Ci stanno raggiungendo - dice la vicepresidente del Council on Competitiveness, Jennifer Bond - e gli americani farebbero bene a non addormentarsi sugli allori».

AP 3.5.04 (dall'articolo del New York Times)
SCIENZA, GLI USA STANNO PERDENDO IL DOMINIO MONDIALE (NYT)
Crescono l'Europa e la Cina, effetto della globalizzazione


Roma, 3 mag. (Ap) - I primi a stupirsene sono stati gli stessi analisti americani, ma la tendenza è in atto e i dati la confermano: gli Stati Uniti stanno perdendo il dominio incontrastato nel campo della scienza e della tecnologia. Il resto del mondo - in particolare l'Europa e l'Asia - sta rapidamente colmando un "gap" che sembrava invalicabile, e anzi pareva destinato ad allargarsi. Lo scrive il New York Times, che cita i pareri di esperti governativi e privati americani e fa l'analisi di una serie di "indicatori" del progresso scientifico: i brevetti, il numero delle pubblicazioni, i premi Nobel. La conclusione la tira senza girarci intorno John E. Jankowski, analista della National Science Foundation: "Il resto del mondo ci sta raggiungendo", dice. "Il primato nelle scienze non è più appannaggio dei soli Stati Uniti".
Il mondo nel suo complesso di certo ne trarrà beneficio, dice ancora l'esperto. Ma i grandi profitti derivanti dall'eccellenza tecnologica saranno sempre più condivisi, e anche la concorrenza nella produzione scientifica si farà più difficile, perché gli Usa non saranno più - come ora - una calamita irresistibile per tutte le menti migliori.
Da che cosa emerge la tendenza alla recessione della scienza made in Usa? In primo luogo - scrive il NYT - dall'indicatore più importante non soltanto dal punto di vista culturale, ma soprattutto economico: il numero di brevetti nelle alte tecnologie che vengono concessi nel mondo. Fino a qualche decennio fa erano tutti, con pochissime eccezioni, concessi a centri di ricerca americani. Oggi, gli Stati Uniti conservano la maggioranza, ma risicata: il 52 % dei brevetti è americano, Europa ed Asia si dividono quasi tutti gli altri.
Ancor più indicativo e preoccupante è il declino riguardante un altro indicatore specifico, il numero delle pubblicazioni scientifiche accolte dalle riviste specializzate. Negli ultimi vent'anni, da una maggioranza di articoli firmati da riceratori Usa che comunicavano i loro risultati innovativi, si è passati a una netta minoranza. Significativo il caso della Physical Review, tempio della ricerca in campo fisico-matematico: soltanto il 29 per cento degli articoli oggi esce da ricerche compiute in laboratori americani. Nel 1983 erano il 61 per cento.
Declino anche nei premi Nobel dedicati alle discipline scientifiche. Scorrendo gli Albi d'Oro dagli anni Sessanta ai Novanta, si leggono soltanto nomi di ricercatori operanti negli Usa, con poche sporadiche eccezioni. A partire dal 2000, il 51 % dei riconoscimenti è andato a ricercatori europei.
Di tutto questo, scrive il NYT, si ha poca percezione negli Stati Uniti, tanto a livello di pubblico che a livello politico. E' difficile scalzare l'immagine, ormai da tempo acquisita, del dominio scientifico Usa. I media sono abituati a non tener conto di quanto avviene all'estero, e non hanno percepito la sgradevole novità.
Il giornale cita un esempio: pochi mesi fa, la sonda marziana dell'Esa, l'agenzia spaziale europea, scoprì tracce di metano nell'atmosfera del pianeta, ovvero un forte indizio della presenza di microrganismi viventi. Negli Usa la notizia non è neppure passata, perché il pubblico era bombardato dalle immagini dei due robot della Nasa che passeggiavano nei deserti marziani.
Secondo gli analisti Usa, il futuro apparterrà sempre più a nazioni non americane. La Cina, col suo aggressivo programma spaziale, viene vista come il concorrente più temibile. Il numero di pubblicazioni da parte di scienziati cinesi è aumentato vertiginosamente in pochi anni, e continua ad aumentare.

passioni, emozioni e scienza:
due libri

Il Gazzettino Martedì, 4 Maggio 2004
LIBRI
Cercando di entrare nel cuore di uno scienziato
di RICCARDO CALIMANI


(...)
Le passioni possono essere all'origine del pensiero scientifico?

A questa domanda risponde positivamente Nicolas Witkowski con un bel volume "Storia sentimentale della scienza", edito da Raffaello Cortina. E possibile trovare in queste pagine matematici persiani che risolvono difficili equazioni cantando le lodi del vino, ingegneri rinascimentali che, se, in un caso, riescono a risolvere un problema, in altre dieci situazioni falliscono clamorosamente, maestri del pensiero, che non solo svelano principi matematici della filosofia naturale, ma anche contemporaneamente rivelano morbosi segreti, per non parlare degli evoluzionisti che celebrano gli amori delle piante e di altre storie amene. Il risultato di questa lettura è quello di mostrare l'importanza delle emozioni rispetto al progresso scientifico.

Un libro sulle emozioni

"Alla ricerca di Spinoza" di Antonio Damasio, edito da Adelphi, è un brillante saggio che, attingendo ai risultati più recenti delle neuroscienze cognitive, offre una risposta ad interrogativi classici:da dove nascono i sentimenti? Che cosa sono? Da queste domande scaturisce un'indagine estremamente stimolante che sposta il dibattito, ben noto, sul rapporto mente-corpo inserendolo in un nuovo scenario concettuale che coinvolge la totalità della natura che ci circonda.