una segnalazione di Francesco Troccoli
Liberazione 6.1.05
Aceh, il petrolio protetto dall'onda
Le installazioni petrolifere salvate dallo tsunami. Da quattro anni dispongono di un efficace sistema di preallarme contro il maremoto
di Sabina Morandi
Dieci ore di ritardo nelle consegne. Questo è stato l'effetto del maremoto sugli impianti di estrazione di gas naturale e petrolio nel nord di Sumatra. Già il 28 dicembre la Reuters annunciava che «l'impianto di Arun, nell'estremo nord di Aceh, ha avuto la fortuna di venire risparmiato». Poche ore dopo faceva eco una nota ufficiale di Pertamina, la compagnia petrolifera statale: «le attività produttive in Aceh sono continuate senza interruzione - anche perché - per prevenire i problemi dovuti a una possibile distruzione di tre depositi, Pertamina ha preso delle iniziative per ridistribuire le scorte di carburante». Prevenzione? Ebbene sì: a differenza delle centomila vittime le compagnie petrolifere disponevano di un efficiente sistema di preallarme. Si tratta dell'Asean Sub-Committee on Meteorology and Geophysics (Ascmg) la cui messa a punto è stata annunciata durante il 23° meeting dell'Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, appunto l'Asean, il 1 settembre del 2000. Il sistema ha consentito alle compagnie petrolifere di mettere al riparo il personale e, perfino, di «prevenire i problemi», come dichiara il portavoce della compagnia di Stato. La produzione è quindi continuata a pieno ritmo, con il solito milione di barili di petrolio giornalieri e i 20,86 milioni di metri cubi di gas naturale (al giorno) solo dall'impianto di Arun, situato proprio nella zona devastata dallo tsunami.
Chi non si accontenta della favoletta degli americani che mobilitano lo Us Pacific Command (una forza di 300 mila uomini) soltanto per recuperare la propria immagine fra i paesi musulmani, può dare un'occhiata alla mappa: Sumatra pullula di giacimenti di gas, istallazioni petrolifere di terra e di mare e oleodotti in costruzione. Nell'Aceh in particolare sono presenti tutti i nomi della lobby petrolifera mondiale - come la Exxon Mobil, chiamata più volte a rispondere davanti alle Nazioni Unite per le devastazioni ambientali e la reiterata violazione dei diritti umani contro le popolazioni dell'Aceh che sono state deportate - quando venivano requisite le loro terre derubate delle proprie ricchezze naturali e infine decimate in un conflitto che ha opposto gli indipendentisti a uno degli eserciti più feroci e meglio armati della regione. Un conflitto che ha provocato 12 mila morti, prevalentemente civili, su di una popolazione di circa 4 milioni di persone.
Ma le persone, si sa, contano poco quando il bottino è consistente. Il 30 per cento di tutte le esportazioni di gas naturale dell'Indonesia, primo produttore mondiale, provengono da questa martoriata regione. Da sempre l'Aceh combatte per la propria indipendenza: prima contro gli olandesi e poi contro Giakarta che, dal 1953, alterna il bastone della repressione alla carota del "territorio a statuto speciale". Ma le concessioni amministrative non bastano e nel 1976, quando viene fondato il Free Aceh Movement, il conflitto riprende con un crescendo di ferocia e brutalità che tocca il culmine nel 1999, quando le attività di estrazione di gas e petrolio cominciano a marciare a pieno ritmo e, di nuovo, nel maggio del 2003, con la dichiarazione della legge marziale e alla chiusura totale dei territori a diplomatici e giornalisti stranieri.
Lo tsunami costituisce quindi un'occasione senza precedenti per liberarsi del movimento separatista che, fra l'altro, chiedeva una migliore distribuzione delle risorse - l'Aceh contribuisce per l'11 per cento al Pil dell'Indonesia ma riceve poco più del 2 per cento degli investimenti - e una percentuale più alta sui diritti estrattivi. Entrambe le richieste considerate inaccettabili sia dal governo indonesiano che dalle compagnie occidentali. Per questo Giakarta ha aspettato ben quattro giorni per fare entrare i primi soccorsi nelle zone colpite e per questo, grazie all'avallo dello Zio Tom, si appresta a inviare altre truppe con la scusa degli aiuti: 15 mila soldati, che si vanno ad aggiungere ai 40 mila presenti dal maggio del 2003, in un territorio grande quanto Lombardia e Piemonte messi insieme.
E come gli americani, che approfittano dello tsunami per uno spiegamento di forze che, come scrive il Los Angeles Times «solo poche settimane fa avrebbe provocato un'ondata di proteste in tutta l'Indonesia», anche per Giakarta il maremoto è un'occasione da cogliere al volo. Grazie «al più alto livello mai raggiunto di collaborazione fra le forze armate statunitensi e quelle indonesiane», come ha dichiarato l'ammiraglio Usa Doug Crowder, l'esercito dell'Indonesia può invadere l'Aceh sotto gli occhi indifferenti del mondo. Per fare cosa? Il Tenente colonnello DJ Nachrowi l'ha detto chiaramente al Jakarta Post: «Abbiamo due compiti: il lavoro umanitario e le operazioni di sicurezza» e garantisce che i raid contro il movimento per l'Aceh libero continueranno finché il presidente Susilo Bambang Yudhoyono non dichiarerà l'emergenza finita. Ma, a quanto pare, il presidente non ha manifestato alcuna indicazione in tal senso.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 7 gennaio 2005
Cina
REUTERS Fri January 7, 2005 12:06 PM GMT
Cina, aborto selettivo sta per diventare un reato
PECHINO (Reuters) - La Cina sta per bandire l'aborto selettivo ai danni dei feti femminili per riequilibrare la maggioranza di maschi, cresciuta da quando la politica del figlio unico è stata introdotta 20 anni fa.
Statistiche governative mostrano che, nel paese più popoloso del mondo, ogni 100 bambine sono nati 119 maschi, ma Pechino ha stabilito l'obiettivo di correggere lo sbilanciamento entro il 2010, secondo quanto riferito dai media statali.
La Cina ha incrementato la politica del figlio unico nei primi anni Ottanta per contenere la sua crescita demografica --che ha toccato ieri un miliardo e 300 mila persone -- ma le restrizioni hanno incoraggiato la tradizionale preferenza per i figli maschi.
"Il governo considera un compito urgente correggere il disequilibrio di genere tra i neonati", riporta l'agenzia di stampa Xinshua riprendendo le parole pronunciate in tarda serata dal ministro membro della Commissione per la pianificazione della Famiglia e della Popolazione nazionale, Zhang Weiqing.
"Come nuova misura, la Commissione comincerà a rivedere il codice penale per poter effettivamente bandire il rilevamento del sesso del feto e l'aborto selettivo, se non per legittime ragioni mediche", ha detto Zhang.
L'aborto selettivo è già stato bandito, ma tecnologie, come gli ultrasuoni hanno reso possibile l'identificazione del sesso in tempo, aumentando i casi di aborti femminili.
I cinesi hanno sempre preferito i maschi alle femmine, perché considerati più in grado di provvedere alla famiglia, di curare i membri più anziani, e per provvedere alla successione.
Nonostante la volontà di riequilibrare lo sbilanciamento dei sessi, e la recente flessibilità verso le famiglie rurali, a cui è consentito da due anni avere due figli, la Cina non ha dato segni di voler abbandonare del tutto la legge del figlio unico.
Corriere della Sera 7.1.05
Manovre congiunte tra India e Cina
NEW DELHI - L’India e la Cina, i due Paesi più popolosi del mondo, un tempo rivali (nel 1962 combatterono l’una contro l’altra), sono sempre più vicini. New Delhi ha proposto a Pechino di tenere esercitazioni militari comuni anti-terrorismo. Lo ha detto il generale N.C. Vij, capo di Stato maggiore dell’esercito indiano di ritorno da una visita in Cina. I cinesi, ha spiegato il generale, hanno apprezzato la proposta e «promesso di prenderla in considerazione».
Cina, aborto selettivo sta per diventare un reato
PECHINO (Reuters) - La Cina sta per bandire l'aborto selettivo ai danni dei feti femminili per riequilibrare la maggioranza di maschi, cresciuta da quando la politica del figlio unico è stata introdotta 20 anni fa.
Statistiche governative mostrano che, nel paese più popoloso del mondo, ogni 100 bambine sono nati 119 maschi, ma Pechino ha stabilito l'obiettivo di correggere lo sbilanciamento entro il 2010, secondo quanto riferito dai media statali.
La Cina ha incrementato la politica del figlio unico nei primi anni Ottanta per contenere la sua crescita demografica --che ha toccato ieri un miliardo e 300 mila persone -- ma le restrizioni hanno incoraggiato la tradizionale preferenza per i figli maschi.
"Il governo considera un compito urgente correggere il disequilibrio di genere tra i neonati", riporta l'agenzia di stampa Xinshua riprendendo le parole pronunciate in tarda serata dal ministro membro della Commissione per la pianificazione della Famiglia e della Popolazione nazionale, Zhang Weiqing.
"Come nuova misura, la Commissione comincerà a rivedere il codice penale per poter effettivamente bandire il rilevamento del sesso del feto e l'aborto selettivo, se non per legittime ragioni mediche", ha detto Zhang.
L'aborto selettivo è già stato bandito, ma tecnologie, come gli ultrasuoni hanno reso possibile l'identificazione del sesso in tempo, aumentando i casi di aborti femminili.
I cinesi hanno sempre preferito i maschi alle femmine, perché considerati più in grado di provvedere alla famiglia, di curare i membri più anziani, e per provvedere alla successione.
Nonostante la volontà di riequilibrare lo sbilanciamento dei sessi, e la recente flessibilità verso le famiglie rurali, a cui è consentito da due anni avere due figli, la Cina non ha dato segni di voler abbandonare del tutto la legge del figlio unico.
Corriere della Sera 7.1.05
Manovre congiunte tra India e Cina
NEW DELHI - L’India e la Cina, i due Paesi più popolosi del mondo, un tempo rivali (nel 1962 combatterono l’una contro l’altra), sono sempre più vicini. New Delhi ha proposto a Pechino di tenere esercitazioni militari comuni anti-terrorismo. Lo ha detto il generale N.C. Vij, capo di Stato maggiore dell’esercito indiano di ritorno da una visita in Cina. I cinesi, ha spiegato il generale, hanno apprezzato la proposta e «promesso di prenderla in considerazione».
sinistra
Bertinotti, e in memoria di Eliseo Milani
Il Tempo 7.1.05
Bertinotti boccia il programma di Rutelli «Divisi su esteri, economia e privatizzazioni»
«SU tre punti il programma di Rutelli va in una direzione non condivisibile: la collocazione internazionale, perché non c'è il tema della pace, il terreno del rapporto fra economia e lavoro, perché non vede il fallimento delle politiche neoliberiste e il tema delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni». In un'intervista il segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, risponde alla contestata lettera di Francesco Rutelli a Repubblica e parla del momento che sta vivendo il centrosinistra.
Sulla crisi che attraversa la Margherita, il leader del Prc puntualizza: «C'è da risolvere un problema di identità». Per quanto riguarda i contrasti all'interno del suo stesso partito, in pieno congresso, Bertinotti afferma: «Che la maggior parte di Rifondazione creda che l'alleanza vada fatta è vero. Una forza di sinistra che non sapesse raccogliere la domanda di cambiamento rispetto a Berlusconi, sarebbe morta in partenza. Sul futuro tutti la vedono come una sfida. C'è chi urla verso il pessimismo, chi verso l'ottimismo, ma che sia una sfida è vero».
Bertinotti parla anche del rapporto con l'Udeur di Clemente Mastella. Secondo il leader di Rifondazione Comunista «va costruita una latitudine in cui tutti si sentano cittadini dell'alleanza».
«Per farlo — consiglia ancora il leader di Rifondazione — la via maestra è avviare un confronto programmatico forte. E far sì che le regole di formazione della rappresentanza siano democratiche». «Quando c'è una differenza nella proposta di leadership si fanno le primarie e la democrazia risolve la controversia».
ADNKRONOS
GAD: BERTINOTTI, SULLA CRISI DELLA MARGHERITA: C'E' UN PROBLEMA D'IDENTITÀ
Roma, 6 gen. (Adnkronos) - ''Su tre punti il programma di Rutelli va in una direzione non condivisibile: la collocazione internazionale, perché non c'e' il tema della pace, il terreno del rapporto fra economia e lavoro, perché non vede il fallimento delle politiche neoliberiste e il tema delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni''. In un'intervista a tutto campo al quotidiano online Affaritaliani.it, il segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, risponde alla contestata lettera di Francesco Rutelli a 'Repubblica' e parla del momento che sta vivendo il centrosinistra.
Corriere della Sera venerdì 7 gennaio 2005
Eliseo, a sinistra della sinistra
di PAOLO FRANCHI
Ci sono molti buoni motivi per ricordare un uomo come Eliseo Milani, che se ne è andato, a 77 anni, il 28 dicembre. I principali li hanno spiegati bene sul «Manifesto» e su «Liberazione» i vecchi amici e compagni di Eliseo, da Lucio Magri a Rina Gagliardi. E a una riflessione più attenta sugli insegnamenti di una vita difficile ma non inutile, nonostante sia stata segnata da tante sconfitte, sarà dedicato (bella iniziativa) un seminario. Ma, se è vero che cercare di ricostruire una storia collettiva di questo Paese non significa mettersi in caccia di rassicuranti denominatori comuni, ma prima di tutto guardar meglio dentro tante esperienze diverse e sottrarle per quanto possibile ai luoghi comuni e alle letture caricaturali, forse è bene riprendere qualcuno almeno degli spunti che già sono stati offerti per ricordare Milani anche a lettori assai distanti da un'esperienza come la sua. La vicenda di Eliseo, solo all'apparenza minore, sta tutta dentro una vicenda e, se si vuole, un'illusione più ampia, che ha riguardato non Pietro Ingrao, ma una parte importante e prestigiosa di quella particolarissima comunità che fu la sinistra del Pci. La vicenda (e l'illusione), intendo, di chi pensò, a ridosso del '68, che fosse possibile una via d'uscita «da sinistra» dal fallimento del comunismo sovietico riconnettendo un pezzo almeno dell'esperienza del Pci ai nuovi movimenti, studenteschi e operai in primo luogo, che avevano occupato la scena: in poche parole, la vicenda (e l'illusione) del gruppo del Manifesto, molto meno di un partito, anche dopo la radiazione dal partito, molto più di una rivista mensile prima, di un «quotidiano comunista» poi.
Quale ruolo ebbe in questa storia Eliseo Milani negli anni successivi è cosa importante per chi li visse dall'interno, ma qui interessa relativamente poco. Più significativo, forse, è un dettaglio. Nel gruppo dei fondatori, tra tanti intellettuali politici anche di primissimo piano (Rossanda, Pintor, Natoli, Magri, Parlato, Castellina), Milani era l'unico «quadro» di origine operaia: i suoi primi passi di militante comunista, in una città per definizione bianca, Bergamo, dove i comunisti erano sempre stati e sarebbero sempre rimasti una modesta minoranza, li aveva infatti mossi alla Dalmine. Poi, negli anni Cinquanta, era diventato funzionario del partito; e, all'inizio dei Sessanta, segretario della federazione.
Chi ha conosciuto Milani sa quanto tutto questo abbia contato anche nella sua militanza a sinistra della sinistra: l'uomo concreto, l'organizzatore di partito, ebbe la meglio, sempre, sugli astratti furori dell'estremismo. Di certo, però, non diventò mai un burocrate o un settario. Non lo era mai stato. Operaio, attentissimo ai problemi della fabbrica, promotore di mille lotte sindacali, non fu mai operaista. Segretario del Pci di Bergamo «reclutò», come si diceva allora, il meglio della giovane intellettualità cattolica delle sue parti, a cominciare dallo stesso Magri e da Beppe Chiarante. Dirigente della sinistra extraparlamentare, fu parlamentare apprezzato da amici e avversari. Ruvido e burbero, non smarrì mai, fino all'ultimo, pazienza e ironia. Contraddizioni? Anche. Ma la «semina» del Pci togliattiano (puer robustus ac malitio sus) non fu davvero estranea alla crescita di personalità di questo tipo, che pure la crisi di quel partito la vissero e, in buona misura, la promossero.
Bertinotti boccia il programma di Rutelli «Divisi su esteri, economia e privatizzazioni»
«SU tre punti il programma di Rutelli va in una direzione non condivisibile: la collocazione internazionale, perché non c'è il tema della pace, il terreno del rapporto fra economia e lavoro, perché non vede il fallimento delle politiche neoliberiste e il tema delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni». In un'intervista il segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, risponde alla contestata lettera di Francesco Rutelli a Repubblica e parla del momento che sta vivendo il centrosinistra.
Sulla crisi che attraversa la Margherita, il leader del Prc puntualizza: «C'è da risolvere un problema di identità». Per quanto riguarda i contrasti all'interno del suo stesso partito, in pieno congresso, Bertinotti afferma: «Che la maggior parte di Rifondazione creda che l'alleanza vada fatta è vero. Una forza di sinistra che non sapesse raccogliere la domanda di cambiamento rispetto a Berlusconi, sarebbe morta in partenza. Sul futuro tutti la vedono come una sfida. C'è chi urla verso il pessimismo, chi verso l'ottimismo, ma che sia una sfida è vero».
Bertinotti parla anche del rapporto con l'Udeur di Clemente Mastella. Secondo il leader di Rifondazione Comunista «va costruita una latitudine in cui tutti si sentano cittadini dell'alleanza».
«Per farlo — consiglia ancora il leader di Rifondazione — la via maestra è avviare un confronto programmatico forte. E far sì che le regole di formazione della rappresentanza siano democratiche». «Quando c'è una differenza nella proposta di leadership si fanno le primarie e la democrazia risolve la controversia».
ADNKRONOS
GAD: BERTINOTTI, SULLA CRISI DELLA MARGHERITA: C'E' UN PROBLEMA D'IDENTITÀ
Roma, 6 gen. (Adnkronos) - ''Su tre punti il programma di Rutelli va in una direzione non condivisibile: la collocazione internazionale, perché non c'e' il tema della pace, il terreno del rapporto fra economia e lavoro, perché non vede il fallimento delle politiche neoliberiste e il tema delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni''. In un'intervista a tutto campo al quotidiano online Affaritaliani.it, il segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, risponde alla contestata lettera di Francesco Rutelli a 'Repubblica' e parla del momento che sta vivendo il centrosinistra.
Corriere della Sera venerdì 7 gennaio 2005
Eliseo, a sinistra della sinistra
di PAOLO FRANCHI
Ci sono molti buoni motivi per ricordare un uomo come Eliseo Milani, che se ne è andato, a 77 anni, il 28 dicembre. I principali li hanno spiegati bene sul «Manifesto» e su «Liberazione» i vecchi amici e compagni di Eliseo, da Lucio Magri a Rina Gagliardi. E a una riflessione più attenta sugli insegnamenti di una vita difficile ma non inutile, nonostante sia stata segnata da tante sconfitte, sarà dedicato (bella iniziativa) un seminario. Ma, se è vero che cercare di ricostruire una storia collettiva di questo Paese non significa mettersi in caccia di rassicuranti denominatori comuni, ma prima di tutto guardar meglio dentro tante esperienze diverse e sottrarle per quanto possibile ai luoghi comuni e alle letture caricaturali, forse è bene riprendere qualcuno almeno degli spunti che già sono stati offerti per ricordare Milani anche a lettori assai distanti da un'esperienza come la sua. La vicenda di Eliseo, solo all'apparenza minore, sta tutta dentro una vicenda e, se si vuole, un'illusione più ampia, che ha riguardato non Pietro Ingrao, ma una parte importante e prestigiosa di quella particolarissima comunità che fu la sinistra del Pci. La vicenda (e l'illusione), intendo, di chi pensò, a ridosso del '68, che fosse possibile una via d'uscita «da sinistra» dal fallimento del comunismo sovietico riconnettendo un pezzo almeno dell'esperienza del Pci ai nuovi movimenti, studenteschi e operai in primo luogo, che avevano occupato la scena: in poche parole, la vicenda (e l'illusione) del gruppo del Manifesto, molto meno di un partito, anche dopo la radiazione dal partito, molto più di una rivista mensile prima, di un «quotidiano comunista» poi.
Quale ruolo ebbe in questa storia Eliseo Milani negli anni successivi è cosa importante per chi li visse dall'interno, ma qui interessa relativamente poco. Più significativo, forse, è un dettaglio. Nel gruppo dei fondatori, tra tanti intellettuali politici anche di primissimo piano (Rossanda, Pintor, Natoli, Magri, Parlato, Castellina), Milani era l'unico «quadro» di origine operaia: i suoi primi passi di militante comunista, in una città per definizione bianca, Bergamo, dove i comunisti erano sempre stati e sarebbero sempre rimasti una modesta minoranza, li aveva infatti mossi alla Dalmine. Poi, negli anni Cinquanta, era diventato funzionario del partito; e, all'inizio dei Sessanta, segretario della federazione.
Chi ha conosciuto Milani sa quanto tutto questo abbia contato anche nella sua militanza a sinistra della sinistra: l'uomo concreto, l'organizzatore di partito, ebbe la meglio, sempre, sugli astratti furori dell'estremismo. Di certo, però, non diventò mai un burocrate o un settario. Non lo era mai stato. Operaio, attentissimo ai problemi della fabbrica, promotore di mille lotte sindacali, non fu mai operaista. Segretario del Pci di Bergamo «reclutò», come si diceva allora, il meglio della giovane intellettualità cattolica delle sue parti, a cominciare dallo stesso Magri e da Beppe Chiarante. Dirigente della sinistra extraparlamentare, fu parlamentare apprezzato da amici e avversari. Ruvido e burbero, non smarrì mai, fino all'ultimo, pazienza e ironia. Contraddizioni? Anche. Ma la «semina» del Pci togliattiano (puer robustus ac malitio sus) non fu davvero estranea alla crescita di personalità di questo tipo, che pure la crisi di quel partito la vissero e, in buona misura, la promossero.
linguaggio
gli psicologi di fronte al linguaggio dei pastori di Tenerife
YAHOO SALUTE venerdì 7 gennaio 2005
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Fischiare e parlare per il cervello pari son
Il Pensiero Scientifico Editore
Un fischio può valere più di tante parole e il cervello umano, quando è allenato a farlo, sa interpretare "ariette" sibilanti come fossero un linguaggio a tutti gli effetti. È almeno questa la prerogativa del cervello di una popolazione di pastori che vive sull’isola di Tenerife, nelle Canarie, che si è inventata una lingua "in codice" basata su fischi e non su parole. Il loro cervello, è spiegato sulla rivista Nature, risponde ai fischi attivando proprio i centri del linguaggio.
La lingua, detta Silbo Gomero o Silbo, è stata studiata a fondo da un’équipe di psicologi coordinata da David Corina, dell’Università di Washington. I risultati di questo studio evidenziano una plasticità cerebrale tale da permettere forme di comunicazione non basate esclusivamente sulla parola.
La necessità fa virtù e i pastori di Tenerife, che parlano spagnolo, per comunicare anche a grande distanza superando le asperità dei terreni scoscesi dell’isola, hanno imparato a fischiare modulando i suoni in modo che ciascun diverso sibilo corrisponda a un messaggio. Si fischiano dunque a distanza informazioni come "chiudi il recinto" o "la pecora è uscita dal gregge", indispensabili per il loro lavoro.
Gli psicologi hanno studiato il modo in cui il loro cervello risponde a questa insolita forma di comunicazione. Per farlo i ricercatori hanno coinvolto due gruppi di persone: alcuni pastori locali che però oltre a conoscere la ‘lingua’ dei fischi parlavano correntemente anche lo spagnolo e un gruppo di spagnoli che invece non conosceva la lingua dei fischi. Gli esperti hanno sottoposto entrambi a due prove d’ascolto. Nella prima i volontari dovevano ascoltare frasi nelle due lingue. Nella seconda, invece, gli individui dovevano prestarsi all’ascolto di sequenze di parole registrate a distanza di tre secondi l’una dall’altra, sempre in entrambe le lingue, e poi cercare di ricordare quante volte ciascuna diversa parola (o fischio) fosse ripetuta nella registrazione.
Durante tutte le prove gli psicologi hanno tenuto sotto controllo con la risonanza magnetica funzionale le aree cerebrali che si attivavano nei partecipanti. Nel cervello dei pastori, sia sentendo lo spagnolo che la lingua dei fischi, si attivavano i centri del linguaggio, segno che a forza di parlare a suon di fischi il loro cervello si è "resettato" divenendo flessibile al punto da rispondere indifferentemente sia alle parole che alla nuova forma di comunicazione non verbale. Invece, nel cervello degli spagnoli, per quanto fossero in grado di discriminare tra i diversi fischi e riconoscere quante volte ciascun tipo di fischio fosse ripetuto nelle registrazioni, all’ascolto dei fischi si attivavano centri nervosi del tutto distinti da quelli del linguaggio. Ciò è segno che queste persone, non avendo mai usato né conosciuto il linguaggio dei fischi, non lo riconoscono come una forma di comunicazione. Per il loro cervello, insomma, i fischi degli isolani sono molto più estranei che una lingua straniera non conosciuta, non sono affatto una lingua.
La vita dura dei pastori di Tenerife, invece, ha dato loro in dono un cervello i cui centri del linguaggio hanno acquisito capacità in più per aiutarli a comunicare.
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Fischiare e parlare per il cervello pari son
Il Pensiero Scientifico Editore
Un fischio può valere più di tante parole e il cervello umano, quando è allenato a farlo, sa interpretare "ariette" sibilanti come fossero un linguaggio a tutti gli effetti. È almeno questa la prerogativa del cervello di una popolazione di pastori che vive sull’isola di Tenerife, nelle Canarie, che si è inventata una lingua "in codice" basata su fischi e non su parole. Il loro cervello, è spiegato sulla rivista Nature, risponde ai fischi attivando proprio i centri del linguaggio.
La lingua, detta Silbo Gomero o Silbo, è stata studiata a fondo da un’équipe di psicologi coordinata da David Corina, dell’Università di Washington. I risultati di questo studio evidenziano una plasticità cerebrale tale da permettere forme di comunicazione non basate esclusivamente sulla parola.
La necessità fa virtù e i pastori di Tenerife, che parlano spagnolo, per comunicare anche a grande distanza superando le asperità dei terreni scoscesi dell’isola, hanno imparato a fischiare modulando i suoni in modo che ciascun diverso sibilo corrisponda a un messaggio. Si fischiano dunque a distanza informazioni come "chiudi il recinto" o "la pecora è uscita dal gregge", indispensabili per il loro lavoro.
Gli psicologi hanno studiato il modo in cui il loro cervello risponde a questa insolita forma di comunicazione. Per farlo i ricercatori hanno coinvolto due gruppi di persone: alcuni pastori locali che però oltre a conoscere la ‘lingua’ dei fischi parlavano correntemente anche lo spagnolo e un gruppo di spagnoli che invece non conosceva la lingua dei fischi. Gli esperti hanno sottoposto entrambi a due prove d’ascolto. Nella prima i volontari dovevano ascoltare frasi nelle due lingue. Nella seconda, invece, gli individui dovevano prestarsi all’ascolto di sequenze di parole registrate a distanza di tre secondi l’una dall’altra, sempre in entrambe le lingue, e poi cercare di ricordare quante volte ciascuna diversa parola (o fischio) fosse ripetuta nella registrazione.
Durante tutte le prove gli psicologi hanno tenuto sotto controllo con la risonanza magnetica funzionale le aree cerebrali che si attivavano nei partecipanti. Nel cervello dei pastori, sia sentendo lo spagnolo che la lingua dei fischi, si attivavano i centri del linguaggio, segno che a forza di parlare a suon di fischi il loro cervello si è "resettato" divenendo flessibile al punto da rispondere indifferentemente sia alle parole che alla nuova forma di comunicazione non verbale. Invece, nel cervello degli spagnoli, per quanto fossero in grado di discriminare tra i diversi fischi e riconoscere quante volte ciascun tipo di fischio fosse ripetuto nelle registrazioni, all’ascolto dei fischi si attivavano centri nervosi del tutto distinti da quelli del linguaggio. Ciò è segno che queste persone, non avendo mai usato né conosciuto il linguaggio dei fischi, non lo riconoscono come una forma di comunicazione. Per il loro cervello, insomma, i fischi degli isolani sono molto più estranei che una lingua straniera non conosciuta, non sono affatto una lingua.
La vita dura dei pastori di Tenerife, invece, ha dato loro in dono un cervello i cui centri del linguaggio hanno acquisito capacità in più per aiutarli a comunicare.
Fonte: Carreiras M, Lopez J, Rivero F, Corina D. Neural processing of a whistled language. A rare surrogate of Spanish highlights the adaptability of the brain’s language regions Nature 2005;433(7021).
RaiTre
venti puntate sul racconto dei miti
da stasera
TGCOM 7.1.05
Poggi: "Le mie notti con Zeus"
L'attrice racconta i miti in tv
"Siamo tutti un po' Narciso, Artemide, Afrodite, Zeus: tra noi e gli antichi Dei non c'è nessuna differenza in quanto a passione, violenza, ricerca del potere, autodistruzione, voglia di bellezza a tutti i costi". A parlare è Daniela Poggi che indaga sul mondo dei miti come autrice, debuttante, e conduttrice di Una notte con Zeus, dal 7 gennaio in seconda serata su Raitre per venti puntate.
"Per me è una bella sfida affrontare un tema di cui si parla poco", spiega l'attrice che torna sulla terza rete dopo quattro edizioni di Chi l'ha visto? "Il tempo cancella tutto, ma la memoria resta un elemento basilare della nostra vita: di qui l'idea di ripercorrere il cammino della nascita del mondo, di andare indietro nel tempo e visitare l'Olimpo anche per conoscere meglio noi stessi, per scoprire che in fondo ogni mito è nel nostro modo di essere, nei comportamenti, nella gestualità, nei pensieri".
Il racconto dei miti, "non solo per parole, ma per immagini, filmati, reperti, iconografia classica", sarà abbinato all'attualità: "Cercheremo", racconta la conduttrice, "di individuare i fenomeni di costume, le tematiche umane e antropologiche della cronaca quotidiana che hanno affinita' con le storie antiche. E così alla puntata su Zeus inteso come seduzione e potere si affiancherà la storia d'amore di Marilyn Monroe e di John Kennedy, mentre Narciso sarà Michael Jackson, amante di se stesso fino all'autodistruzione. Del mito, infatti, racconteremo anche la faccia nascosta, meno nota, quella negativa".
La prima puntata, Ade, sarà dedicata al mondo invisibile che ci circonda: in studio, Folco Terzani, figlio del giornalista Tiziano, che ha assistito il padre nel suo ultimo viaggio mistico; Giuseppe Cederna, che racconterà un suo viaggio in India; Giulia Gambaro, testimone di una pre-morte. In una scenografia "quasi metafisica, fatta di colonne illuminate e capitelli" e accompagnata dalla musica dal vivo di pianoforte e violoncello suonati da Giovanna Famulari, la Poggi si muoverà come un'esploratrice, con il compito di "srotolare il filo della narrazione: ma non farò domande né interviste di stampo tradizionale. Non ci saranno inchieste, né talk show: anche gli ospiti di turno, lo psicologo, lo psichiatra, il biologo faranno la loro performance davanti alla telecamera". Sulla scena anche sette ragazze e ragazzi, veri attori, a formare il coro.
Fino alla prossima stagione Medea a teatro per la regia di Giuseppe Arena, la Poggi ammette che "l'esperienza teatrale ha pesato molto sulla scelta dell'argomento del programma. Il mio piacere è offrire al mio pubblico, quello che mi ha seguito in quattro anni di Chi l'ha visto?, un altro modo di fare televisione, di stare insieme, un'occasione per sorridere, meravigliarci, ricordare, conoscere qualcosa di nuovo. Quale divinità mi assomiglia di più? Penso che noi donne di oggi siamo tutte un po' Afrodite e un po' Artemide, guerriere ma assetate d'amore, desiderose di sedurre ma anche di imporre la nostra autonomia".
Presto la Poggi tornerà anche alla fiction, prima nei panni della perfida Cristina Ansaldi nelle nuove puntate di Incantesimo, poi nella quinta serie del Maresciallo Rocca: "Sarò ospite in una puntata nelle vesti di una giornalista arrampicatrice, che pur di fare uno scoop perde la vita".
Poggi: "Le mie notti con Zeus"
L'attrice racconta i miti in tv
"Siamo tutti un po' Narciso, Artemide, Afrodite, Zeus: tra noi e gli antichi Dei non c'è nessuna differenza in quanto a passione, violenza, ricerca del potere, autodistruzione, voglia di bellezza a tutti i costi". A parlare è Daniela Poggi che indaga sul mondo dei miti come autrice, debuttante, e conduttrice di Una notte con Zeus, dal 7 gennaio in seconda serata su Raitre per venti puntate.
"Per me è una bella sfida affrontare un tema di cui si parla poco", spiega l'attrice che torna sulla terza rete dopo quattro edizioni di Chi l'ha visto? "Il tempo cancella tutto, ma la memoria resta un elemento basilare della nostra vita: di qui l'idea di ripercorrere il cammino della nascita del mondo, di andare indietro nel tempo e visitare l'Olimpo anche per conoscere meglio noi stessi, per scoprire che in fondo ogni mito è nel nostro modo di essere, nei comportamenti, nella gestualità, nei pensieri".
Il racconto dei miti, "non solo per parole, ma per immagini, filmati, reperti, iconografia classica", sarà abbinato all'attualità: "Cercheremo", racconta la conduttrice, "di individuare i fenomeni di costume, le tematiche umane e antropologiche della cronaca quotidiana che hanno affinita' con le storie antiche. E così alla puntata su Zeus inteso come seduzione e potere si affiancherà la storia d'amore di Marilyn Monroe e di John Kennedy, mentre Narciso sarà Michael Jackson, amante di se stesso fino all'autodistruzione. Del mito, infatti, racconteremo anche la faccia nascosta, meno nota, quella negativa".
La prima puntata, Ade, sarà dedicata al mondo invisibile che ci circonda: in studio, Folco Terzani, figlio del giornalista Tiziano, che ha assistito il padre nel suo ultimo viaggio mistico; Giuseppe Cederna, che racconterà un suo viaggio in India; Giulia Gambaro, testimone di una pre-morte. In una scenografia "quasi metafisica, fatta di colonne illuminate e capitelli" e accompagnata dalla musica dal vivo di pianoforte e violoncello suonati da Giovanna Famulari, la Poggi si muoverà come un'esploratrice, con il compito di "srotolare il filo della narrazione: ma non farò domande né interviste di stampo tradizionale. Non ci saranno inchieste, né talk show: anche gli ospiti di turno, lo psicologo, lo psichiatra, il biologo faranno la loro performance davanti alla telecamera". Sulla scena anche sette ragazze e ragazzi, veri attori, a formare il coro.
Fino alla prossima stagione Medea a teatro per la regia di Giuseppe Arena, la Poggi ammette che "l'esperienza teatrale ha pesato molto sulla scelta dell'argomento del programma. Il mio piacere è offrire al mio pubblico, quello che mi ha seguito in quattro anni di Chi l'ha visto?, un altro modo di fare televisione, di stare insieme, un'occasione per sorridere, meravigliarci, ricordare, conoscere qualcosa di nuovo. Quale divinità mi assomiglia di più? Penso che noi donne di oggi siamo tutte un po' Afrodite e un po' Artemide, guerriere ma assetate d'amore, desiderose di sedurre ma anche di imporre la nostra autonomia".
Presto la Poggi tornerà anche alla fiction, prima nei panni della perfida Cristina Ansaldi nelle nuove puntate di Incantesimo, poi nella quinta serie del Maresciallo Rocca: "Sarò ospite in una puntata nelle vesti di una giornalista arrampicatrice, che pur di fare uno scoop perde la vita".
donne e uomini:
la parità dei diritti è ancora lontana
Corriere della Sera 7.1.05
Studio del World Economic Forum: siamo 40esimi
Parità fra uomini e donne «Italia tra gli ultimi»
Ancora una volta non finiamo in pari. Non nello stipendio. Non nell’accesso al mercato del lavoro. Non nella partecipazione alle decisioni politiche. Non nell’istruzione. Non nella qualità della vita. Cinque parametri presi in esame dagli esperti del World Economic Forum che dimostrano come, ancora una volta, uomini e donne siano separati, trattati in modo diverso, privilegiati i primi e penalizzate le seconde. E il gap è particolarmente forte in Italia, quarantesima in classificata, a parecchie lunghezze dai vicini europei. Davanti, tra gli altri, Argentina (nella posizione numero 38), Cina (37), Federazione Russa (24), Francia (21), Stati Uniti (16), Germania (14), Canada (10) e Inghilterra (7). È la prima volta, dieci anni dopo la Conferenza delle Nazioni Unite sulle donne, che viene studiata la disparità di trattamento tra uomo e donna in cinquantatré Paesi, trenta dei quali dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Il risultato premia, come sempre, le regioni nordeuropee, da tempo impegnate nella ricerca di politiche che tutelino e incoraggino la partecipazione della donna in ogni sfera sociale. E infatti le prime cinque della lista sono, nell’ordine, Svezia, Islanda, Norvegia, Danimarca e Finlandia.
«I Paesi del Nord Europa hanno un’antica tradizione di uguaglianza tra i due generi. Lì, per legge, uomini e donne devono avere stessa educazione e stesse opportunità economiche. Questo non accade sempre. Ma certamente al Nord c’è il divario più basso», ha spiegato Augusto Lopez- Claros, capoeconomista del World Economic Forum che il 26 gennaio riunirà a Davos leader politici, uomini d’affari e premi Nobel per il meeting annu ale dedicato alla «Responsabilità delle scelte».
La Svezia, che pure è in testa, non è perfetta. A parità di professione le donne continuano a essere meno retribuite dei colleghi maschi. Ma qualcosa vorrà dire se anche la Lettonia è più attenta di quanto non lo sia l’Italia a garantire l’uguaglianza tra i sessi (in classifica occupa la posizione numero undici). E non può essere consolatorio che ci sia chi fa peggio: Turchia (50), India (51), Egitto (52) e Pakistan (53).
Il presidente francese Jacques Chirac si è già impegnato a eliminare la disparità salariale. Oltralpe lo scarto degli stipendi tra uomini e donne per mansioni uguali è del 19 per cento: Chirac ha promesso di abbatterlo entro i prossimi cinque anni. Una legge già esiste. «Sarà applicata imperativamente o ne verrà preparata una nuova», ha detto il presidente francese.
In Italia le pari opportunità sono scritte nella Costituzione. L’articolo 51 è stato modificato proprio per questo nel febbraio del 2003. «Da noi non c’è nessuna discriminazione in termini giuridici e legali - commenta la radicale Emma Bonino -. Però, parlo per quello che mi compete, non so più quanto mi debbo sgolare sulla partecipazione politica delle donne. Ma molto dipende dalla capacità e dalla voglia che hanno di farsi sentire. Il potere nessuno lo regala».
Studio del World Economic Forum: siamo 40esimi
Parità fra uomini e donne «Italia tra gli ultimi»
Ancora una volta non finiamo in pari. Non nello stipendio. Non nell’accesso al mercato del lavoro. Non nella partecipazione alle decisioni politiche. Non nell’istruzione. Non nella qualità della vita. Cinque parametri presi in esame dagli esperti del World Economic Forum che dimostrano come, ancora una volta, uomini e donne siano separati, trattati in modo diverso, privilegiati i primi e penalizzate le seconde. E il gap è particolarmente forte in Italia, quarantesima in classificata, a parecchie lunghezze dai vicini europei. Davanti, tra gli altri, Argentina (nella posizione numero 38), Cina (37), Federazione Russa (24), Francia (21), Stati Uniti (16), Germania (14), Canada (10) e Inghilterra (7). È la prima volta, dieci anni dopo la Conferenza delle Nazioni Unite sulle donne, che viene studiata la disparità di trattamento tra uomo e donna in cinquantatré Paesi, trenta dei quali dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Il risultato premia, come sempre, le regioni nordeuropee, da tempo impegnate nella ricerca di politiche che tutelino e incoraggino la partecipazione della donna in ogni sfera sociale. E infatti le prime cinque della lista sono, nell’ordine, Svezia, Islanda, Norvegia, Danimarca e Finlandia.
«I Paesi del Nord Europa hanno un’antica tradizione di uguaglianza tra i due generi. Lì, per legge, uomini e donne devono avere stessa educazione e stesse opportunità economiche. Questo non accade sempre. Ma certamente al Nord c’è il divario più basso», ha spiegato Augusto Lopez- Claros, capoeconomista del World Economic Forum che il 26 gennaio riunirà a Davos leader politici, uomini d’affari e premi Nobel per il meeting annu ale dedicato alla «Responsabilità delle scelte».
La Svezia, che pure è in testa, non è perfetta. A parità di professione le donne continuano a essere meno retribuite dei colleghi maschi. Ma qualcosa vorrà dire se anche la Lettonia è più attenta di quanto non lo sia l’Italia a garantire l’uguaglianza tra i sessi (in classifica occupa la posizione numero undici). E non può essere consolatorio che ci sia chi fa peggio: Turchia (50), India (51), Egitto (52) e Pakistan (53).
Il presidente francese Jacques Chirac si è già impegnato a eliminare la disparità salariale. Oltralpe lo scarto degli stipendi tra uomini e donne per mansioni uguali è del 19 per cento: Chirac ha promesso di abbatterlo entro i prossimi cinque anni. Una legge già esiste. «Sarà applicata imperativamente o ne verrà preparata una nuova», ha detto il presidente francese.
In Italia le pari opportunità sono scritte nella Costituzione. L’articolo 51 è stato modificato proprio per questo nel febbraio del 2003. «Da noi non c’è nessuna discriminazione in termini giuridici e legali - commenta la radicale Emma Bonino -. Però, parlo per quello che mi compete, non so più quanto mi debbo sgolare sulla partecipazione politica delle donne. Ma molto dipende dalla capacità e dalla voglia che hanno di farsi sentire. Il potere nessuno lo regala».
l'alcolismo: un'emergenza in Gran Bretagna
IlDenaro.it 7.1.05
Inghilterra: alcolismo, scatta l’emergenza
L'emergenza alcolismo torna a minacciare il Regno Unito, dove le esplosioni di violenza e le malattie direttamente riconducibili all'eccessivo consumo di alcol sono in preoccupante aumento. È quanto sostiene il Royal College of Physicians, che si è pronunciato apertamente contro la decisione del governo di estendere, a partire da novembre di quest'anno, l'orario di chiusura dei pub. Così, come aveva già fatto nei giorni scorsi il capo della polizia Sir John Stevens, anche il presidente della prestigiosa istituzione medica, il professor Ian Gilmoreprol, sottolinea i gravi rischi per la salute pubblica qualora gli alcolici fossero accessibili liberamente, a qualsiasi ora del giorno, e non ristretti - come accade oggi - ad una certa fascia oraria (e comunque non dopo le 23:00). Immaginare che i sudditi di Sua Maestà possano d'improvviso moderare la loro attrazione per la birra - sostiene Gilmore - è un'utopia, rischiosa soprattutto per l'inevitabile aumento di violenza per le strade britanniche. “Rischiamo un'epidemia di problemi riconducibili al consumo di alcol”, ha dichiarato il professore, sostenendo che “prolungare l'orario di apertura dei pub e' contro il buon senso”. Il governo, secondo Gilmore, non solo dovrebbe mantenere le attuali restrizioni di orario, ma dovrebbe rendere più difficile l'accesso all'alcol, aumentandone il prezzo (già molto elevato). Contro la liberalizzazione degli orari di chiusura dei pub, nei giorni giorni si era espresso anche il capo di Scotland Yard, il quale aveva suggerito un rilassamento delle norme graduale. Preoccupazioni condivise anche da un consigliere del governo, Colin Drummond, docente di psichiatria al St George’s Medical School di Londra: “Più una nazione beve e maggiori sono i problemi. Tutto indica che per ridurre il danno, si deve limitare l'accesso all'alcol, aumentandone il prezzo”. Ma il governo laburista per ora sembra intenzionato a consentire una maggiore flessibilità degli orari, nella convinzione - ha spiegato nelle scorse settimane Richard Caborn, sottosegretario alla Cultura - che si debba intervenire sulle cause e non sui sintomi, anche attraverso una vasta campagna di educazione.
Inghilterra: alcolismo, scatta l’emergenza
L'emergenza alcolismo torna a minacciare il Regno Unito, dove le esplosioni di violenza e le malattie direttamente riconducibili all'eccessivo consumo di alcol sono in preoccupante aumento. È quanto sostiene il Royal College of Physicians, che si è pronunciato apertamente contro la decisione del governo di estendere, a partire da novembre di quest'anno, l'orario di chiusura dei pub. Così, come aveva già fatto nei giorni scorsi il capo della polizia Sir John Stevens, anche il presidente della prestigiosa istituzione medica, il professor Ian Gilmoreprol, sottolinea i gravi rischi per la salute pubblica qualora gli alcolici fossero accessibili liberamente, a qualsiasi ora del giorno, e non ristretti - come accade oggi - ad una certa fascia oraria (e comunque non dopo le 23:00). Immaginare che i sudditi di Sua Maestà possano d'improvviso moderare la loro attrazione per la birra - sostiene Gilmore - è un'utopia, rischiosa soprattutto per l'inevitabile aumento di violenza per le strade britanniche. “Rischiamo un'epidemia di problemi riconducibili al consumo di alcol”, ha dichiarato il professore, sostenendo che “prolungare l'orario di apertura dei pub e' contro il buon senso”. Il governo, secondo Gilmore, non solo dovrebbe mantenere le attuali restrizioni di orario, ma dovrebbe rendere più difficile l'accesso all'alcol, aumentandone il prezzo (già molto elevato). Contro la liberalizzazione degli orari di chiusura dei pub, nei giorni giorni si era espresso anche il capo di Scotland Yard, il quale aveva suggerito un rilassamento delle norme graduale. Preoccupazioni condivise anche da un consigliere del governo, Colin Drummond, docente di psichiatria al St George’s Medical School di Londra: “Più una nazione beve e maggiori sono i problemi. Tutto indica che per ridurre il danno, si deve limitare l'accesso all'alcol, aumentandone il prezzo”. Ma il governo laburista per ora sembra intenzionato a consentire una maggiore flessibilità degli orari, nella convinzione - ha spiegato nelle scorse settimane Richard Caborn, sottosegretario alla Cultura - che si debba intervenire sulle cause e non sui sintomi, anche attraverso una vasta campagna di educazione.
poeti italiani
Montale, Caproni, Merini
IL MESSAGGERO 6.1.05
Le conversazioni di Caproni Il Montale postumo che scrive agli amici più cari
di RENATO MINORE
EUGENIO Montale «ritorna tra gli amici». Amici che si chiamano Andrea Zanzotto, Cesare Segre, Gaspare Barbiellini Amidei, Carmelo Bene, Vanni Scheiwiller, Claudio Magris, Jean Starobinski. In tutto ventuno (Ritorna tra gli amici, Il Melangolo, 64 pagine, 7 euro, a cura di Carlo Angelino e Annalisa Cima, con note di Francesca Bolino) e ciascuno è il destinatario, il dedicatario delle ventun poesie tratte dal Diario postumo, quei versi che il poeta affidò all’amica Cima, da pubblicare dopo la sua morte in un ordine prestabilito.
Il tanto discusso Montale “postumo” riletto in pillole non è molto diverso dal Montale colloquiale e sarcastico dei suoi ultimi libri, da Satura in poi. Pietoso-impietoso con tutti, soprattutto con se stesso
Infine Alda Merini con le sue poesie d’amore raccolte ne La volpe e il sipario (Rizzoli, 103 pagine, 11,50 euro) L’amore e la sua assenza, la pena del corpo e i suoi avvilenti travagli, l’estasi per la bellezza guadagnata e posseduta soltanto dalla mente e dal cuore: la poesia di Alda Merini mescola tenerezza e orrore, visione e abbrutimento, sogni e violenza, lo sguardo reietto dell’emarginazione e l’assoluto della follia. L’eros travolgente e il tumulto dell’esistenza duramente provata, spezzata in modo vertiginoso dalla malattia mentale, occupano la scena di questi versi, in un orizzonte fisico racchiuso tra Brera e i Navigli, quando non è il letto di contenzione di una clinica psichatrica. Tenera e imperiosa, beffarda e arguta, la Merini con coraggio e distaccata brutalità guarda in se stessa. Fruga nella condizione umana trascinando il lettore negli abissi dell’anima raccontando il dolore di una perdita momentanea, “quando tu non ci sei”, con il doloroso stupore di una fiaba.
Le conversazioni di Caproni Il Montale postumo che scrive agli amici più cari
di RENATO MINORE
EUGENIO Montale «ritorna tra gli amici». Amici che si chiamano Andrea Zanzotto, Cesare Segre, Gaspare Barbiellini Amidei, Carmelo Bene, Vanni Scheiwiller, Claudio Magris, Jean Starobinski. In tutto ventuno (Ritorna tra gli amici, Il Melangolo, 64 pagine, 7 euro, a cura di Carlo Angelino e Annalisa Cima, con note di Francesca Bolino) e ciascuno è il destinatario, il dedicatario delle ventun poesie tratte dal Diario postumo, quei versi che il poeta affidò all’amica Cima, da pubblicare dopo la sua morte in un ordine prestabilito.
Il tanto discusso Montale “postumo” riletto in pillole non è molto diverso dal Montale colloquiale e sarcastico dei suoi ultimi libri, da Satura in poi. Pietoso-impietoso con tutti, soprattutto con se stesso
«appisolato davantiIl tono, amaro, apocalittico, avvolge tutto: il destino dell’uomo, la catastrofe della società di massa («viviamo come trote avviluppate nella mota»), l’inganno del tempo, l’ossessione della morte, una sarcastica aggressività verso ogni forma di specialismo. Non ultimo quello dei critici,
all’occhio nero della televisione».
«speculatori di paroleIl tono è quasi sempre più secco, prosciugato, come se la privilegiata interlocutrice possa favorire un nuova, stringatissima epigraficità. Montale vuole liberarsi dall’abbraccio filologico e accademico che lo invischia sempre più e che lui stesso favorisce, anche con questa eredità poetica “postuma”. E libera l’immagine del colloquio con “l’imperatrice”, “l’agile messaggero” (così chiama la Cima). Affiorano lo spleen e l’insonnia, ma anche le sorprese di sensazioni nuove come uno struggente desiderio di paternità, le attese, le illuminazioni, le affinità, una vecchiaia di spine e d’angoscia, rischiarata dal sentimento d’amicizia vibrante e trasognato. Mentre «intorno il mondo scolora», esso è autentica «voce di salvazione» attraverso il ricordo. «Alle donne è dato il ricordare» è, infatti, un verso tra i più intensi della raccolta dove Montale sogna, per il suo ultimo incontro con la donna, un’esistenza di margine e d’invisibilità.
o politici della penna
che esultano nell’omologare»
«Anima mia, leggera va’ a Livorno, ti pregola cadenza inscrive nel suono il senso della sua dizione. E la versificazione «pausata e rotta» segna in profondità la poesia di Caproni il cui vero sogno (ha scritto Calvino) è il sogno, il non luogo illuminato da quella speciale luce che i sogni strappano dal buio delle palpebre, dove ogni cosa è insieme precisa e fluida. Penso che ancora debba essere compresa la profonda unità di Caproni che, dalle prime liriche amorevolmente rappresentate nella creazione di città-fantasma come Genova e Livorno, è approdato al tono tormentato e beffardo degli ultimi versi in cui «l’occhio di Dio» coincide con il suo gelo e si percepisce quel grande orrore metafisico «che è alla base del pensiero e dell’esistenza umana», secondo l’accattivante lettura di Giulio Giorello. Caproni è il protagonista di queste bellissime “conversazioni radiofoniche” con Michele Gullinucci e Guido Barbieri, registrate nel gennaio del 1988 per quattro domeniche nella trasmissione di Radio 3 Antologia e ora opportunamente raccolte in volume (Era così bello parlare, Il Melangolo, 280 pagine, 20 euro, con prefazione di Luigi Surdich).
e con la tua candela
timida, di nottetempo
fà un giro; e se n’hai il tempo
perlustra e scruta e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancora tra i vivi»:
Infine Alda Merini con le sue poesie d’amore raccolte ne La volpe e il sipario (Rizzoli, 103 pagine, 11,50 euro) L’amore e la sua assenza, la pena del corpo e i suoi avvilenti travagli, l’estasi per la bellezza guadagnata e posseduta soltanto dalla mente e dal cuore: la poesia di Alda Merini mescola tenerezza e orrore, visione e abbrutimento, sogni e violenza, lo sguardo reietto dell’emarginazione e l’assoluto della follia. L’eros travolgente e il tumulto dell’esistenza duramente provata, spezzata in modo vertiginoso dalla malattia mentale, occupano la scena di questi versi, in un orizzonte fisico racchiuso tra Brera e i Navigli, quando non è il letto di contenzione di una clinica psichatrica. Tenera e imperiosa, beffarda e arguta, la Merini con coraggio e distaccata brutalità guarda in se stessa. Fruga nella condizione umana trascinando il lettore negli abissi dell’anima raccontando il dolore di una perdita momentanea, “quando tu non ci sei”, con il doloroso stupore di una fiaba.
catastrofe / catastrofi
...e se fosse semplicemente il "loro" tempo ad esser finito?
La Repubblica 7.1.05
Dove precipita il nostro mondo
L'uomo davanti alla rottura epocale
Dalle attese millenaristiche ai violenti cataclismi sul pianeta Così reagiamo davanti al pericolo
Gli eventi catastrofici come lo tsunami rimettono in discussione certezze e scatenano paure
MASSIMO CACCIARI
GUIDO VIALE
Qual è l'apocalisse, la rivelazione, l'evento che porta alla luce la verità nascosta dei nostri tempi, l'eskaton in cui sono destinate a concludere la loro esistenza tutte le cose?
La discarica. Certo, più ancora che la discarica "controllata", dove i residui del nostro vivere si accumulano disordinatamente, ma in ben ordinati lotti geometrici, per venire periodicamente ricoperti mano a mano che avanza la "coltivazione" dell'impianto, questo si addice ai mille e mille depositi di rifiuti del "Terzo mondo": dove la raccolta differenziata, cioè il recupero del molto ancora utilizzabile che c'è nelle cose che scartiamo, avviene "a posteriori", frugando a mani nude - o mandando a frugare i bambini - nei cumuli di rifiuti che vengono scaricati senza sosta in scenari resi infernali dai continui processi di autocombustione. Le famose Smoky Mountains di Manila ne costituiscono forse l'esempio più celebre.
E perché mai la discarica è apocalisse, cioè rivelazione? Perché, come il suo fratello, l'inceneritore, esibisce in un solo colpo d´occhio la sostanza delle nostre vite quotidiane: l'incessante spreco di risorse sottratte alla Terra per trasformarle, nel più breve tempo possibile, in rifiuti carichi di inquinanti e destinati a trasformare in deserto l'ambiente in cui viviamo. Ma anche perché la catastrofe - l'apocalisse intesa in senso tradizionale - ha l'effetto di raggiungere in pochi istanti quello stesso risultato che il nostro stile di vita realizza nel corso del tempo. Lo comprova il panorama lasciato dietro di sé dal maremoto che ha colpito le coste dell'Oceano Indiano.
Ora quei territori assomigliano infatti a una immane discarica di rifiuti indifferenziati: dove tutti gli oggetti - mobili, suppellettili, ciabatte, giocattoli, attrezzature, automobili, barche, vagoni e traversine - che riempiono la vita quotidiana di ricchi e poveri, stranieri e locali, giacciono accatastati o dispersi a caso, là dove l'onda, ritirandosi, li ha depositati; insieme a fango, ramaglie, carogne di animali, macerie; a pozze di gasolio, di lubrificanti, di scarichi fognari fuoriusciti da tubature scoppiate. Ma anche a migliaia e migliaia di corpi - gonfi, dai visi tumefatti e dai tessuti in decomposizione - di uomini, donne e bambini di cui non si riesce più a riconoscere né il volto né la stirpe: se quella del turista internazionale o quella del suo servitore locale.
Il maremoto del Sudest asiatico, come tutte le catastrofi, ha avuto l'effetto vistoso di far coincidere, e ridurre a un singolo istante, i cicli di vita di miliardi di oggetti, sia usciti nuovi fiammanti da una fabbrica o da un grande magazzino, sia frutto di una sapienza manuale millenaria. Prima o poi, erano tutti destinati a trasformarsi in rifiuti; ma l'impeto del maremoto li ha sventagliati tutti insieme davanti agli occhi elettronici delle videocamere e sulla retina dei nostri teleschermi, in un quadro che ci restituisce in un colpo d'occhio la sostanza materiale delle vite quotidiane dell'intero pianeta.
D'altronde, i resti lasciati dal maremoto non si differenziano gran che, se non per dimensioni, dal panorama creato dal passaggio di un uragano - non solo più nei paesi tropicali; sempre più spesso, anche lungo le coste del paese più ricco e potente del mondo - o da un bombardamento a tappeto di una città dove si intende instaurare a forza la "democrazia". Sono tutti fenomeni recentemente accomunati sotto l'etichetta di "catastrofe umanitaria": prendendo a prestito dall'infame ossimoro "guerra umanitaria" un aggettivo che, non si sa perché, fa ormai coincidere l'essenza più autentica del genere umano - che cos'altro mai è l'umanità? - con l'entità di una strage. Tuttavia, che cosa ci sia di umanitario in una catastrofe è un quesito lessicale che attende ancora una risposta.
Anche per i miseri resti degli esseri umani periti nel disastro, la discarica creata in pochi istanti dal maremoto è di tipo tradizionale: priva persino di quella forma primigenia di "raccolta differenziata" che forse sta alle origini stessa della civiltà e della cultura: la separazione - dagli oggetti di cui ci disfiamo perché non ci servono più - dei corpi dei defunti: per riciclarli, attraverso un rito funebre, nella vita dell'aldilà. La maggioranza dei cadaveri delle persone sterminate dal maremoto viene infatti recuperata "dopo", semisepolta sotto cumuli di rifiuti; e quelli che non possono essere recuperati, vengono cremati in grandi pire insieme al resto del materiale trascinato dalle pale meccaniche; oppure sotterrati con quello in enormi tumuli sotto i cingoli dei bulldozer. Una necessità destinata a trasformare quelle spiagge, già paragonate al paradiso, in plaghe di revenants; e i balli dei turisti sopra di esse in una riedizione delle medioevali danze della Morte.
Oggi, in quelle plaghe desolate, il rischio maggiore sono le epidemie. Ma nel lungo periodo il pericolo proviene, in forma anche più intensa, dagli oggetti inanimati sparpagliati dalle onde. Perché quella morte di massa inferta dalla natura non ha messo capo a una "natura morta". La Terra è pur sempre un pianeta vivo, dove le precipitazioni, i venti, lo scorrere dei fiumi, le onde, la ricomparsa della vegetazione e l'incessante attività di uomini e animali sono stati per miliardi, milioni e migliaia di anni garanzia e strumenti di ricostituzione degli equilibri ecologici: sia quelli antecedenti ai disastri; sia quelli nuovi, instaurati proprio dai disastri.
Tutto ciò, tuttavia, era vero prima della rivoluzione industriale, prima della produzione di massa e, soprattutto, prima della comparsa nel mondo dei materiali sintetici; per i quali l'evoluzione naturale non ha avuto il tempo di elaborare forme di vita capaci di demolirne le molecole e di reintegrarli in un nuovo ciclo naturale. Per di più, molti di quei materiali e di quelle sostanze sono veleni, sia per l'uomo che per l'ambiente: cioè per gli altri esseri viventi.
Oggi quei materiali e quei veleni sono presenti, in modo caotico, tanto nei milioni di oggetti dispersi dall´onda lungo la fascia costiera dell'Oceano, e ridotti a rifiuto in un solo istante, quanto nelle migliaia di miliardi di prodotti che popolano il pianeta e destinati a raggiungere un po' per volta, ciascuno a modo suo, il proprio aldilà, fuori o dentro una discarica controllata o alla gheenna di un inceneritore. Domani la natura, in modo lento o rapido, li diluirà poco a poco all'interno di ecosistemi che filtrano e risanano: ma la catena alimentare torna spesso a concentrare i veleni in particolari organismi (la diossina nel latte delle mucche, il mercurio nei pesci, ecc.) e, alla fine, nel corpo degli uomini che se ne nutrono.
Nessuna scienza umana, nessuna tecnologia moderna - meno che mai in paesi dove è mancato persino un elementare sistema di allarme costituito da sirene e telefoni portatili - è in grado di individuare, bloccare e recuperare, prima che si spargano dappertutto, quei veleni: materiali apparentemente innocui, fino a quando capiamo che non sappiamo più come recuperarli, come vernici, colle, solventi, batterie, additivi, metalli pesanti, plastiche di tutti i tipi, fitofarmaci, pesticidi, Ogm, ecc. Ma anche mine antiuomo dissotterrate dall´onda (Sri Lanka); scorie nucleari di centrali costruite in riva al mare (Madras); o probabili arsenali batteriologici accumulati tra ignare popolazioni di "selvaggi" (isole Andamane).
Il vettore di questa peste planetaria è la continua messa in circolazione di nuovi prodotti: non per dare a tutti il necessario per vivere bene; ma per imporre a una minoranza, molti o pochi che siano, l'affanno di un numero crescente di oggetti superflui: vivendo, tra l'altro, sempre di più - come i siti turistici dell'Oceano Indiano sono lì a dimostrare - a contatto diretto con altri esseri umani, la maggioranza, che non hanno niente. E che rischiano di avere sempre meno.
La Repubblica 7.1.05
COME RELIGIONE E FILOSOFIA HANNO INTERPRETATO GLI EVENTI CATASTROFICI
la battaglia finale e il corso della storia
L'angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede una unica catastrofe, che ammassa macerie su macerie
L'umanità intera era perita L'unico uomo rimasto era lui. Egli rifletté su quale catastrofe avesse potuto provocare la fine dell'umanità
Non si vive "in attesa di una catastrofe", la catastrofe è vivente dentro l'umanità contemporanea come una divinità terribile nel suo santuario di elezione
La fine del mondo non è un problema? È invece l'atmosfera da fine dei tempi, è la paura della catastrofe cosmica a offrire spunti alla riflessione
GIOVANNI FILORAMO
Quando Nietzsche, in Umano troppo umano, denunciava l´anacronismo della religione cristiana e di Cristo, «un saggio che si rivolge a noi ... segnalandoci i segni della imminente fine del mondo ... è verosimile che cose del genere vengano ancora credute?», non poteva certo prevedere le rinnovate fortune che l'Apocalisse, proprio con i suoi scenari catastrofici di fine del mondo, avrebbe continuato a conoscere. Anche se fino a Newton e a Bossuet, e cioè fino a quando il paradigma della storia sacra riuscì a orientare la storia profana, l'Apocalisse continuò a fungere da chiave che rivelava, a partire dall'inizio, il cammino del mondo verso una fine prestabilita, la messa in discussione di questo paradigma coincise con l'eclisse dell'Apocalisse. Criticata da Kant, metabolizzata dalla rilettura in chiave secolarizzata della storia umana cara alla filosofia della storia tedesca, da Lessing a Hegel al giovane Marx, la prospettiva che essa aveva veicolato pareva, alla fine dell'Ottocento, effettivamente "superata" dal disvelamento inarrestabile del mistero della natura promesso, col suo intrinseco ottimismo, dall'evoluzionismo scientifico. Con le sue catastrofi, il Novecento ha riattivato l'attesa della fine e, dunque, il ricorso agli scenari tipici della tradizione apocalittica giudeo-cristiana. Dopo Nietzsche, d'altro canto, l'avvento del nichilismo ha troncato il cordone ombelicale con la "rivelazione" della dimensione trascendente della storia, iscritta nel codice genetico dell´"apocalisse" come "disvelamento" del piano provvidenziale di Dio. Conseguenza ancor più significativa: i "travagli della fine" non preluderanno più alla parusia del Signore, all'avvento del regno millenario dei giusti e alla discesa della Gerusalemme celeste. Le catastrofi non saranno altro che catastrofi prive di senso.
L'apocalittica è un fenomeno che travalica i confini della tradizione giudaico-cristiana. Speculazioni mitiche e scenari catastrofici di fine del mondo, infatti, sono presenti anche in altre tradizioni religiose del mondo antico, dall'India all'Iran, dall'Egitto alla Grecia ai Germani. Ciò che caratterizza la tradizione monoteistica, d'altro canto, è la sua peculiare concezione della storia, conseguenza della peculiare concezione della divinità: un unico Dio, un unico cosmo, di conseguenza, un'unica fine dell'unico mondo da Lui creato. Di qui l'assolutezza delle sue proposte apocalittiche, che non conoscono la ciclicità dell'eterno ritorno di mondi molteplici continuamente rinnovati da catastrofi che non sono mai ultime e definitive. La visione dualistica tipica dell'apocalittica giudeo-cristiana, inoltre, che vede il cosmo preda delle forze del male e la battaglia finale tra forze del bene e forze del male come unica via di scampo, non fa che rinvigorire questa assolutezza. La vicenda apocalittica non è uno tra i tanti avvenimenti della nostra storia, ma l'evento non modificabile, non ripetibile, non evitabile, che la conclude.
Si spiega, in questo modo, l'interesse spasmodico per decifrare i segni della fine, una fine che avrà luogo all'improvviso, quando meno ce l'aspettiamo, quando il sole splende all'orizzonte e la natura si mostra in tutto il suo splendore, dal momento che «come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo» (Matteo 24, 27). Per questo occorre essere preparati, come insegnano le parabole matteane del fico, del servo fidato e prudente, delle dieci vergini, a una fine catastrofica («finché venne il diluvio e inghiottì tutti») assimilata a quello che è il modello di tutte le catastrofi: il diluvio, segno di morte e rinascita cosmica.
Per secoli, il paradigma apocalittico non è stato solo e tanto un sinonimo di catastrofe risolutiva, morte e risurrezione di epoche e civiltà, quanto la possibilità di poter disporre di un linguaggio, fatto di segni alti e imprevisti, preposti ad avvertire l'umanità circa le svolte, sempre traumatiche e decisive, del suo travagliato cammino: dalle invasioni di popoli barbari, che caratterizzano lo zodiaco apocalittico medievale, alle catastrofi naturali e cosmiche, che sembrano sempre più contraddistinguere la nostra epoca.
Se il Novecento sembra rappresentato da apocalissi politiche, il nuovo secolo sembra annunciarsi sotto il segno di apocalissi cosmiche. Il posto della cometa di Halley, che nel 1910, col suo passaggio, riattivò in tutto il mondo il segnale del disastro apocalittico, sembra oggi sempre più preso, sullo sfondo della crisi ecologica, dalle catastrofi naturali. Gli schermi del cinema e della televisione, specchi del nostro tempo, testimoniano della popolarità dei film catastrofisti: ecodisastri, biodisastri, disastri con meteoriti, con interi astri, invasioni di mostri e alieni ispirano l'epica della distruzione globale che minaccia la fine della civiltà, l'estinzione della specie umana, la cancellazione del nostro pianeta. Certo, l'apocalisse politica, col suo corteo di profeti di sventura, di anticristi, di forze del male, di Gog e Magog che verranno distrutti dal messia di turno, tenuta in vita dai fondamentalisti, non ha perso d'importanza. Ma il vaso di Pandora scoperto dalla crisi ecologica, con il suo corteo di disastri, ha contribuito a rinvigorire l'importanza degli scenari di catastrofe cosmica. Se è vero, come ricordava E. De Martino, che l'apocalittica è un sistema di segni relativo allo specifico rischio che corre una cultura in una situazione di crisi radicale; se è altresì vero, come hanno insegnato pensatori apocalittici quali Gioacchino da Fiore, che l'Apocalisse, ispirata o semplicemente immaginata, organizza il tempo, fornisce preziosi punti di riferimento e dota il futuro di un futuro, il ritorno dell'attenzione sui segni cosmici della fine, in fondo inestricabilmente legati coi segni politici della fine creati dalla mano stessa dell'uomo, è un avvertimento per cogliere apocalitticamente, ma anche laicamente, en tachei, presto, subito, il senso profondo contenuto nel messaggio del tempo apocalittico della fine: un tempo particolare, che può rivelarsi autodistruttivo, ma che può anche diventare fattivo e creativo.
La Repubblica 7.1.05
da Benjamin a Taubes e Bloch: il tema delle rovine
Vivono il ruolo di superstiti. Sono i pensatori apocalittici
Dai cultori del messianismo agli amanti dell'utopia
Quando il progresso finisce nella tempesta
ANDREA TAGLIAPIETRA
L'Apocalisse, scriveva Gilles Deleuze introducendo un'edizione francese dell'Apocalypse di Lawrence, è il libro di tutti coloro che si pensano come superstiti. L'attualità filosofica dell'Apocalisse non sta nel gioco delle corrispondenze storiche, nei meccanismi figurali che pur appartengono, da Ticonio a Gioacchino da Fiore e oltre, alla sua veneranda tradizione esegetica, né nel sentimento sovrastorico della fine del mondo, con lo spettacolare corollario di catastrofi naturali e culturali che esso trascina con sé. Il «grande macchinario» dell'Apocalisse, suggeriva Deleuze, ispira ai moderni un modo di vivere e soprattutto di giudicare che li trasforma in ingranaggi di un immenso meccanismo giudiziario. In una lettera inedita indirizzata a Carl Schmitt, Jacob Taubes sembra concordare, in parte, con Deleuze: apocalittica significa comprendere che «il tempo è a termine», ovvero che esso va inteso come «ciò che non può cambiare direzione sulla «strada a senso unico che porta al Giudizio». L'allusione all'Einbahnstrasse che salda, qui e ora, il tempo al giudizio, rimanda, inequivoca, a Walter Benjamin e alla celebre descrizione dell'Angelus Novus, che trasfigura l'acquerello di Klee in una barocca allegoria dell'apocalisse moderna. L'angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Nel suo sguardo stupito la catena degli eventi trascorsi si muta in una sola catastrofe. Ma l'angelo non ha tempo per ridestare i morti e ricomporre l'infranto. La tempesta del progresso lo spinge lontano, nel futuro cieco che gli sta alle spalle. Nello stupore dell'angelo innanzi alla catastrofe Taubes può cogliere il riflesso nichilistico della caducità della natura, che rimarrebbe irredenta qualora fosse senza speranza nel Giudizio.
Tuttavia lo stupore non è inerzia, né frustrazione di un giudizio che non giunge in tempo o per cui non c'è più tempo. Non è neppure il musicale "glissando" di quell'apocalisse "senza giudizio", o di quel disastro che «rovina tutto lasciando tutto immutato», annunciati da Jacques Derrida e da Maurice Blanchot. Lo stupore è già attesa, è già cura, è già «debole forza messianica». Lo stupore è la tonalità più propria, emotiva e insieme conoscitiva, dell´apocalittico. Quel balenare fulmineo nel presente del passato non risarcito che congiunge il biblico «vieni e vedi» del Veggente di Patmos alla benjaminiana porticina dell'attimo che, come l'occhio stupito, rimane sempre spalancata sulla venuta del Messia. Ma lo stupore è anche quella pensosa perplessità, tutt'altro che rassegnata, che distingue il messianismo apocalittico di Benjamin dalla baldanzosa fiducia nello «spirito dell'utopia» di Ernst Bloch, per cui, ai margini bruni della catastrofe, sorge sempre il luogo del «novum», dove la speranza potrà costruire nell'azzurro.
Dove precipita il nostro mondo
L'uomo davanti alla rottura epocale
Dalle attese millenaristiche ai violenti cataclismi sul pianeta Così reagiamo davanti al pericolo
Gli eventi catastrofici come lo tsunami rimettono in discussione certezze e scatenano paure
MASSIMO CACCIARI
GUIDO VIALE
Qual è l'apocalisse, la rivelazione, l'evento che porta alla luce la verità nascosta dei nostri tempi, l'eskaton in cui sono destinate a concludere la loro esistenza tutte le cose?
La discarica. Certo, più ancora che la discarica "controllata", dove i residui del nostro vivere si accumulano disordinatamente, ma in ben ordinati lotti geometrici, per venire periodicamente ricoperti mano a mano che avanza la "coltivazione" dell'impianto, questo si addice ai mille e mille depositi di rifiuti del "Terzo mondo": dove la raccolta differenziata, cioè il recupero del molto ancora utilizzabile che c'è nelle cose che scartiamo, avviene "a posteriori", frugando a mani nude - o mandando a frugare i bambini - nei cumuli di rifiuti che vengono scaricati senza sosta in scenari resi infernali dai continui processi di autocombustione. Le famose Smoky Mountains di Manila ne costituiscono forse l'esempio più celebre.
E perché mai la discarica è apocalisse, cioè rivelazione? Perché, come il suo fratello, l'inceneritore, esibisce in un solo colpo d´occhio la sostanza delle nostre vite quotidiane: l'incessante spreco di risorse sottratte alla Terra per trasformarle, nel più breve tempo possibile, in rifiuti carichi di inquinanti e destinati a trasformare in deserto l'ambiente in cui viviamo. Ma anche perché la catastrofe - l'apocalisse intesa in senso tradizionale - ha l'effetto di raggiungere in pochi istanti quello stesso risultato che il nostro stile di vita realizza nel corso del tempo. Lo comprova il panorama lasciato dietro di sé dal maremoto che ha colpito le coste dell'Oceano Indiano.
Ora quei territori assomigliano infatti a una immane discarica di rifiuti indifferenziati: dove tutti gli oggetti - mobili, suppellettili, ciabatte, giocattoli, attrezzature, automobili, barche, vagoni e traversine - che riempiono la vita quotidiana di ricchi e poveri, stranieri e locali, giacciono accatastati o dispersi a caso, là dove l'onda, ritirandosi, li ha depositati; insieme a fango, ramaglie, carogne di animali, macerie; a pozze di gasolio, di lubrificanti, di scarichi fognari fuoriusciti da tubature scoppiate. Ma anche a migliaia e migliaia di corpi - gonfi, dai visi tumefatti e dai tessuti in decomposizione - di uomini, donne e bambini di cui non si riesce più a riconoscere né il volto né la stirpe: se quella del turista internazionale o quella del suo servitore locale.
Il maremoto del Sudest asiatico, come tutte le catastrofi, ha avuto l'effetto vistoso di far coincidere, e ridurre a un singolo istante, i cicli di vita di miliardi di oggetti, sia usciti nuovi fiammanti da una fabbrica o da un grande magazzino, sia frutto di una sapienza manuale millenaria. Prima o poi, erano tutti destinati a trasformarsi in rifiuti; ma l'impeto del maremoto li ha sventagliati tutti insieme davanti agli occhi elettronici delle videocamere e sulla retina dei nostri teleschermi, in un quadro che ci restituisce in un colpo d'occhio la sostanza materiale delle vite quotidiane dell'intero pianeta.
D'altronde, i resti lasciati dal maremoto non si differenziano gran che, se non per dimensioni, dal panorama creato dal passaggio di un uragano - non solo più nei paesi tropicali; sempre più spesso, anche lungo le coste del paese più ricco e potente del mondo - o da un bombardamento a tappeto di una città dove si intende instaurare a forza la "democrazia". Sono tutti fenomeni recentemente accomunati sotto l'etichetta di "catastrofe umanitaria": prendendo a prestito dall'infame ossimoro "guerra umanitaria" un aggettivo che, non si sa perché, fa ormai coincidere l'essenza più autentica del genere umano - che cos'altro mai è l'umanità? - con l'entità di una strage. Tuttavia, che cosa ci sia di umanitario in una catastrofe è un quesito lessicale che attende ancora una risposta.
Anche per i miseri resti degli esseri umani periti nel disastro, la discarica creata in pochi istanti dal maremoto è di tipo tradizionale: priva persino di quella forma primigenia di "raccolta differenziata" che forse sta alle origini stessa della civiltà e della cultura: la separazione - dagli oggetti di cui ci disfiamo perché non ci servono più - dei corpi dei defunti: per riciclarli, attraverso un rito funebre, nella vita dell'aldilà. La maggioranza dei cadaveri delle persone sterminate dal maremoto viene infatti recuperata "dopo", semisepolta sotto cumuli di rifiuti; e quelli che non possono essere recuperati, vengono cremati in grandi pire insieme al resto del materiale trascinato dalle pale meccaniche; oppure sotterrati con quello in enormi tumuli sotto i cingoli dei bulldozer. Una necessità destinata a trasformare quelle spiagge, già paragonate al paradiso, in plaghe di revenants; e i balli dei turisti sopra di esse in una riedizione delle medioevali danze della Morte.
Oggi, in quelle plaghe desolate, il rischio maggiore sono le epidemie. Ma nel lungo periodo il pericolo proviene, in forma anche più intensa, dagli oggetti inanimati sparpagliati dalle onde. Perché quella morte di massa inferta dalla natura non ha messo capo a una "natura morta". La Terra è pur sempre un pianeta vivo, dove le precipitazioni, i venti, lo scorrere dei fiumi, le onde, la ricomparsa della vegetazione e l'incessante attività di uomini e animali sono stati per miliardi, milioni e migliaia di anni garanzia e strumenti di ricostituzione degli equilibri ecologici: sia quelli antecedenti ai disastri; sia quelli nuovi, instaurati proprio dai disastri.
Tutto ciò, tuttavia, era vero prima della rivoluzione industriale, prima della produzione di massa e, soprattutto, prima della comparsa nel mondo dei materiali sintetici; per i quali l'evoluzione naturale non ha avuto il tempo di elaborare forme di vita capaci di demolirne le molecole e di reintegrarli in un nuovo ciclo naturale. Per di più, molti di quei materiali e di quelle sostanze sono veleni, sia per l'uomo che per l'ambiente: cioè per gli altri esseri viventi.
Oggi quei materiali e quei veleni sono presenti, in modo caotico, tanto nei milioni di oggetti dispersi dall´onda lungo la fascia costiera dell'Oceano, e ridotti a rifiuto in un solo istante, quanto nelle migliaia di miliardi di prodotti che popolano il pianeta e destinati a raggiungere un po' per volta, ciascuno a modo suo, il proprio aldilà, fuori o dentro una discarica controllata o alla gheenna di un inceneritore. Domani la natura, in modo lento o rapido, li diluirà poco a poco all'interno di ecosistemi che filtrano e risanano: ma la catena alimentare torna spesso a concentrare i veleni in particolari organismi (la diossina nel latte delle mucche, il mercurio nei pesci, ecc.) e, alla fine, nel corpo degli uomini che se ne nutrono.
Nessuna scienza umana, nessuna tecnologia moderna - meno che mai in paesi dove è mancato persino un elementare sistema di allarme costituito da sirene e telefoni portatili - è in grado di individuare, bloccare e recuperare, prima che si spargano dappertutto, quei veleni: materiali apparentemente innocui, fino a quando capiamo che non sappiamo più come recuperarli, come vernici, colle, solventi, batterie, additivi, metalli pesanti, plastiche di tutti i tipi, fitofarmaci, pesticidi, Ogm, ecc. Ma anche mine antiuomo dissotterrate dall´onda (Sri Lanka); scorie nucleari di centrali costruite in riva al mare (Madras); o probabili arsenali batteriologici accumulati tra ignare popolazioni di "selvaggi" (isole Andamane).
Il vettore di questa peste planetaria è la continua messa in circolazione di nuovi prodotti: non per dare a tutti il necessario per vivere bene; ma per imporre a una minoranza, molti o pochi che siano, l'affanno di un numero crescente di oggetti superflui: vivendo, tra l'altro, sempre di più - come i siti turistici dell'Oceano Indiano sono lì a dimostrare - a contatto diretto con altri esseri umani, la maggioranza, che non hanno niente. E che rischiano di avere sempre meno.
La Repubblica 7.1.05
COME RELIGIONE E FILOSOFIA HANNO INTERPRETATO GLI EVENTI CATASTROFICI
la battaglia finale e il corso della storia
L'angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede una unica catastrofe, che ammassa macerie su macerie
L'umanità intera era perita L'unico uomo rimasto era lui. Egli rifletté su quale catastrofe avesse potuto provocare la fine dell'umanità
Non si vive "in attesa di una catastrofe", la catastrofe è vivente dentro l'umanità contemporanea come una divinità terribile nel suo santuario di elezione
La fine del mondo non è un problema? È invece l'atmosfera da fine dei tempi, è la paura della catastrofe cosmica a offrire spunti alla riflessione
GIOVANNI FILORAMO
Quando Nietzsche, in Umano troppo umano, denunciava l´anacronismo della religione cristiana e di Cristo, «un saggio che si rivolge a noi ... segnalandoci i segni della imminente fine del mondo ... è verosimile che cose del genere vengano ancora credute?», non poteva certo prevedere le rinnovate fortune che l'Apocalisse, proprio con i suoi scenari catastrofici di fine del mondo, avrebbe continuato a conoscere. Anche se fino a Newton e a Bossuet, e cioè fino a quando il paradigma della storia sacra riuscì a orientare la storia profana, l'Apocalisse continuò a fungere da chiave che rivelava, a partire dall'inizio, il cammino del mondo verso una fine prestabilita, la messa in discussione di questo paradigma coincise con l'eclisse dell'Apocalisse. Criticata da Kant, metabolizzata dalla rilettura in chiave secolarizzata della storia umana cara alla filosofia della storia tedesca, da Lessing a Hegel al giovane Marx, la prospettiva che essa aveva veicolato pareva, alla fine dell'Ottocento, effettivamente "superata" dal disvelamento inarrestabile del mistero della natura promesso, col suo intrinseco ottimismo, dall'evoluzionismo scientifico. Con le sue catastrofi, il Novecento ha riattivato l'attesa della fine e, dunque, il ricorso agli scenari tipici della tradizione apocalittica giudeo-cristiana. Dopo Nietzsche, d'altro canto, l'avvento del nichilismo ha troncato il cordone ombelicale con la "rivelazione" della dimensione trascendente della storia, iscritta nel codice genetico dell´"apocalisse" come "disvelamento" del piano provvidenziale di Dio. Conseguenza ancor più significativa: i "travagli della fine" non preluderanno più alla parusia del Signore, all'avvento del regno millenario dei giusti e alla discesa della Gerusalemme celeste. Le catastrofi non saranno altro che catastrofi prive di senso.
L'apocalittica è un fenomeno che travalica i confini della tradizione giudaico-cristiana. Speculazioni mitiche e scenari catastrofici di fine del mondo, infatti, sono presenti anche in altre tradizioni religiose del mondo antico, dall'India all'Iran, dall'Egitto alla Grecia ai Germani. Ciò che caratterizza la tradizione monoteistica, d'altro canto, è la sua peculiare concezione della storia, conseguenza della peculiare concezione della divinità: un unico Dio, un unico cosmo, di conseguenza, un'unica fine dell'unico mondo da Lui creato. Di qui l'assolutezza delle sue proposte apocalittiche, che non conoscono la ciclicità dell'eterno ritorno di mondi molteplici continuamente rinnovati da catastrofi che non sono mai ultime e definitive. La visione dualistica tipica dell'apocalittica giudeo-cristiana, inoltre, che vede il cosmo preda delle forze del male e la battaglia finale tra forze del bene e forze del male come unica via di scampo, non fa che rinvigorire questa assolutezza. La vicenda apocalittica non è uno tra i tanti avvenimenti della nostra storia, ma l'evento non modificabile, non ripetibile, non evitabile, che la conclude.
Si spiega, in questo modo, l'interesse spasmodico per decifrare i segni della fine, una fine che avrà luogo all'improvviso, quando meno ce l'aspettiamo, quando il sole splende all'orizzonte e la natura si mostra in tutto il suo splendore, dal momento che «come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo» (Matteo 24, 27). Per questo occorre essere preparati, come insegnano le parabole matteane del fico, del servo fidato e prudente, delle dieci vergini, a una fine catastrofica («finché venne il diluvio e inghiottì tutti») assimilata a quello che è il modello di tutte le catastrofi: il diluvio, segno di morte e rinascita cosmica.
Per secoli, il paradigma apocalittico non è stato solo e tanto un sinonimo di catastrofe risolutiva, morte e risurrezione di epoche e civiltà, quanto la possibilità di poter disporre di un linguaggio, fatto di segni alti e imprevisti, preposti ad avvertire l'umanità circa le svolte, sempre traumatiche e decisive, del suo travagliato cammino: dalle invasioni di popoli barbari, che caratterizzano lo zodiaco apocalittico medievale, alle catastrofi naturali e cosmiche, che sembrano sempre più contraddistinguere la nostra epoca.
Se il Novecento sembra rappresentato da apocalissi politiche, il nuovo secolo sembra annunciarsi sotto il segno di apocalissi cosmiche. Il posto della cometa di Halley, che nel 1910, col suo passaggio, riattivò in tutto il mondo il segnale del disastro apocalittico, sembra oggi sempre più preso, sullo sfondo della crisi ecologica, dalle catastrofi naturali. Gli schermi del cinema e della televisione, specchi del nostro tempo, testimoniano della popolarità dei film catastrofisti: ecodisastri, biodisastri, disastri con meteoriti, con interi astri, invasioni di mostri e alieni ispirano l'epica della distruzione globale che minaccia la fine della civiltà, l'estinzione della specie umana, la cancellazione del nostro pianeta. Certo, l'apocalisse politica, col suo corteo di profeti di sventura, di anticristi, di forze del male, di Gog e Magog che verranno distrutti dal messia di turno, tenuta in vita dai fondamentalisti, non ha perso d'importanza. Ma il vaso di Pandora scoperto dalla crisi ecologica, con il suo corteo di disastri, ha contribuito a rinvigorire l'importanza degli scenari di catastrofe cosmica. Se è vero, come ricordava E. De Martino, che l'apocalittica è un sistema di segni relativo allo specifico rischio che corre una cultura in una situazione di crisi radicale; se è altresì vero, come hanno insegnato pensatori apocalittici quali Gioacchino da Fiore, che l'Apocalisse, ispirata o semplicemente immaginata, organizza il tempo, fornisce preziosi punti di riferimento e dota il futuro di un futuro, il ritorno dell'attenzione sui segni cosmici della fine, in fondo inestricabilmente legati coi segni politici della fine creati dalla mano stessa dell'uomo, è un avvertimento per cogliere apocalitticamente, ma anche laicamente, en tachei, presto, subito, il senso profondo contenuto nel messaggio del tempo apocalittico della fine: un tempo particolare, che può rivelarsi autodistruttivo, ma che può anche diventare fattivo e creativo.
La Repubblica 7.1.05
da Benjamin a Taubes e Bloch: il tema delle rovine
Vivono il ruolo di superstiti. Sono i pensatori apocalittici
Dai cultori del messianismo agli amanti dell'utopia
Quando il progresso finisce nella tempesta
ANDREA TAGLIAPIETRA
L'Apocalisse, scriveva Gilles Deleuze introducendo un'edizione francese dell'Apocalypse di Lawrence, è il libro di tutti coloro che si pensano come superstiti. L'attualità filosofica dell'Apocalisse non sta nel gioco delle corrispondenze storiche, nei meccanismi figurali che pur appartengono, da Ticonio a Gioacchino da Fiore e oltre, alla sua veneranda tradizione esegetica, né nel sentimento sovrastorico della fine del mondo, con lo spettacolare corollario di catastrofi naturali e culturali che esso trascina con sé. Il «grande macchinario» dell'Apocalisse, suggeriva Deleuze, ispira ai moderni un modo di vivere e soprattutto di giudicare che li trasforma in ingranaggi di un immenso meccanismo giudiziario. In una lettera inedita indirizzata a Carl Schmitt, Jacob Taubes sembra concordare, in parte, con Deleuze: apocalittica significa comprendere che «il tempo è a termine», ovvero che esso va inteso come «ciò che non può cambiare direzione sulla «strada a senso unico che porta al Giudizio». L'allusione all'Einbahnstrasse che salda, qui e ora, il tempo al giudizio, rimanda, inequivoca, a Walter Benjamin e alla celebre descrizione dell'Angelus Novus, che trasfigura l'acquerello di Klee in una barocca allegoria dell'apocalisse moderna. L'angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Nel suo sguardo stupito la catena degli eventi trascorsi si muta in una sola catastrofe. Ma l'angelo non ha tempo per ridestare i morti e ricomporre l'infranto. La tempesta del progresso lo spinge lontano, nel futuro cieco che gli sta alle spalle. Nello stupore dell'angelo innanzi alla catastrofe Taubes può cogliere il riflesso nichilistico della caducità della natura, che rimarrebbe irredenta qualora fosse senza speranza nel Giudizio.
Tuttavia lo stupore non è inerzia, né frustrazione di un giudizio che non giunge in tempo o per cui non c'è più tempo. Non è neppure il musicale "glissando" di quell'apocalisse "senza giudizio", o di quel disastro che «rovina tutto lasciando tutto immutato», annunciati da Jacques Derrida e da Maurice Blanchot. Lo stupore è già attesa, è già cura, è già «debole forza messianica». Lo stupore è la tonalità più propria, emotiva e insieme conoscitiva, dell´apocalittico. Quel balenare fulmineo nel presente del passato non risarcito che congiunge il biblico «vieni e vedi» del Veggente di Patmos alla benjaminiana porticina dell'attimo che, come l'occhio stupito, rimane sempre spalancata sulla venuta del Messia. Ma lo stupore è anche quella pensosa perplessità, tutt'altro che rassegnata, che distingue il messianismo apocalittico di Benjamin dalla baldanzosa fiducia nello «spirito dell'utopia» di Ernst Bloch, per cui, ai margini bruni della catastrofe, sorge sempre il luogo del «novum», dove la speranza potrà costruire nell'azzurro.
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