lunedì 11 aprile 2005

depressione

Ansa.it
Un italiano su dieci è affetto dalla depressione
Un altro 30% ne è colpito ma non se ne rende conto

(ANSA) - PISA, 10 APR - Il 10% degli italiani è affetto da depressione, un altro 30% ne è colpito ma non se ne rende conto. Campanelli d'allarme, la strana stanchezza al risveglio, apatia, mancanza di energie e voglia di fare, insonnia o sonnolenza, appetito immotivato o disgusto per il cibo. Se c'è uno di tali sintomi, è consigliabile parlarne subito con il proprio medico. L'invito è venuto dal Convegno Internazionale sulla Neuroplasticità Cerebrale svoltosi al Cnr di Pisa.
copyright @ 2005 ANSA

archeologia
6800 anni fa nell'attuale Giordania l'alfabeto più antico nella storia dell'uomo?

Corriere della Sera 11.4.05
Scoperti da Edoardo Borzatti tra le sabbie di Isma, nella Giordania meridionale, ideogrammi che potrebbero risalire al 4.800 a.C.
L’alfabeto più antico nel deserto di Lawrence

WADI RAM (Giordania) - Ogni primavera e autunno, per trent’anni, aveva notato quegli strani segni incisi sulle rocce. Ma la sua attenzione era sempre rimasta concentrata sulle scene di guerra e di caccia, sulle pitture più complesse, le raffigurazioni di buoi in corsa, di cervi dalle corna affusolate, il ripetersi delle raffigurazioni di divinità antropomorfe che soddisfacevano la sua sensibilità di antropologo. Soltanto negli ultimi tempi Edoardo Borzatti von Lowenstern («la mia famiglia è metà fiorentina e metà viennese» ripete meccanicamente ai visitatori italiani per spiegare il suo nome) ha scelto di dedicarsi allo studio dei riquadri, cerchi, semicerchi disegnati con variazioni e aggiunte ricorrenti scoperti nelle sue esplorazioni. «In circa 3.000 chilometri quadrati di deserto ho individuato 240 siti con oltre 1.600 ideogrammi di diverse tipologie» spiega con il puntiglio dello scienziato. E ora si sente abbastanza rassicurato da azzardare una prima, rivoluzionaria ipotesi di lavoro. «Ormai ho 70 anni. Gran parte della mia carriera si è concentrata su queste zone. Penso di poter dire con una certa sicurezza di aver trovato le tracce del primo alfabeto mai comparso sulla Terra. Un sistema articolato di ideogrammi che precede quello cuneiforme degli assiri, i geroglifici egiziani e persino il cosiddetto tamudico, l’alfabeto che sino a ora gran parte degli addetti ai lavori considerava come la madre di tutte le lingue» dice nella sua casa-laboratorio situata nel villaggio di Addise, posto in una delle vallate secondarie che compongono il gigantesco comprensorio di Wadi Ram, nel deserto di Isma. La passione di tutta una vita. Borzatti visitò per la prima volta nel 1974 queste distese di finissima sabbia circondate da pareti rocciose rosse, nere e gialle. «Un posto incantato, ricorda immediatamente la divinità. Mi convinsi subito che era troppo suggestivo per non aver attirato a sé le popolazioni più antiche» dice.
Luogo di passaggio per le carovane che dal bacino mediterraneo trafficavano con l’Oriente, terreno di gioco per i beduini, provincia nabatea appena sfiorata dalle legioni romane. E luogo diventato celebre per gli scontri tra Lawrence d’Arabia e le truppe turche nella Prima guerra mondiale.
Lui se ne innamorò a tal punto che, ancor prima di essere diventato docente di Paleontologia umana all’Università di Firenze, vi fece costruire un’abitazione da dove lanciare le sue campagne esplorative. «Intendiamoci. Tutto a spese mie. Ho usato il mio stipendio per finanziarmi. Così sono più libero, non devo nulla a nessuno» dice fiero, ma anche con un’ombra di critica al ministero dei Beni culturali e all’ambasciata italiana ad Amman, che accusa di averlo «quasi sempre ignorato». I suoi completi di lino bianco, con tanto di cappello a larghe tese in tinta, foulard azzurro al collo, cinturone e stivaloni in pelle al ginocchio, l’hanno reso una leggenda tra i capi beduini della zona, a cui lui indica i siti archeologicamente più interessanti dove portare i turisti in cambio della massima libertà di movimento.
Ultimamente gli è stata offerta dal governo giordano la direzione culturale del museo archeologico che sta sorgendo nell’area con i finanziamenti della Banca mondiale.
Davvero qui nacque la prima lingua scritta del mondo? «I conti sono presto fatti. L’assiro compare nel 3.500 avanti Cristo e si estingue due millenni e mezzo dopo. I geroglifici più antichi non vanno oltre il 3.200 avanti Cristo e spariscono con la fine delle ultime dinastie faraoniche. Da quello che ho potuto capire, invece gli ideogrammi che ho individuato qui nel deserto di Isma risalgono al 4.800 avanti Cristo, sono dunque almeno mille anni più vecchi del tamudico primitivo scoperto nelle zone comprese tra la Mezza Luna Fertile e il Sahara. E rappresentano uno dei sistemi alfabetici più longevi. Verranno infatti soppiantati in questa regione con la diffusione dell’arabo nel sesto secolo dopo Cristo» risponde Borzatti.
Una teoria guardata con bonario sospetto dagli studiosi. Borzatti è visto come un «eccentrico» da tanti tra i suoi colleghi. «Certo, le sue ipotesi sono stimolanti. Ma vanno suffragate dai fatti. Prima di tutto non convince la datazione tanto antica che lui dà alle sue scoperte. Occorrono altre verifiche più scientifiche. In secondo luogo, come può dire con sicurezza che si tratti di un vero alfabeto?
Non va dimenticato che lo studio comparato delle incisioni rupestri trovate nei diversi angoli della Terra, senza alcun contatto tra le differenti civiltà, ha rivelato che i nostri antenati tendevano a esprimersi per simboli e disegni astratti all’apparenza molto simili. Ciò non dimostra affatto che esistesse un unico alfabeto universale, ma piuttosto che la mente dell’uomo lavora e si esprime in modo omogeneo indipendentemente dalle circostanze» afferma tra gli altri Uzi Avner, archeologo israeliano specializzato sulle antiche culture del deserto.
Borzatti non si lascia scoraggiare. Anzi, negli ultimi tempi le sue teorie sono rafforzate dalla scoperta di quella che lui definisce «una mappa preistorica» tra i resti di una frana ai piedi della montagna di Jebel Hamud. «Riporta le località di 149 villaggi. La cultura agricola stanziale favorisce il diffondersi dell’alfabeto. Oltre 5.000 anni fa questa mappa serviva ai guerrieri beduini per verificare i pagamenti delle tasse delle località sotto la loro protezione contro le razzie dei predoni» dice mostrando una lastra in pietra nera di circa cinque metri quadrati dove sono incise le vallate e una lunga serie di piccole cavità.
E contro gli scettici che la ritengono un «semplice luogo rituale come se ne trovano in tutto il mondo»? Borzatti non si scompone: «Ho seguito pedissequamente le indicazioni della mappa. E ho trovato i resti di ben 136 dei 149 villaggi riportati».
L’ARCHEOLOGO Dalla Terra del Fuoco al Sahara
Una vita da giramondo, con una sola passione: gli scavi preistorici. Dopo essersi laureato a Pisa in Scienze geologiche, Edoardo Borzatti von Lowenstern diventa prima assistente e poi docente - nel 1980 - di Paleontologia umana all’Università di Firenze. Presidente del Centro studi per l’ecologia del Quaternario dal 1979 al 1990, ha effettuato oltre quaranta spedizioni scientifiche all’estero. Dalla Terra del Fuoco (dove scopre sei specie di spugne) all’Isola di Luzon, nelle Filippine, fino alle missioni in Afghanistan e nel Sahara algerino: in più di trent’anni di carriera ha condotto ricerche etnologiche, paleontologiche e paleoecologiche. L’inizio delle sue ricerche in Giordania risale al 1974, qui i suoi studi si sono focalizzati soprattutto nell’area desertica del Wadi Ram. Situato nella Giordania meridionale, il Wadi Ram è celebre per le montagne di pietra arenaria che sorgono dalle vaste estensioni di sabbia. Al centro della valle c’è un accampamento delle truppe beduine cammellate, che formano la leggendaria Desert Police. A Wadi Ram, Lawrence d'Arabia pose il suo quartier generale prima della conquista di Aqaba.

Munch

Corriere della Sera 11.4.05
PICCOLO ELISEO
Una performance in concomitanza con la mostra allestita al Vittoriano
«Munch, un urlo psicoanalitico»
Gianluca Bottoni mette in scena e interpreta i Diari del pittore


In concomitanza con la mostra «Munch 1863-1944», attualmente al Complesso del Vittoriano, stasera andrà in scena al Teatro Piccolo Eliseo (mercoledì alla Sala Basaglia di Santa Maria della Pietà) lo spettacolo «I diari di Munch»: performance ideata e diretta da Gianluca Bottoni, nata da un progetto curato da Tiziana Biolghini e Maurizio Bartolocci, con il contributo di Psichiatria Democratica. In palcoscenico, lo stesso Bottoni (nel ruolo di Munch) con Tiziana Lo Conte e Fabio Crosara. Come recita il sottotitolo della messinscena, «figurazione drammatica e solitaria di stati radiologici ed emozionali dedicata a Edvard Munch», si tratta di riflessioni psicoanalitiche sul percorso artistico, tratte dai diari e dalle lettere del celebre artista.
Spiega Bottoni: «La nostra ricerca parte dal 1909, anno in cui Munch esce da una clinica per esaurimento nervoso, dopo un anno di degenza. Vi era stato ricoverato, già ultraquarantenne, in seguito a una devastante delusione amorosa nei confronti di una donna, una delle più importanti della sua vita».
Da quel 1909, lo spettacolo parte a ritroso ricostruendo, sin dall’infanzia, il vissuto del protagonista attraverso l’elaborazione di esperienze (fortemente drammatiche, dovute a precoci lutti familiari) che ne hanno segnato il percorso umano e anche artistico.
Sottolinea Bottoni: «Partiamo dal rapporto difficile con il padre, uomo molto duro, per raccontare poi la morbosa affettuosità che Munch nutriva nei riguardi della madre, che però, purtroppo, morì giovane. Quindi la perdita prematura anche della sorella. Tutti eventi che disegnano, anche nei suoi numerosi scritti, uno spazio mentale allagato dall’angoscia. Ne esce, come segno scenico, una memoria che si dispiega a ritroso nel mondo del pittore, dove vige la "proibizione di essere"».
Lo spettacolo è stato preceduto da un laboratorio che Bottoni e i suoi attori hanno realizzato insieme ad alcuni disabili mentali gravi. Conclude: «Un laboratorio di "arte-terapia", dove attraverso disegni, l’uso del colore, la costruzione dell’immagine, i malati stessi hanno espresso soggetti che sono ricorrenti nell’opera di Munch».

PICCOLO ELISEO, via Nazionale 183, stasera ore 21,
ingresso libero, tel. 06.4882114

Cina, la protesta contro il revisionismo giapponese

L'Unità 11 Aprile 2005
Cina-Giappone, la Protesta Dilaga
Lina Tamburrino
Dietro i cortei lo scontro sul seggio Onu

«I Cinesi? Non avevo nessun problema a ucciderli perché non li consideravo degli esseri umani»: sono le parole di un veterano giapponese che Ian Buruma ha riportato nel suo libro «Il prezzo della colpa» (pubblicato anche in Italia nel 1994) nel quale ha ricostruito le ragioni dell'incapacità del Giappone di fare i conti con il proprio passato di Paese aggressore.
Tokyo sa bene che il suo testardo «negazionismo» continua e continuerà a essere una ombra densa sulle relazioni con il potente dirimpettaio, la Cina.
Forse sarà necessaria l'uscita di scena del sistema imperiale perché il Giappone accetti di riconoscere l'atrocità dei suoi atti e di smetterla di negarli perché ritenuti una forma di ossequio alla figura sacrale (allora) dell'imperatore. In attesa che questo avvenga, agirà sempre tra Tokyo e Pechino una sfiducia reciproca fatta di simbolismi ancestrali e di arroganza nazionalista che può essere giocata a seconda delle convenienze del momento.
E dunque gli studenti che oggi affollano di nuovo le strade delle grandi città cinesi, da Pechino al nord a Shenzhen e Canton al sud, che cosa chiedono veramente? Ogni ricordo che riporti alla Tiananmen del 1989 non è molto appropriato: allora pesarono un retroterra di forte disagio interno e la morte di Hu Yaobang. Oggi invece si fa sentire un problema molto preciso, di natura per cosi dire esterna: qual è il risvolto di egemonia da assegnare e da far riconoscere alla Cina, da tutti al mondo considerata una non lontana superpotenza economica? C'è oggi un nazionalismo cinese diffuso che si nutre non del ricordo dei passati splendori imperiali, ma dell'orgoglio per la ricchezza materiale che si è stati capaci di costruire in questi anni. Ma questa ricchezza è nata grazie a un singolare «Piano Marshall» fatto di investimenti arrivati da ogni parte del mondo, paesi asiatici in primo luogo, Giappone compreso, che ha dislocato in territorio cinese parte importante dell'attività produttiva dell'industria automobilistica, dalla Toyota alla Nissan alla Honda. Perciò il nazionalismo di Pechino non può non fare i conti con gli interessi di quei paesi stranieri che hanno dirottato risorse verso le sponde cinesi.
Non sembra certo ipotizzabile, almeno per il momento, un «ritiro» giapponese perché gli studenti stanno protestando per le strade di Pechino. Ma intanto le autorità governative si sono affrettate a chiedere scusa alla controparte giapponese. Per scongiurare ritorsioni per le bandiere bruciate del Sol Levante.
Questo economico è solo un aspetto. Ce ne è un secondo, molto più corposo e complicato, di natura politica, anzi geopolitica: chi metterà l'impronta sull'Asia nei prossimi decenni, terra ormai di forti protagonismi emergenti? Il Giappone ha contato negli anni passati per la sua grandezza economica e perché avamposto della potenza americana. Ora punta, pare, a entrare a fare parte del ristretto numero dei membri permanenti del consiglio di sicurezza dell'Onu. La Cina, che è uno dei cinque componenti fissi, non è affatto d'accordo. Non lo è il governo, non lo sono i 20 milioni di utenti di Internet che hanno firmato on line, non lo sono gli studenti che stanno manifestando per le strade. L'ingresso all'Onu viene visto come una assegnazione al Giappone di un rango superiore, che per di più potrebbe squilibrare i rapporti di forza nell'area, perché Tokyo, si ritiene a Pechino, starebbe sempre dalla parte degli Usa. La Cina, in sostanza, perderebbe una situazione di monopolio, a tutto vantaggio di un paese che Pechino ritiene tuttora inaffidabile, avendone peraltro appena ricevuto una conferma. Per la Cina, la pretesa, o aspirazione, giapponese, a conquistare finalmente una voce influente negli affari internazionali, viene vista come una umiliazione. Come un nuovo atto di aggressione. Come la pretesa di instaurare un duopolio che renderebbe più difficile gestire tutte le dinamiche future della geopolitica asiatica.
E dunque il risentimento giovanile e studentesco di questi giorni può anche ridursi e rientrare, ma manterrà un andamento per cosi dire «carsico» pronto a tornare alla luce appena se ne presenterà l'occasione. Non dimentichiamo che in questo momento la Cina si sente non sufficientemente valutata e apprezzata sullo scacchiere internazionale. Il persistente rifiuto- degli Usa e di conseguenza anche della EU- a cancellare l'embargo sul trasferimento di armi e di tecnologia militare viene vissuto e denunciato come un atto «di guerra fredda» nonostante la guerra fredda sia finita da anni.

L'Unità 11 Aprile 2005
Cina, cresce la protesta contro i libri di Tokyo
Cortei nel sud. Pechino: «Facciamo di tutto per evitare incidenti. Ma è colpa del Giappone»
Marina Mastroluca

La protesta la portano scritta addosso, sulle t-shirt esibite come bandiere. «Boicottiamo i prodotti giapponesi», «Fine delle relazioni con il Giappone», «No al revisionismo storico». Si allarga al sud della Cina l’ondata di manifestazioni contro il governo di Tokyo, che nei giorni scorsi ha dato il via libera a un libro di testo di storia dalla memoria corta: nessun accenno ai massacri, alle atrocità commesse dalle truppe nipponiche che invasero la Cina, sterminando centinaia di migliaia di cinesi nel secolo scorso. Le rimostranze del governo di Pechino non hanno avuto grande eco a Tokyo, almeno non quanto suscitano preoccupazione in questi giorni le marce di studenti che sabato hanno bersagliato di sassi e bottiglie l’ambasciata e la residenza diplomatica giapponese nella capitale e ieri hanno avuto una replica a Canton e Shenzhen, dove ventimila giovani hanno sfilato e ci sono stati nuovi atti di vandalismo contro simboli del Sol Levante.
Il governo giapponese anche ieri ha convocato l’ambasciatore cinese a Tokyo chiedendo di garantire la sicurezza dei propri interessi in Cina e ha sollecitato scuse e il risarcimento dei danni. Pechino, che ha invitato i manifestanti alla calma ma non sembra aver fatto molto per dissuaderli dalla protesta, ha assicurato che sarà fatto il possibile per evitare episodi di violenza ma ha accusato il Giappone di essere il vero responsabile del deterioramento delle relazioni tra i due paesi. «È chiaro che la Cina non è responsabile dello stato attuale delle relazioni sino-giapponesi - ha dichiarato un portavoce del ministero cinese degli affari esteri con un comunicato diffuso via internet -. La parte giapponese deve seriamente e correttamente trattare le principali questioni che si riferiscono ai sentimenti del popolo cinese come la storia dell'invasione della Cina, fare di più per promuovere la fiducia reciproca e mantenere le relazioni bilaterali, invece del contrario».
Una sorta di semaforo verde alle proteste di piazza. Ieri a Shenzhen diecimila giovani hanno sfilato per le strade protestando contro il revisionismo giapponese e la pretesa di Tokyo di ottenere un seggio permanente all’Onu. Ne ha fatto le spese un supermercato giapponese, bersagliato con bottiglie e vernice. A Shangai due studenti giapponesi sono stati aggrediti in ristorante e feriti leggermente, mentre a Canton si radunavano altri diecimila manifestanti, invocando il boicottaggio dei marchi giapponesi e dando fuoco alle bandiere del Sol Levante. Il corteo ha anche tentato di sfondare uno sbarramento di polizia posto davanti al consolato. Qualche tafferuglio, ma poca cosa, la manifestazione si è dispersa dopo quattro ore mentre la polizia dagli altoparlanti invitava i ragazzi a sciogliersi. «Comprendiamo perfettamente il vostro patriottismo - ripetevano gli agenti - ma voi dovete rispettare l’ordine sociale e andarvene immediatamente».
L’attitudine moderata delle autorità cinesi ha provocato la reazione risentita dell’ambasciata nipponica a Pechino. «Li hanno lasciati fare, non li hanno fermati né arrestati», ha detto Ide Keiji, portavoce della sede diplomatica, che ieri era protetta da centinaia di agenti in assetto antisommossa malgrado non ci fosse nessuna manifestazione.
Il governo di Pechino, mai tenero con le proteste di piazza, in effetti ha più che tollerato l’ondata di risentimento anti-giapponese degli ultimi giorni. Ma il via libera di fatto alle manifestazioni, è stato accompagnato da un silenzio pressoché assoluto sui media: delle proteste a Pechino e in altre città cinesi non c’era traccia ieri su giornali, canali tv e siti web, segno probabile più che di imbarazzo della volontà di mantenere sotto controllo la situazione.
Nei giorni scorsi il governo di Pechino - seguita da Seul - aveva protestato con Tokyo contro l’adozione dei libri di testo che tacevano sulla brutalità dell’imperialismo nipponico ed in particolare sul massacro di Nanchino, dove secondo le ricostruzioni cinesi nel ‘37 vennero orrendamente trucidate almeno 300.000 persone, tra civili e militari. Il governo giapponese ha replicato accusando la Cina di dispensare nazionalismo nelle proprie scuole e di aver avuto una reazione «emotiva e non razionale».

sinistra
Bertinotti - Monti
e gli altri

La Stampa 11.4.05
IL LEADER DI RIFONDAZIONE E I PROGRAMMI ECONOMICI DI PRODI
Bertinotti: Monti? Un liberista che però vede i limiti del mercato


ROMA. «Monti? Un raffinato neo-liberista». Cominciano così i distinguo e le prese di distanza di Bertinotti dai suoi possibili compagni di cordata nel centrosinistra.
Il leader di Rifondazione comunista parla nel giorno in cui il suo partito, dopo il congresso di Venezia e il varo della segreteria, elegge i suoi organismi di governo: una direzione, e un Comitato esecutivo.
Le minoranze interne fremono. Gli alleati di centrosinistra si smarcano. Lui, sia pur col garbo dell’uomo, lancia fendenti a chi cerca di mettere zizzania tra lui e l’Unione (D’Alema, Monti), senza tuttavia dimenticare che l’obiettivo è quello di far cadere Berlusconi.
E allora giù, di clava e di fioretto.
A cominciare dall’ex commissario europeo Mario Monti che, in un suo intervento accademico, aveva ventilato l’ipotesi di una collisione tra un governo (di centrosinistra) che creda in una economia di mercato e un soggetto della sua maggioranza (come Rifondazione) che si collochi in aperto contrasto con questa visione. Secondo alcuni Prodi, che assisteva al discorso di Monti, avrebbe dato col capo un segno di assenso.
«Io non so come voi collocate uno come Mario Monti nel panorama della classe dirigente - ha detto il leader del Prc - Mi pare difficile non annoverarlo tra le parti più colte e intelligenti della storia europea».
Quindi, dopo aver citato la frase critica verso di lui, ha commentato: «Monti pone una questione cruciale. Vorrei che nessuno qui accennasse al fatto che Prodi gli ha dato ragione perché questo apre un altro problema. Il discorso di Monti - ha spiegato Bertinotti - riguarda l'essenziale cioè se i meccanismi di mercato sono in grado di costituire un elemento di autoregolamentazione della società. E Monti è disposto a concedere che c'è un problema distributivo anche ai fini dell'efficienza economica, e ritiene che possa essere perseguito solo attraverso la fiscalità, fuori dal conflitto capitale-lavoro, una fiscalità che persegue l'elemento redistributivo reso impossibile dalla competitività medesima». Ma questo è il punto per Bertinotti: l'ex Commissario Europeo ha «una concezione neo liberista che si scontra con una concezione che fuoriesce da questa in nome di un'alternativa di modello».
«Monti - ha concluso il leader comunista - si riferisce ad un'area politico culturale che sta mettendo in discussione proprio questo assunto e vede che i meccanismi di mercato producono precarietà e distruggono il potere di acquisto delle masse».
Ma ce n’è anche per D’Alema. «Nichi Vendola ha vinto - aveva detto il presidente dei ds - perché è stato percepito come leader del centrosinistra, non come candidato di Rifondazione, che infatti ha ottenuto il 5% dei voti».
«Con D’Alema - ha replicato Bertinotti - la polemica è nettissima, la sua interpretazione è totalmente fuorviante e strumentale. La vittoria di Nichi Vendola in Puglia è, come dice esattamente D'Alema, la vittoria di tutta l'Unione. Però D'Alema omette di dire che il fatto nuovo, gigantesco, è che ogni componente dell'Unione, compresa Rifondazione Comunista e le forze radicali, possono guidare questo schieramento e dunque non c'è più l'egemonia di qualcuno. Questo è il grande fatto nuovo».
Poi però il leader di Rifondazione non ha mancato di sottolineare come le dispute a sinistra non debbano far perdere di vista che l’obiettivo comune resta la caduta quanto prima del governo Berlusconi e della sua maggioranza: «Le elezioni Regionali hanno messo fine all'era berlusconiana ed è già cominciato il dopo Berlusconi - ha detto - Per questo io penso che non dobbiamo legarci ad una diatriba su quando si possono fare le elezioni anticipate».«Quello che è fondamentale rilevare - ha detto ancora Bertinotti - è che oggi il governo Berlusconi costituisce un ingombro ad affrontare i grandi problemi del Paese e dunque il problema va risolto».

Corriere della Sera 11.4.05
RIFONDAZIONE

ROMA - Fausto Bertinotti considera l'ex commissario europeo Mario Monti «un raffinato neoliberista» di cui non condivide la visione del mercato e con cui immagina di dover sostenere un confronto in futuro, visto che le sue posizioni sono apprezzate da Romano Prodi e dall'ala riformista del centrosinistra. Monti, aggiunge comunque il leader di Rifondazione comunista, va annoverato «tra le parti più colte e intelligenti della storia europea». Il presidente della Bocconi nei giorni scorsi ha osservato con una certa preoccupazione che un eventuale governo di centrosinistra abbia al proprio interno una «componente rilevante che rigetta il principio di maggiore concorrenza». E Bertinotti si riferisce a questo intervento quando obietta che il discorso di Monti «riguarda l'essenziale, cioè se i meccanismi di mercato siano in grado di costituire un elemento di autoregolamentazione della società».
Monti, a giudizio del leader di Rifondazione comunista, ammette che «c'è un problema distributivo anche ai fini dell'efficienza economica, e ritiene che possa essere perseguito solo attraverso la fiscalità, fuori dal conflitto capitale-lavoro, una fiscalità che persegue l'elemento redistributivo reso impossibile dalla competitività medesima».
Ma, questo è il punto cruciale per Bertinotti, l'ex commissario europeo ha «una concezione neoliberista che si scontra con una concezione che fuoriesce da questa in nome di un'alternativa di modello. Monti si riferisce a un'area politico-culturale che sta mettendo in discussione proprio questo assunto e vede che i meccanismi di mercato producono precarietà e distruggono il potere di acquisto delle masse».


Gazzetta del Sud 11.4.05
Rifondazione
Varati i nuovi organismi dirigenti, il segretario delinea la strategia

Bertinotti: spostare a sinistra l'asse dell'Unione
Corrado Sessa

ROMA – «Siamo impegnati a contribuire alla cacciata di Berlusconi. Ma il compito specifico, peculiare nostro è di caratterizzare un'alternativa di programma, e contemporaneamente impedire che la vittoria dell'Unione riporti un'ipotesi centrista nella coalizione, in nome di un malinteso senso di realtà». Così Fausto Bertinotti riassume la strategia di Rifondazione in questa fase politica: in sostanza, ribadisce il ruolo del suo partito come forza radicale che punta a condizionare lo schieramento del centrosinistra. Al comitato politico nazionale, che si è riunito per la prima volta dopo il congresso di Venezia, Bertinotti ha detto: «Dobbiamo porci il problema di come si sta nel processo di cambiamento, di come dalla fine del berlusconismo si arriva all'alternativa di governo ma, in prospettiva, di come si costruisce una alternativa di società». Secondo Bertinotti, «la sfida è aperta» con le forze della cosiddetta «sinistra moderata». Il leader del Prc parla due ore di fila di questi temi. Si rivolge a quella minoranza interna che ritiene che il partito alle elezioni regionali non sia andato bene, che sia «schiacciato sull'Ulivo». Lui replica che solo ora si apre la sfida su come «spostare a sinistra» l'asse della coalizione lavorando sul programma. «La sfida non è con il Pdci», puntualizza Bertinotti, che non ha mai nascosto la sua avversione verso il partito di Diliberto e Cossutta, «ma è tra noi e i riformisti e la prendiamo non per ambizione, ma perché portatrice del tempo che matura. Se usi l'ortodossia identitaria e alzi la bandiera della durezza puoi anche ottenere qualche successo congiunturale – ammette Bertinotti – ma questo ti rende estraneo ad un processo di cambiamento in corso in tutta Europa». Il leader del Prc vede «un successo delle forze riformiste moderate» e sulla performance elettorale del suo partito parla di «qualche distanza rispetto alle attese tra le Regionali e le Europee». Ma Bertinotti osserva che «il popolo della sinistra riconosce una vittoria» e Rifondazione «non deve sentirsi estranea a questo». Il comitato politico nazionale di Rifondazione ha varato i nuovi organismi dirigenti, dopo il congresso di Venezia. Alla segreteria si affiancano una direzione e un esecutivo. La direzione nazionale è stata eletta a scrutinio segreto dai 260 esponenti del comitato politico e ha ottenuto 132 sì, 2 no, 65 astenuti e 2 schede bianche. In questo organismo le minoranze interne, formate dalle quattro mozioni che si sono confrontate al congresso, sono rappresentate in base alla loro forza numerica, da 13 membri su 31 componenti. Alle riunioni della direzione non è prevista la presenza dei membri della segreteria, ma del solo segretario. L'esecutivo, che ha ottenuto a voto palese 140 sì, 88 no e un astenuto, è composto: dalla segreteria; dal tesoriere; dai capigruppo di Camera, Senato e Parlamento europeo; dal coordinatore dei giovani; dal coordinatore della segreteria; dai segretari delle cinque aree metropolitane (Milano, Torino, Roma, Napoli e Palermo) e infine da quattro rappresentanti della minoranza. Quattro e non cinque esponenti della minoranza perché gli aderenti alla quinta mozione, quella di Claudio Bellotti, hanno deciso, per protesta, di non entrare in questo organismo che è composto in totale di 43 membri.

Corriere della Sera 11.4.05
I timori della sinistra
Ravera: seduce la gente
. Salvi: userà il fisco
Monica Guerzoni

ROMA - L’allarme lo ha lanciato Valentino Parlato dalla prima pagina del Manifesto . Romano Prodi stia attento, l’anno che lo separa dalle Politiche è pericoloso, la strategia di far bollire Berlusconi nel suo brodo fino a cottura finale non convince e il tempo «può portare qualche buona sorpresa per il fronte avverso». Se Prodi, come sospetta Parlato, ha paura di governare, tenga a mente quella crudele massima di Mao: «Bastonare il cane che affoga». Ora che il re è nudo e che l’Unione si affaccia all’uscio di Palazzo Chigi, la sinistra più antiberlusconiana comincia ad aver paura. Il premier ha perso, ma non è vinto. La Cdl è in crisi profonda, ma il governo non cade. E chi ha combattuto l’uomo di Arcore fino a gridare al regime, sa bene che dal cilindro del Cavaliere un coniglio può ancora spuntare. Ognuno ha il suo timore segreto. La vendita di Mediaset, il taglio delle tasse, la carta Veronica o la carta Paperino...
Paragonare il premier a Donald Duck, il papero pasticcione perseguitato dalla sfortuna, può sembrare azzardato, ma la scrittrice Lidia Ravera non ha altri timori che un Berlusconi-Paperino, che invece di attaccare comunisti e poteri forti si rivolga agli italiani col cuore in mano. «Mi dispiace, sono stato sconfitto e ho bisogno del vostro aiuto... Ho sbagliato ma ho anche sofferto, non mi abbandonate...» o qualcosa del genere. Davvero il Berlusconi che punta tutto sul senso materno dell’elettrice ha più speranze di un premier che rilancia la promessa di ridurre le tasse? «Sarebbe una botta di furbizia mediatica, l’unico coniglio dal cappello che potrebbe prendere in contropiede Prodi - teme la Ravera -. La carta di Paperino è la sola che mi fa veramente paura».
Alessandro Curzi , ex direttore di Liberazione , il leader di Forza Italia non lo teme più. La crisi è irreversibile e l’ outing della moglie Veronica (che ha rivelato al Corriere l’intenzione di votare sì al referendum sulla fecondazione), «ha contribuito alla débâcle» politica e personale di Berlusconi. Potrebbe tentare il rimpasto, ma Curzi spera che Ciampi «non glielo permetta». Potrebbe apparire tutti i giorni in tv, ma un uso spregiudicato dei mezzi di informazione punì Fanfani ai tempi del divorzio e potrebbe punire anche lui. L’ex direttore del Tg3 vede un solo rischio: «Se Berlusconi fosse intelligente accetterebbe la carta disperata del voto anticipato, lasciando a Prodi una Finanziaria che si annuncia di lacrime e sangue».
Assi nella manica, condivide il professor Alberto Asor Rosa , Berlusconi non ne ha più. Nemmeno la vendita di Mediaset potrebbe risollevare le azioni di un imprenditore che è diventato premier «promettendo al popolo che avrebbe seguito le sue orme». E adesso? Non resta che un «gesto evangelico» donare tutti i suoi averi agli italiani afflitti dalla crisi economica e «presentarsi agli elettori come disoccupato e nullatenente, bisognoso di essere aiutato». La carta di Paperino, insomma.
Ma Armando Cossutta non concede al premier nemmeno quella: «Al punto in cui è arrivato, Berlusconi non ha vie d’uscita. Se tocca la devolution va contro la Lega, se insiste sulle tasse scontenta Follini...». A sentire il presidente del Pdci ogni gesto, anche il più clamoroso, sarebbe un palliativo. E il rimpasto? «Nemmeno mettendo Cossutta al governo aumenterebbe la sua credibilità».
Morte politica o resurrezione ormai non dipendono più da lui, concorda il ds Cesare Salvi , il destino di Berlusconi è legato alla situazione economica e alle conseguenze del nuovo Patto di stabilità. Se ci saranno le condizioni il Cavaliere potrà ridurre le tasse o intervenire sul costo del lavoro e allora sì che il centrosinistra dovrà temere la rimonta: «Se fa cose concrete può ancora salvarsi, ma con la propaganda no, non ce la fa». Temibile anche l’ exit strategy indicata da Giuliano Ferrara, mettere al suo posto un Letta o un Casini. E la vendita di Mediaset? La risposta del senatore Salvi è una sonora risata. «E chi se la compra?».
Francesco Caruso non ci trova niente da ridere e se la prende con la «titubanza» di Prodi, che invece di assestare la spallata concede a «questa banda di signori al governo il tempo di fare le ultime follie». Il leader dei Disobbedienti del Sud teme «una involuzione democratica», teme gli «ultimi colpi di coda di un demagogo populista e conservatore». Perché il re è nudo e «bisognerebbe buttarlo giù, prima che si metta ad arraffare tutto». Le argenterie del Palazzo? «Ma no... Le leggi che salvano i suoi compari».

parla la figlia di Ernesto De Martino

Il Mattino 10.4.05
INCONTRO CON LIA DE MARTINO ALLA GIORNATA DI STUDI IN ONORE DEL GRANDE ANTROPOLOGO
Padre e figlia nella terra del rimorso e del rimosso
Donatella Trotta

Un padre «che doveva fare il padre nel momento stesso in cui cercava egli stesso risposte, consapevolezza e riscatto». E una figlia dalla sensibilità vibratile e vulnerabile, sublimata nella scrittura poetico-narrativa da lei stessa considerata come una «catarsi», un modo per superare lo strazio (o la nostalgia), come un orizzonte che libera, ovvero una «chiave che può risolvere un disagio interiore insopportabile», che è poi il disagio stesso della civiltà: capace di accomunare uomini e donne ben oltre le proprie piccole storie individuali. Lia de Martino è una donna minuta che nei tratti e nei colori - caschetto biondo, occhi azzurro cielo - ricorda quelli del padre Ernesto, il grande antropologo napoletano (1908-1965) da lei «conosciuto in profondità solo molto tardi, a causa della sua separazione da mia madre che portò me e mia sorella, allora bambine, a vivere con lei», ricorda Lia, oggi 68enne, in margine alla giornata di studi sul pensiero di de Martino promossa ieri dal Dipartimento di Salute Mentale di Napoli diretto dallo psichiatra Fausto Rossano, appuntamento della rassegna culturale «Passaggi e confini», stimolato anche dalla pubblicazione del libro a più mani Dell’Apocalisse. Antropologia e psicopatologia in Ernesto de Martino (Guida), e organizzato in collaborazione con l’Associazione italiana di psicologia analitica (Aipa) e la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università della Basilicata, presieduta da Rita Enrica Alibrandi che ha coordinato l’incontro, dall’evocativo titolo «Il ritorno del rimorso». Dove il «rimorso» non rinvia però solo a quello della ”terra” che dà il titolo all’ultima opera dell’antropologo sul tarantismo del Salento, né allude, magari, all’implicito rimorso provato dall’Occidente che non a caso «ha prodotto tanti etnografi, quasi per espiare le proprie colpe nei confronti del mondo dei vinti» (secondo la lettura di Lévi-Strauss ripresa da Luigi M. Lombardi Satriani a proposito di una spedizione demartiniana in Basilicata, ripercorsa ieri da un intenso documentario di Giuseppe Rocca); ma, semmai, è il sentimento che difetta alla cultura italiana, per molti versi in debito con le intuizioni demartiniane, «per aver costantemente rimosso Ernesto de Martino e la sua opera scomoda (che si occupava di ciò che si andava negando, e che occorreva nascondere), epperò essenziale per la cifra di una ricerca che tenta tra l’altro, attraverso voci e sguardi molteplici, di riflettere sulla crisi del nostro essere nel mondo», sottolinea Stefano de Matteis, intervenuto all’incontro con Iain Chambers, Stefano Carta, Mauro Maldonato, Sergio Mellina, Rossano e Librandi. Gli fa eco Lia de Martino, chiudendo l’incontro con una intensa performance di frammenti poetici personali, autobiografici ma anche etnografici, rituali della memoria in contrappunto con la voce e il violino di Aldo Jonata: «Mai come oggi - sottolinea con fervore la de Martino - occorre far capire e far incontrare il pensiero di mio padre con i giovani, divulgare ciò che egli aveva da dirci e ci ha detto anche prima di morire, con il suo saggio sulle apocalissi culturali; sono riflessioni straordinarie, finalmente sdoganate da un lungo e tirannico monopolio che che per trent’anni ha tenuto nascosti i suoi inediti. Ora sono a disposizione di tutti, e ne sono orgogliosa, per far esercitare un diritto-dovere che ritengo essenziale: parlare del pensiero di de Martino, riscoprire le sue provocazioni, sia pure per criticarle. Utilizzando, magari, anche linguaggi diversi da quelli, pur importanti, degli addetti ai lavori. Per questo sono venuta a Napoli - da Matera dove ho deciso di trasferirmi cinque anni fa -, mettendo in gioco la mia relazione filiale, dolorosa e conflittuale, di incontro/scontro con un uomo per me contraddittorio e umano, confidenziale se pure severo, che porto dentro (e non me ne vorrò mai liberare)». Il suo ricordo più bello? Lia de Martino cita e recita una sua poesia del 6 aprile 1956, che segnò l’inizio del suo tardivo rapporto col padre, segnato da assenze e presenze ingombranti, morsi dei rimorsi e scoperte reciproche (si trova nel libro Rituali della memoria, Argo 1997, a pag. 31). E poi una lettera, che Ernesto de Martino le scrisse il 26 dicembre 1960, cinque anni prima della propria morte prematura: «Nel tuo caso, mi disse, ”queste esperienze ti aiuteranno ad acquistare un maggiore senso di responsabilità e soprattutto a sostituire i progetti astratti intorno alla tua persona con progetti concreti intorno agli altri”. Un insegnamento indimenticabile».