martedì 6 aprile 2004


dalla Libreria Amore e Psiche

sono disponibili in libreria

la videocassetta n.16
delle
LEZIONI DI CHIETI 2002
del prof. MASSIMO FAGIOLI


(l’ultima del 2002)

e


il n. 2/2004 de
"IL SOGNO DELLA FARFALLA"

__________________________________


a FIRENZE da
STRATAGEMMA


MAWIVIDEO DA CHIETI

su
MAWIVIDEO.IT

è disponibile la registrazione audio/video della 4ª lezione


del Prof. MASSIMO FAGIOLI

dall'Università di Chieti


il DVD di "a un millimetro dal cuore"
di Iole Natoli

è in vendita a Roma presso la
LIBRERIA AMORE E PSICHE

e a Firenze da
STRATAGEMMA


La cooperativa Il Gigante annuncia:
il DVD del film "A UN MILLIMETRO DAL CUORE"
di IOLE NATOLI
è in vendita anche da
MEL BOOKSTORE LIBRERIA

via Nazionale 252 / 255 Roma

questa libreria ha esposto un bel cartello con su scritto, MEL BOOKS CONSIGLIA, la copertina del dvd, la poesia, la sinossi del film e la recensione di Donatella Coccoli. E tutto ciò senza nessuna sollecitazione ma solo perchè alla direttrice è piaciuto maltissimo il corto, e addirittura pensa di organizzare anche una serata con proiezione

l'Occidente al saccheggio dei tesori di Bagdad

una segnalazione di P. Cancellieri

Il Messaggero Martedì 6 Aprile 2004
Iraq, il saccheggio dell'Occidente

Disastro archeologico
Per fermare le ruberie su commissione
chiesto l'embargo sulle acquisizioni
Gli archeologi contro saccheggio e commercio dei tesori iracheni
di PAOLO MATTHIAE


«GLI OGGETTI sottratti nel saccheggio del Museo di Bagdad sono stati circa 14.000, ma questa cifra è superata da quanto, ogni giorno, viene trafugato negli scavi clandestini nella sola Babilonia, tra Bagdad e Bassora, da circa un anno». Questa agghiacciante affermazione è stata pronunciata da uno dei più autorevoli archeologi americani, McGuire Gibson, professore ordinario di Archeologia del Vicino Oriente antico nel prestigioso Istituto Orientale dell’Università di Chicago, davanti ad un’attonita platea di colleghi di tutto il mondo all’Università Libera di Berlino, dove si è appena concluso il IV Congresso internazionale di archeologia del Vicino Oriente antico.
La sconvolgente comunicazione è stata accompagnata da una non meno impressionante documentazione fotografica aerea, compiuta per mezzo di elicotteri militari americani, in cui comparivano decine e decine di importanti centri archeologici della Babilonia, sforacchiati impietosamente per estensioni vastissime e senza pause: tra questi siti sono città antichissime e famosissime del mondo sumerico ed accadico, come Lagash, Umma, Badtibira, Zabalam, Isin. Come già era stato annunciato in maniera più frammentaria e meno sistematica da giornalisti americani ed inglesi che avevano fatto fotografie mentre decine di scavatori clandestini infuriavano sui luoghi più importanti dell’archeologia mesopotamica, centinaia di persone - è stato affermato con chiarezza - sono impegnate, su commissione di potenti organizzazioni, in questa sistematica devastazione e in questo inaudito saccheggio di un territorio vastissimo e ricchissimo di reperti storici di straordinario valore.
Se questa situazione dipende certo dalla pressoché totale mancanza di controllo del territorio da parte delle forze militari di occupazione anglo-americane, fatta eccezione per alcuni settori di pochi centri urbani maggiori, altre notizie ed altre immagini non sono state meno sconvolgenti. Così la desolante fotografia della sala del trono del palazzo di Sennacherib a Ninive, alla periferia di Mossul, con i resti dei celebri rilievi assiri, in parte ancora in posto, fatti a pezzi e sparsi sul pavimento; così la sconcertante notizia che un quartiere di comando delle forze britanniche si è installato sulle colline che ricoprono l’antica Kish, la città sede di ben quattro dinastie antichissime da cui sorse l’astro di Sargon di Accad; così anche l’immagine, incredibile, della facciata del Museo di Bagdad centrata, sopra il portale d’ingresso al centro del prospetto che rievoca una tipica architettura assira, da una cannonata di quegli stessi carri armati americani che non si mossero a protezione dei tesori del museo.
E’ stato difficile seguire i lavori di un congresso, peraltro fruttuosissimo, con oltre 500 partecipanti da più di 35 paesi, con la mente rivolta alle splendide scoperte siro-tedesche sulla cittadella di Aleppo e iraniane nella regione di Jiroft e con il cuore gonfio di angoscia per lo strazio senza limiti e senza fine del patrimonio storico della Mesopotamia. La tenacia degli archeologi di tutto il mondo per riscoprire, studiare e conservare, comunque, il patrimonio culturale della più antica umanità urbanizzata e l’esecrazione per lo scempio inimmaginabile della culla della civiltà nella terra dei due fiumi hanno fatto sì che, alla fine del Congresso, sia stata resa pubblica una “Dichiarazione di Berlino”.
In essa sono state riaffermate con vigore la necessaria e insostituibile autonomia delle autorità culturali di ogni Paese nella protezione del patrimonio culturale del proprio territorio secondo la legalità internazionale; l’improcrastinabile necessità della presenza dell’Unesco nel coordinare aiuti e collaborazioni urgenti, efficaci e consistenti che facciano fronte alle devastazioni in corso; la piena responsabilità delle potenze d’occupazione nella tutela e nella salvaguardia dei beni del patrimonio culturale nei territori di un Paese occupato secondo le convenzioni e le dichiarazioni dello stesso Unesco. Nel documento compare anche un forte appello affinché tutti i Paesi aderenti all’Onu, attraverso opportuni provvedimenti legislativi e operazioni di polizia, si impegnino non solo a bloccare l’entrata e l’acquisizione di qualunque oggetto di interesse archeologico e storico proveniente dal territorio iracheno, ma anche a restituirlo immediatamente e senza condizioni alla Repubblica dell’Iraq. Di fronte ad una situazione di una gravità senza precedenti per l’ampiezza, la sistematicità e l’intensità del fenomeno degli scavi clandestini e del saccheggio del patrimonio archeologico dell’umanità, che peraltro ha riscontri diffusi in molte regioni del pianeta a livelli comunque forti pur se di minore drammaticità, anche ciò che è sempre stato considerato un’irrealizzabile utopia appare oggi come una realistica, anche se difficilissima, necessità: il divieto formale, promulgato e sancito dalle organizzazioni internazionali, del commercio degli oggetti archeologici.
Se è vero, infatti, che l’umanità non può più tollerare, per interessi di mercato e cioè di profitto individuale, che beni di straordinaria importanza per la collettività universale siano dilapidati come fogli spietatamente strappati di un libro, che è il libro stesso della storia dell’umanità, questo scempio non può che essere arrestato attraverso una proibizione responsabile, esplicita ed unanime. E’ stata questa la proposta, tanto audace quanto temeraria, ma forse ormai assai meno utopistica di quanto possa parere, che ha avanzato con coraggio un archeologo tedesco, M. Mueller-Karpe, nel congresso berlinese, alla fine dei lavori. E’ certo un’utopia, ma, se non è già troppo tardi, forse il tempo è venuto che, come per l’ambiente naturale del pianeta, così per il patrimonio culturale, siano prese decisioni drastiche.

Ebla a Roma

una segnalazione di P. Cancellieri

Il Messaggero Martedì 6 Aprile 2004
Roma festeggia i quarant’anni di Ebla
di MARIA GRAZIA FILIPPI


PRIMA le città nascevano soltanto accanto alle acque dei grandi fiumi. Dopo le città furono di terra, di agricoltura estensiva e di oliveti sterminati. In mezzo c’è Ebla, la città siriana più famosa al mondo grazie agli scavi di Paolo Matthiae, il professore dell’ateneo romano “La Sapienza” che dal 1964 ha indagato anno per anno, ogni anno, la collina di Tell Mardikh, fino a scoprire quello che nessuno prima aveva scoperto. Cioè che con Ebla, nel terzo millennio avanti Cristo, si rivoluziona il concetto stesso di città. Ieri e oggi “La Sapienza”, ma più in generale il mondo scientifico, festeggiano questo quarantennale e i prestigiosi ritrovamenti avvenuti nel frattempo. E lo fanno alla maniera degli studiosi. Cioè con una due giorni di convegni (ieri al Rettorato, oggi all’Accademia Nazionale dei Lincei) fitta di interventi, moltissimi di archeologi stranieri venuti a tributare ad Ebla proprio questo ruolo di unicum e al suo scopritore quello di sapiente lettore dei messaggi dell’antichità. E già ieri mattina si respirava aria di scavi e sole a picco dai resoconti dell’ultima campagna di scavo effettuata, come sempre da 40 anni a questa parte, dal mese di giugno a quello di ottobre. «L’ultimo anno è servito a portare definitivamente alla luce il Palazzo Meridionale – ha spiegato Matthiae – nel quale abbiamo riconosciuto la residenza del Gran Visir, un alto dignitario della corte che svolgeva il delicatissimo compito di coordinatore dei messaggeri. Tanto che nel palazzo è stata ritrovata una scuderia con vasche per far abbeverare i cavalli utilizzati per gli spostamenti». Ma insieme al Palazzo Meridionale, 1200 metri quadrati completamente scavati, è emersa anche la certezza che la cittadella di Ebla, che domina dalla collina, era circondata da un anello di palazzi e templi che si stendevano ai suoi piedi «e in questo senso proseguiranno gli interventi, partendo già dalla prossima missione con un saggio esplorativo al quale seguiranno gli scavi veri e propri». Novità in vista anche per il parco archeologico di Ebla, già attivo dal 2002 quando si inaugurò un’area che copriva il 60% delle architetture scavate e restaurate. «La prossima missione, in partenza per giugno, continuerà i restauri delle strutture restanti con l’intento di portarli a termine entro due anni – ha spiegato ancora Matthiae – interventi delicati studiati per rendere leggibili gli edifici e la loro storia». Contemporaneamente si completeranno i tre itinerari che, all’interno dei 60 ettari di superficie complessiva, permetteranno di visitare l’antica città siriana, con percorsi di breve, media e lunga durata.

Harvard: la rimozione... chimica

MEDICINA/ TESTATA UNA PILLOLA PER DIMENTICARE CATTIVI RICORDI
APCOM 05/04/2004 - 22:35
Harvard vuol curare traumi dei soldati e vittime del terrorismo


New York, 5 apr. (Apcom) - Stress, incidenti, traumi, dolori: presto dimenticarli potrebbe esser semplice come bere un bicchier d'acqua. Il centro di ricerca del Massachusetts General Hospital di Boston sta sperimentando un farmaco in grado di far pulizia tra i cattivi ricordi, curarli come oggi facciamo con la tosse e il raffreddore.
La pillola per dimenticare, cui la rivista dell'universit? di Harvard dedica un lungo approfondimento, sarebbe destinata alle persone che soffrono per le conseguenze di esperienze traumatiche come i ricordi di guerra, che hanno subito stupri, le vittime di bombardamenti o di terribili incidenti automobilistici, ustioni, pestaggi, lutti, tutti apparentemente impossibile da lasciarsi alle spalle.
Incubi e i disordini post traumatici fino ad oggi sono stati curati per mezzo della psicoterapia, non sempre in grado di alleviare le sofferenze dei pazienti e con periodi di cura molto lunghi. Roger Pitman, docente di psichiatria presso la scuola di medicina di Harvard ritiene che queste persone possano essere aiutate da nuovi farmaci in fase di sperimentazione.
"Credo - ha spiegato il professore - che presto troveremo una cura in grado di ridurre i disordini post traumatici in maniera sostanziale". Pitman e i suoi colleghi stanno testando una sostanza chiamata propranolol su 41 persone che hanno sperimentato incidenti automobilistici, aggressioni o traumi abbastanza seri da essere stati trattati dal pronto soccorso del Massachusetts General Hospital. L'obiettivo e' capire se il farmaco, a sei settimane dell'episodio, sia in grado di avere un effetto positivo sulla salute del paziente.
Tre mesi dopo il fatto i pazienti trattati con placebo avevano ancora paura di entrare in un'automobile. I pazienti avevano ancora incubi, sudori notturni e il polso accelerato tutte le volte che si sedevano dietro il volante, specialmente nel luogo dell'incidente. Quanti al contrario erano stati trattati con propranolol avevano meno problemi.
I risultati della sperimentazione sarebbero sorprendenti: a 90 giorni dall'incidente le vittime sono tornate in ospedale per un controllo. 22 avevano assunto propranolol quattro volte al giorno per dieci giorni mentre 14 di esse sono state curate con un placebo. Ai pazienti e' stato quindi fatto ascoltare un nastro in cui avevano in precedenza raccontato l'incidente. Quanti erano stati curate dal farmaco non hanno mostrato particolari reazioni al nastro, quelli trattati con placebo hanno invece avuto un ulteriore shock nel ricordo del dramma.
Pitman e' convinto che il propranolol possa essere usato in futuro per curare i soldati traumatizzati dai combattimenti in Iraq e in Afghanistan, le vittime di aggressioni sessuali, anche i bambini, e quelle di attentati terroristici. Ma per il momento Pitman raccomanda prudenza, prima di poter commercializzare il farmaco occorre estendere i test a un numero maggiore di persone.

copyright @ 2004 APCOM

tre stralci da Il Mattino:
il sogno, i bambini, e Boncinelli

ricevuti da Sandra Mallone

il Mattino 5.4.04

Neuroscienze
Il sogno? È un gioco di molecole
di EVELINA PERFETTO


Sogno dunque sono. Anche quando, come accade nel sonno, la coscienza è interamente annullata, il nostro cervello continua a lavorare in modo incredibilmente complesso. Ed il risultato di questo lavoro sono appunto i sogni. Che tutti gli esseri umani sognino e che i sogni abbiano avuto un ruolo a volte fondamentale nella storia dell'umanità (basti pensare alla loro influenza su movimenti religiosi, rappresentazioni artistiche e teorie scientifiche) era ben noto da sempre. Eppure solo in questi ultimi anni i progressi delle neuroscienze hanno cominciato a chiarire in termini scientifici che cosa siano i sogni, quali parti del cervello ne sono responsabili e quanto i sogni siano importanti non solo per lo sviluppo della «struttura più complessa esistente in natura», come è stato definito il cervello, ma anche per mantenerne l'efficienza durante tutta la vita.
Un lucido ed affascinante resoconto di questi progressi viene fatto da J. Allan Hobson nel suo ultimo libro «La scienza dei sogni» (Mondadori, 170 pp, 8,40 euro). Docente di psichiatria all'Harvard Medical School e direttore del Neurophysiology laboratory al Massachusetts Mental health Center di Boston, Hobson è uno dei più famosi e seguiti psichiatri americani. «La svolta paradigmatica nello studio dei sogni - dice Hobson - si è verificata quando siamo passati dall'analisi dei contenuti all'analisi della forma dei sogni. Mentre i precedenti studiosi, a cominciare da Freud, si sono chiesti che cosa significa il sogno, noi abbiamo cercato di capire quali siano le caratteristiche del sogno, ovvero dell'attività mentale che avviene durante il sonno, e le sue differenze dall'attività mentale della veglia». Insomma, come funziona il cervello che dorme.
Le fasi di attivazione cerebrale nel sonno sono state definite dai neurologi fasi Rem (rapido movimento oculare) perché sono associate ad un rapido movimento degli occhi, oltre che ad alcune nette variazioni dell'elettroencefalogramma e dell'elettromiogramma, che misura il tono muscolare. Durante una normale dormita notturna, le fasi Rem si verificano periodicamente ad intervalli di 90 minuti ed occupano da 1,5 a 2 ore per notte. Chiunque viene svegliato durante o immediatamente dopo una fase Rem è in grado di raccontare nitidamente il sogno che stava facendo. Senza un brusco risveglio, la memoria del sogno può svanire e per questo molti credono di aver passato lunghe notti senza sogni.
Ma la scoperta forse più sorprendente è che, quando nel sonno il cervello si autoattiva (si attiva cioè senza uno stimolo proveniente dall'ambiente esterno) ed entra in una fase Rem, muta le sue autoistruzioni chimiche, bloccando la liberazione di due neurotrasmettitori, la noradrenalina e la serotonina, che sono fortemente implicate nelle principali funzioni della veglia, quali attenzione, memoria e pensiero riflessivo. Viene invece attivato il sistema colinergico, che utilizza un altro neurotrasmettitore, l'acetilcolina. Il sogno è dunque la conseguenza di «un gioco di molecole» finemente autoregolato dal cervello e geneticamente predeterminato, perché innato. Con buona pace di poeti, profeti, mistici, astrologi ed anche dei seguaci di Freud.
Ma perché sogniamo? «Per riordinare le informazioni nella nostra testa - spiega Hobson - e sbarazzarci di memorie obsolete, per aggiornare i ricordi ed incorporare nuove esperienze nei nostri sistemi di memoria. In pratica, per far continuare a crescere il cervello durante tutta la vita».

Edoardo Boncinelli
Fase Rem, in un neonato addormentato il «film» dura otto ore al giorno


Sognare un mondo che ancora non si conosce. È quanto forse accade non solo ai cuccioli d'uomo ma anche ai gattini, ai cagnolini ed alle scimmiette. Come hanno dimostrato una serie di ricerche, già alla trentesima settimana di gestazione il feto umano passa circa 24 ore al giorno in uno stato di attivazione cerebrale che costituisce un primo livello di sonno Rem, quello appunto che nell'adulto è sempre associato all'attività onirica. Dopo la nascita, non meno della metà delle 16 ore di sonno giornaliero che trascorre un neonato sono un inequivocabile stato di sonno Rem. In pratica, il cervello di ogni neonato è in uno stato di sogno per almeno otto ore al giorno.
Ma perché i piccoli hanno durante il sonno un'attività cerebrale molto maggiore rispetto a quella che avranno da adulti? «Per prepararsi - spiega Edoardo Boncinelli - a vivere la realtà, per far crescere il cervello in modo corretto. Grazie a questo lavoro onirico ante litteram, i neuroni fanno le prove generali del loro funzionamento. Per esempio, nella retina e poi nella corteccia visiva si formano in continuazione immagini per tenere in esercizio le cellule destinate a vedere. E questo accade per tutti gli organi di senso. È come se il cervello dei neonati fosse capace di farsi un film per mettere a punto gli strumenti e gli scenari necessari ad affrontare l'ambiente esterno».
Il neonato ha una coscienza, ha percezioni, emozioni e memorie primordiali ma non possiede un linguaggio e quindi non è in grado di elaborare quello che gli psicologi chiamano «pensiero proposizionale» o simbolico. Anche se fosse in grado di raccontarlo, il suo «film quotidiano» sarebbe dunque completamente diverso da quelli che ci sceneggiamo durante i sonni di adulti. Racconti di sogni simili a quelli dell'adulto cominciano a comparire a circa tre anni, quando i piccoli hanno acquisito un vocabolario sufficiente all'elaborazione del pensiero proposizionale. I sogni dei bambini diventano sempre più complessi fino a circa sette anni, poi è come se la fantasia onirica subisse un rallentamento ed i loro sogni diventano uguali a quelli degli adulti.
Ma cosa accade agli adulti che tornano ad avere una «memoria bambina», ovvero incompleta, perchè affetti da gravi forme di amnesia permanente? Una ricerca dell'Harvard Medical School ha dimostrato che questi soggetti sognano esattamente come le persone normali, pur non ricordando nulla di quanto era loro accaduto il giorno prima e che in realtà era l'argomento dei sogni. Il cervello, anche se in parte danneggiato, riesce comunque a memorizzare il materiale necessario alle sue personalissime sceneggiature.


INTERVISTA A EDOARDO BONCINELLI
«Psicoterapia, intuizioni geniali ma meglio la pratica che la teoria»


Nel 1900, Sigmund Freud pubblica «Il sogno», primo best-seller della letteratura scientifica mondiale. Con parole accessibili anche ai non esperti, Freud spiega che il sogno è l'appagamento velato di un desiderio inconscio rimosso, le cui radici risalgono quasi sempre alle lontane esperienze dell'infanzia, e quali sono le tecniche psicoterapeutiche per abbattere le barriere dell'inconscio.
«Oltre che essere un grande scienziato - dice Edoardo Boncinelli - Freud aveva enormi capacità drammaturgiche ed è stato il più efficace divulgatore delle sue teorie». Noto per le sue ricerche di biologia molecolare dello sviluppo, Boncinelli, che oggi dirige la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste, è stato anche un analista junghiano ed è uno dei migliori divulgatori scientifici italiani. Nel suo ultimo libro, «Il posto della scienza», Mondatori, analizza lo «stato dell'arte» teorico e pratico dell'impresa scientifica, dalla sua capacità di svelare i misteri della natura alla sua utilità nel cambiare la sfera del quotidiano.
Professor Boncinelli, che cosa è rimasto della scienza inventata da Freud?
«Culturalmente è rimasto tantissimo perchè i miti della psicanalisi sono ormai entrati nella quotidianità, oltre che nella letteratura e nella filosofia. Per quanto riguarda la clinica, ovvero il trattamento dei pazienti, è ormai evidente che tutti i tipi di psicoterapia (freudiana, junghiana, adleriana, rogersiana, cognitiva, umanistica ed altro) hanno più o meno la stessa efficacia. Sono utilissime per certi disturbi, come le nevrosi, ed anche nei casi di gravi psicosi, quali la schizofrenia e le forme maniaco-depressive, oggi si tende ad associare il trattamento farmacologico con la psicoterapia. Ma poiché tutte queste psicoterapie sortiscono lo stesso effetto benefico, le loro basi teoriche, per quanto elaborate ed a volte geniali, non hanno nessuna importanza».
Che cosa significa? Che la pratica psicoterapeutica si è dimostrata migliore della teoria?
«Un bravo psicoterapeuta si comporta sempre nella stessa maniera, a qualsiasi scuola appartenga: ascoltando il paziente, non condannandolo mai, facendogli vedere i possibili aspetti di ogni questione ed offrendogli una spalla su cui appoggiarsi fino a quando le cose non vadano meglio».
Lo psicoterapeuta ha dunque la funzione di un interlocutore fidato ed imparziale?
«Certo, anche perchè purtroppo gli amici sono diventati rarissimi. Oggi si parla tanto di tutto, ma raramente di cose importanti. Anche nei talk show si fanno sempre gli stessi discorsi. E' sempre più difficile trovare qualcuno capace di ascoltare, di avviare un valido contradittorio e di far vedere l'altra faccia della medaglia. Questo accade perché c'è poco tempo e molta ipocrisia».
Per Freud, i desideri sono spesso di natura erotica poiché le pulsioni sessuali sono le più rimosse. Ma oggi, al tempo del Viagra e del sesso on line, è ancora valido questo fondamento della teoria psicanalitica?
«Oggi gli impulsi sessuali non sono inibiti palesemente, ma in realtà l'ipocrisia la fa ancora da padrona. E' cambiata invece la tipologia dei pazienti che si rivolgono alla psicanalisi e che una volta erano per la maggior parte nevrotici, ora sono soprattutto depressi ed ansiosi».

James Joyce

una segnalazione di P. Cancellieri

Il Messaggero
Lunedì 5 Aprile 2004
Foto, libri, documenti: tutto Joyce rivive in un museo a Trieste


Trieste ricorda con un museo James Joyce, che vi soggiornò dal 1904 al 1921. Il museo, una particolare struttura che verrà inaugurata il prossimo 8 maggio, sorgerà proprio accanto al museo di Italo Svevo, che di Joyce fu grande amico.
Lo spazio espositivo sarà dedicato allo studio di Joyce ed alle sue opere. Ci sarà un biblioteca, molti documenti, fotografie e più di 700 immagini storiche di Trieste e Pola su cd, così i visitatori potranno fare un “tour virtuale” degli indirizzi più importanti del soggiorno di Joyce a Trieste.

Pablo Neruda

Corriere della Sera 6.4.04
Un uomo alto e stanco. Un poeta, dicono...
di Paolo Falla


Un uomo alto e stanco. Un poeta, dicono. Certamente un senatore comunista cileno perseguitato dal suo Paese, guardato a vista dalle polizie occidentali. Quando arriva in Italia, nel mite autunno del 1950, Pablo Neruda si è lasciato alle spalle un’avventurosa fuga attraverso la Cordigliera delle Ande e l’approdo a Parigi, ospite di Picasso: non sospetta la fortuna che avrà la sua opera ma soprattutto la generosa protezione che gli sarà offerta dagli intellettuali italiani, prima ancora che una sola delle sue liriche fosse pubblicata in italiano. Nei primi mesi viaggia tra Milano, Firenze, Siena, Genova, Venezia: ospite di scrittori che organizzano letture pubbliche dei suoi versi e municipalità di sinistra che lo nominano cittadino onorario. Un cittadino senza documenti, espulso dal Cile che ne reclama l’arresto e guardato a vista da una polizia «che non mi ha mai maltrattato, ma che mi seguiva instancabile». A Roma viene assistito da Fulvia e Antonello Trombadori che lo nascondono a casa della nonna di Fulvia. A Venezia, stufo di avere gli agenti addosso, tenta una fuga sulla gondola a motore del sindaco comunista, lasciando i poliziotti ad arrancare sui remi.
Mentre Renato Guttuso e Carlo Levi se lo contendono per due ritratti, nel gennaio 1952 il ministero dell’Interno decide di liberarsi di questo cileno ingombrante e firma un decreto di espulsione. Ma non riuscirà a farlo partire, con gli agenti incaricati della scorta, sopraffatti alla stazione Termini da una folla di scrittori e artisti: nei tumulti rimangono coinvolti Guttuso e Levi, Moravia e la moglie Elsa Morante che non esita a «colpire col suo ombrellino di seta la testa di un poliziotto». Finirà all’italiana, col ritiro di quel provvedimento vigliacchetto da parte di un ministero preoccupato che Neruda se ne stesse buono, lontano dai riflettori. L’unione tra l’ipocrisia democristiana e la solidarietà comunista gli regalerà i sei mesi vissuti a Capri, quel «tempo memorabile», dove potrà vivere a pieno l’amore con la nuova compagna Matilde Urrutia e portare a termine «un libro d’amore appassionato e doloroso, pubblicato poi a Napoli, anonimo, Los versos del capitán . Anonimo per rispetto alla moglie, Delia del Carril, da cui si stava separando, tirato in cinquanta rarissimi esemplari, grazie a una colletta: cinquemila lire offerte da quarantaquattro intellettuali comunisti, da Guttuso a Giorgio Napolitano, da Maurizio Valenzi al pittore Paolo Ricci, ad Antonello Trombadori.
Il «tour» italiano di Pablo Neruda, la sua scoperta di un Paese «che mi sembrava semplicemente favoloso» non possono che essere il punto di partenza delle celebrazioni, volute dall’ambasciata del Cile e sostenute da un prestigioso comitato scientifico, per il centenario della nascita del poeta, avvenuta a Parral nella regione meridionale del Cile, «terra di ghiacciai e di vulcani» il 12 luglio 1904. Saranno sedici le città che offriranno un omaggio, dalla proiezione di video e documentari, alla presentazione dei libri, a recital di poesia a teatro. Il Corriere della Sera ha appena pubblicato nella sua collana «Poesia» una antologia dedicata al poeta cileno, mentre l’editore Passigli di Firenze è impegnato nella proposta dell’intera opera, in trentaquattro volumi.
Un posto di rilievo in questo anno dedicato a Neruda spetta a Roma che al poeta «dell’amore e della civiltà» - ha ricordato l’assessore capitolino alla Cultura Gianni Borgna - dedicherà una «maratona poetica» dal 14 settembre al 16 ottobre e una mostra ispirata all’autobiografia Confesso che ho vissuto . Ma il centenario di Neruda potrà regalare qualcosa di più di una pur appassionata e ricca serie di appuntamenti: la riflessione su quel biennio di esule in una Italia di un uomo che sarebbe diventato un Premio Nobel solo vent’anni dopo. In una Italia squassata dal conflitto appena concluso, oppressa dalle diffidenze della Guerra fredda, eppure colma di slanci di entusiasmo e di speranza.

cosa era accaduto prima

Corriere della Sera 6.4.04
IL CASO 7 APRILE / A 25 anni dalla maxi-retata che lo portò in carcere con Toni Negri e Franco Piperno, a colloquio con l’ex leader di Autonomia operaia
«I giudici avevano ragione, teorizzavamo la lotta armata»
Scalzone: Calogero sbagliò a pensare a una cupola del terrorismo. Ma un tumulto sociale spinse una forte minoranza a una sorta di guerra civile
di Giovanni Bianconi


PARIGI - «Eh già, venticinque anni... Le mie nozze d’argento con l’inizio della morte civile», dice tirando il fumo dell’ennesima sigaretta. Ma «morte civile» è un’espressione stonata in bocca a Oreste Scalzone, che in questo quarto di secolo ha continuato a parlare, scrivere e inveire. Meglio dire «le ultime ore di libertà vissute nel suo Paese», visto che allora cominciò un periodo di galera e di latitanza che dura ancora oggi, mentre è in prima fila nella battaglia contro l’estradizione del suo amico Cesare Battisti. Coincidenza curiosa: l’udienza della Corte d’appello di Parigi per decidere il destino dell’ergastolano italiano rifugiato in Francia è convocata proprio per domani, 7 aprile, data simbolo per la storia giudiziaria e politica d’Italia; quel giorno del 1979 scattò la maxi-retata contro i capi dell’Autonomia operaia accusati di associazione sovversiva, banda armata e - alcuni - di essere i veri capi delle Brigate rosse. Tra loro i principali leader del disciolto gruppo di Potere operaio: Toni Negri, Franco Piperno, Oreste Scalzone, Emilio Vesce.
Scalzone venne arrestato a Roma, nella sede della rivista Metropoli : «Dovevo scrivere una lettera sull’amnistia e un reportage sui funerali bolognesi di Barbara Azzaroni, una compagna del '68 passata a Prima Linea, uccisa in uno scontro a fuoco». Non scrisse niente perché la sera era già a Regina Coeli: «Cominciò il giro delle carceri, da Roma a Padova, poi Rebibbia, gli "speciali" di Cuneo e Palmi, Termini Imerese, poi ancora Rebibbia e Regina Coeli».
Davanti al pubblico ministero di Padova che coordinava l’inchiesta, Pietro Calogero, Scalzone cominciò a difendersi ponendo lui le domande: «Né rifiuto del giudice né difesa tecnica di fronte a chi ti accusa per quello che sei e non per ciò che hai fatto: io posso aver fatto questo, questo e questo, lei che cosa sceglie? Dopodiché tocca a lei trovare le prove, non a me dimostrare che non è vero». Allora il rivoluzionario sfidava il suo «inquisitore»; oggi, 25 anni dopo, rilegge i fatti così: «Calogero e gli altri hanno sbagliato per eccesso, ma anche per difetto. Il complotto, la cupola del terrorismo che tira le fila di tutte le sigle con Toni Negri nella parte del Grande Vecchio era una fantasma dietrologico, e dunque un eccesso. Ma l’esistenza di un tumulto sociale che noi tentavamo di organizzare, la teorizzazione della lotta armata anche se diversa da quella praticata dalle Br, compresi reati come rapine e gambizzazioni, erano tutte cose vere. Forse più diffuse e capaci di diffondersi di quanto immaginavano i magistrati». Nell’inchiesta «7 aprile», insomma, c’era del vero almeno sul piano storico, poiché esisteva «un vasto terreno di illegalità e militarizzazione che ha spinto una forte minoranza a una sorta di guerra civile a bassa intensità, ed era logico che lo Stato la contrastasse».
Il problema è - secondo il rivoluzionario di allora - che le prove portate dai magistrati (non solo a Padova, ma anche a Roma e Milano) non corrispondevano ai fatti come s’erano svolti o si potevano provare: «"Nego l’addebito ma non me ne sento diffamato" dissi allora e confermo oggi. Sono responsabile di altre azioni della stessa natura». Sarebbe a dire? «Partecipai alla prima rapina in banca nel ’72, forzandomi a non pensare che cosa ne avrebbero detto gli altri dirigenti del gruppo; lo feci perché i soldi per la rivoluzione non potevano arrivare dai salari degli operai ma andavano presi dov’erano, e per contrastare l’attrazione fatale esercitata su tanti compagni dalla clandestinità. Entrai io con un compagno, armato di pistola. Negli anni successivi partecipai altre due o tre volte. E se pure ho avuto la fortuna di non dover sparare a qualcuno, mi sento la corresponsabilità diretta soprattutto di alcuni ferimenti firmati con sigle diverse, tra il ’74 e il ’76. Per esempio un’azione sul piazzale della Marelli contro il responsabile delle guardie; il giorno dopo ci fu lo sciopero ma noi eravamo lì a dire "né una lacrima né un minuto di salario per il capo degli sbirri padronali"».
Altri tempi, in cui c’erano pure i delitti firmati dalle Br. Ma Scalzone - risulta dalle stesse inchieste giudiziarie - stava su un’altra linea: «Eravamo contro l’attacco al cuore dello Stato perché sostenevamo che lo Stato non ha cuore. Era una questione teorica, non morale: se il tiranno non è una persona ma un sistema, l’omicidio politico è oltretutto inutile. Quindi non aver ucciso non è solo fortuna, ma questo non mi attribuisce alcuna legittimità etica superiore rispetto a chi abbia ucciso. Anzi, sono consapevole che con parole e scritti posso aver evitato dei morti, ma anche averne provocati degli altri».
Mentre la giustizia italiana faceva il suo corso, il leader di Autonomia operaia scarcerato per motivi di salute («giunsi a pesare 39 chili, mi vennero un’ischemia e l’epatite») scappò all’estero: «Stava arrivando una nuova ondata di pentiti, mandai un messaggio ai compagni in prigione e organizzai l’espatrio. In Corsica mi portò Gian Maria Volonté con la sua barca. Dalla Francia, che allora estradava in un amen, giunsi in Danimarca attraverso il Belgio e l’Olanda. Solo dopo la vittoria di Mitterrand arrivai a Parigi, l’11 novembre 1981». Da allora Scalzone è un abitante della capitale francese: «A 57 anni è la città in cui ho vissuto di più nella mia vita». Qui ha subìto un arresto di 40 giorni prima che venisse negata l’estradizione e ha avuto notizia delle condanne italiane - quelle definitive arrivano a circa 12 anni di carcere - che cadranno in prescrizione alla fine di settembre. Allora potrebbe tornare in Italia da uomo libero, «ma l’esilio non mi pesa, anzi mi ha dato più di quanto mi ha tolto. E poi è proprio il rientro da libero che sono disposto a giocarmi offrendomi come ostaggio volontario».
Ora il discorso ritorna sui latitanti «rifugiati» che la Francia potrebbe estradare: «Vent’anni fa hanno moltiplicato condanne e condannati perché c’era un "crimine collettivo continuato" che metteva in pericolo la democrazia; oggi costruiscono l’identikit di un assassino trincerandosi dietro il comprensibile mancato perdono delle vittime e dei loro familiari». Sta parlando di Battisti e del nuovo «7 aprile» che vi aspetta?
«Sì. E anche dell’alibi che si sono fatti per non parlare più di amnistia. Ma il perdono serve solo per la grazia, non per la soluzione politica che spetta al Parlamento. Comunque il caso Battisti riguarda la Francia e la parola data da questo Stato, la cosiddetta dottrina Mitterrand che nemmeno la destra francese di Chirac aveva sconfessato fino all’estradizione di Paolo Persichetti. Mitterrand voleva evitare che qualche centinaio di persone gettate nella clandestinità riprendessero la lotta armata qui o da qui; rinnegarla oggi significa dire che sbagliò chi allora decise di posare le armi».

l'immagine interna

una intervista di CARLO PATRIGNANI al prof. Garroni

La chiave per comprendere come funzionano la mente umana ed il pensiero umano, è l'immagine interna, largamente indeterminata, punto di contatto con l'esterno, organizzatrice di tutti i dati che ricaviamo dalla nostra esperienza di vita: visivi, uditivi, tattili, gustativi, olfattivi ma soprattutto sensibili, quelli che acquisiamo con la sensibilità non solo fisica. È la suggestiva tesi che il 78enne filofoso kantiano, Emilio Garroni, già ordinario, dal 1964, di Estetica alla Facoltà di Lettere e Filosofia presso l'Università "La Sapienza" di Roma, oggi in pensione, espone nel libro "Immagine interna e figura" che a breve darà alle stampe ed al quale sta lavorando da un paio d'anni. Una novità importante, anche se non assoluta. Se infatti si differenzia da una cultura che ha escluso l'immagine ("tempo perso", rispose Freud ad Abraham che lo invitava a prenderla in considerazione) da ogni ricerca, è proprio sulle immagini e la loro formazione che si fonda l'Analisi Collettiva di Massimo Fagioli. Le immagini, dunque, per Garroni, sono tanta parte del nostro essere che si caratterizza non per la stazione eretta né per il linguaggio articolato, "ma per l'immagine interna, che è profondamente diversa dalla figura: quest'ultima - ci spiega Garroni - è chiara, nitida, ha i contorni definiti, mentre l'altra è largamente indeterminata e deriva dal biologico". Non è nè anima né spirito. "Anche gli animali hanno un'immagine interna - osserva poi Garroni - che segnala pericoli, fa riconoscere le cose, fa scovare la preda o fa ritrovare la tana, secondo movimenti preordinati, prefissati". E, sovente, li porta a fare errori, "anche se - avverte il filosofo - statisticamente non sono ostativi alla loro sopravvivenza". Gli uccelli rapaci si lanciano in picchiata a terra se vedono una macchia chiara muoversi: la riconoscono come preda ma in realtà è un fazzoletto. Oppure i fenicotteri che vanno sempre a bere in un posto e muoiono inghiottiti dal petrolio. "Noi invece non sbagliamo in virtù della nostra immagine interna che ci permette di distinguere immediatamente le cose sulla base di interpretazioni di solito corrette: solo se interpretiamo male la realtà sbagliamo e in quel caso - chiarisce Garroni - è perché ci portiamo dentro, dai primi anni di vita, immagini distorte che riaffiorano in determinate situazioni". L'immagine interna largamente indeterminata è un mix di immagini formatesi nei primi anni di vita e di quanto ci viene dal contatto col mondo esterno, dal rapporto con gli altri, dalla cultura. "Accanto a quest'immagine interna che c'è da supporre si formi alla nascita, ben prima della coscienza e del principio di realtà, c'è la figura definita, determinata, visibile: essa è - annota Garroni - la realizzazione esterna di come parliamo, scriviamo, ci muoviamo". Ed allora il pensiero, il linguaggio derivano sempre dall'immagine interna che non è spirito né anima. "Non si può non pensare che il pensiero - afferma Garroni - come il linguaggio derivino proprio dall'immagine interna: o meglio, il linguaggio presuppone l'immagine interna e viceversa, c'è una correlazione tra immagine interna e linguaggio". Immagini dunque come pensiero e linguaggio. "Dobbiamo studiare l'immagine interna per comprendere come funziona o non funziona la mente ed il pensiero - conclude Garroni. L'animale quando aggredisce lo fa per la sopravvivenza, per la difesa: non ha consapevolezza dell'altro e non fa quindi del male per il piacere di farlo come come capita invece, ma nei casi patologici, all'uomo, il quale ha consapevolezza di quanto fa".