L'Unità 12 Luglio 2005
CARA UNITÀ
L’acqua non scorre
nella fontana di Fagioli
All’Unità, Cronaca di Roma, a seguito dell’articolo per la rubrica “l’occhio” di Jolanda Bufalini del 2 luglio.
Rispondiamo con piacere alla segnalazione di Jolanda Bufalini in merito alla fontana di Largo Ettore Rolli, ringraziandola di un’attenzione che come progettisti sentiamo preziosa e opportuna.
Il progetto di questa piazza, voluta dal Comune di Roma, ha recuperato alla destinazione di spazio pubblico (prevista dal Piano Regolatore) un’area vuota occupata dalle macchine. Il progetto da noi elaborato è stato realizzato dal Servizio Giardini, già competente per il giardinetto esistente, ed è stato completato nel 2000.
Per sviluppare il progetto, noi architetti abbiamo domandato a Massimo Fagioli un’immagine che potesse definire il nuovo spazio urbano attraverso una forte presenza artistica.
Dalle idee e dai disegni di Massimo Fagioli sono scaturite una piazza, per altro non compiutamente realizzata, ed una originalissima fontana, una scultura di bronzo che si innalza verso il cielo, sostenendo quattro semisfere trasparenti che versano l’acqua in un piccolo bacino ellittico, che la raccoglie. La fontana è dotata di un impianto idrico, completo di ricircolo, di trattamento dell’acqua e di sistema di scarico. Eppure l’acqua non scorre, ed anche noi, come la nostra giornalista, soffriamo di questa mancanza che la priva della sua gioiosa e vitale espressione.
Vorremmo invece vederla funzionare, come merita un’opera artistica e poetica di grande bellezza, unica e rara nella nostra città.
Firmato: gli architetti Daniela Gualdi, Corrado Landi, Francesco Mirone.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 12 luglio 2005
al Senato della Repubblica
una legge contro la «manipolazione mentale»...
La Stampa 12 Luglio 2005
L’opinione
Perché mai resuscitare il plagio?
MICHELE AINIS
Al Senato è in dirittura d'arrivo la legge sulla «manipolazione mentale», che castiga con una pena da 2 a 6 anni di galera chiunque s'impadronisca della volontà altrui, soggiogandola alla propria. In breve, questa legge reintroduce - senza neppure l'onestà di nominarlo - il reato di plagio, che la Corte costituzionale aveva espulso nel 1981. Ne parlo qui sommessamente, e con un fil di voce: non vorrei che domani un pm mi accusasse d'aver plagiato i miei lettori.
Per la verità, a rileggere quella sentenza ormai lontana, il pericolo parrebbe scongiurato. Il plagio è un delitto impossibile, disse infatti allora la Consulta: perché nessuno può rendere un'altra persona totalmente succuba, e perché in caso contrario andrebbe punita ogni situazione di dipendenza psichica, come il rapporto fra due amanti, fra il maestro e l'allievo, fra il medico e il paziente. Del resto in oltre mezzo secolo di vigenza l'unico italiano condannato (nel 1968) per questo reato fu Aldo Braibanti, un ex partigiano colpevole d'intrattenere relazioni omosessuali con un giovane.
E allora perché mai resuscitare adesso quel fantasma? La risposta è nei dibattiti tenuti in Parlamento: serve un'arma contro le «sette», contro i predicatori del demonio. Eppure anche i cristiani delle catacombe vennero accusati di convertire usando sortilegi. Eppure la stessa accusa risuonò nel XVI secolo contro le streghe, nel XIX contro l'ipnotismo. Sarà per questo che l'anno scorso 47 studiosi di storia e sociologia delle religioni di ogni parte del mondo hanno scritto a Ciampi e Berlusconi, chiedendo di bloccare questa legge: senza precise garanzie giuridiche, essa potrà infatti colpire qualsiasi gruppo - sia religioso che politico - impopolare presso l'opinione pubblica. D'altronde le teorie del lavaggio del cervello hanno la propria scaturigine nella difficoltà d'accettare comportamenti anomali, fuori delle righe; non a caso, durante gli anni della Guerra fredda, la Cia affermava che nessuno diventa spontaneamente comunista.
Poi, certo, rimane l'esigenza di punire chi imbroglia, chi truffa, chi abusa della credulità popolare. Ma per questo esistono altre norme, dalla circonvenzione d'incapace alla riduzione in schiavitù. Come spesso accade, la libertà si garantisce con una legge in meno, non con una legge in più.
L’opinione
Perché mai resuscitare il plagio?
MICHELE AINIS
Al Senato è in dirittura d'arrivo la legge sulla «manipolazione mentale», che castiga con una pena da 2 a 6 anni di galera chiunque s'impadronisca della volontà altrui, soggiogandola alla propria. In breve, questa legge reintroduce - senza neppure l'onestà di nominarlo - il reato di plagio, che la Corte costituzionale aveva espulso nel 1981. Ne parlo qui sommessamente, e con un fil di voce: non vorrei che domani un pm mi accusasse d'aver plagiato i miei lettori.
Per la verità, a rileggere quella sentenza ormai lontana, il pericolo parrebbe scongiurato. Il plagio è un delitto impossibile, disse infatti allora la Consulta: perché nessuno può rendere un'altra persona totalmente succuba, e perché in caso contrario andrebbe punita ogni situazione di dipendenza psichica, come il rapporto fra due amanti, fra il maestro e l'allievo, fra il medico e il paziente. Del resto in oltre mezzo secolo di vigenza l'unico italiano condannato (nel 1968) per questo reato fu Aldo Braibanti, un ex partigiano colpevole d'intrattenere relazioni omosessuali con un giovane.
E allora perché mai resuscitare adesso quel fantasma? La risposta è nei dibattiti tenuti in Parlamento: serve un'arma contro le «sette», contro i predicatori del demonio. Eppure anche i cristiani delle catacombe vennero accusati di convertire usando sortilegi. Eppure la stessa accusa risuonò nel XVI secolo contro le streghe, nel XIX contro l'ipnotismo. Sarà per questo che l'anno scorso 47 studiosi di storia e sociologia delle religioni di ogni parte del mondo hanno scritto a Ciampi e Berlusconi, chiedendo di bloccare questa legge: senza precise garanzie giuridiche, essa potrà infatti colpire qualsiasi gruppo - sia religioso che politico - impopolare presso l'opinione pubblica. D'altronde le teorie del lavaggio del cervello hanno la propria scaturigine nella difficoltà d'accettare comportamenti anomali, fuori delle righe; non a caso, durante gli anni della Guerra fredda, la Cia affermava che nessuno diventa spontaneamente comunista.
Poi, certo, rimane l'esigenza di punire chi imbroglia, chi truffa, chi abusa della credulità popolare. Ma per questo esistono altre norme, dalla circonvenzione d'incapace alla riduzione in schiavitù. Come spesso accade, la libertà si garantisce con una legge in meno, non con una legge in più.
la rétina
Yahoo! Salute 12.7.05
La curiosità dell'uomo inizia già dalla retina
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore
David Frati
L’innata curiosità dell’uomo per le cose nuove inizia già a livello dell’occhio. La retina cerca infatti senza sosta oggetti nuovi nel campo visivo, adattando dinamicamente la sua azione, ignorando gli oggetti conosciuti e concentrandosi sulle novità. Lo svela una ricerca pubblicata dalla rivista Nature.
I ricercatori della Harvard University hanno scoperto che questo principio della ricerca della novità è operativo in molti ambienti visivi. “I nostri occhi raccontano il mondo visivo al nostro cervello, ma non del tutto fedelmente”, spiega Markus Meister, professore di Biologia Cellulare e Molecolare ad Harvard. “Ciò che fa la retina è uno schizzo della realtà, come un disegnatore, mettendo in evidenza alcuni aspetti e trascurando le aree meno interessanti”.
“Per esempio”, aggiunge Meister, “in ambienti visivi come foreste o prati, con tanti elementi verticali e pochi orizzontali, la retina tende a sopprimere le linee verticali e a sottolineare le rare linee orizzontali”.
Meister ed il suo team hanno esaminato i segnali neurali nelle cellule dei gangli retinali, che trasportano i segnali visivi dall’occhio al cervello. Si è notato che queste cellule tendono a registrare differenze locali e spaziali più che informazioni complessive. Questa caratteristica viene interpretata dagli scienziati come un codice, una strategia evolutiva: “Gli animali incontrano spesso ambienti con caratteristiche visive diverse da un ipotetico ‘ambiente medio’. Abbiamo scoperto che quando questo avviene, la retina si adatta dinamicamente: i campi recettivi delle cellule dei gangli retinali cambiano già dopo pochi secondi passati in un nuovo ambiente”.
La curiosità dell'uomo inizia già dalla retina
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore
David Frati
L’innata curiosità dell’uomo per le cose nuove inizia già a livello dell’occhio. La retina cerca infatti senza sosta oggetti nuovi nel campo visivo, adattando dinamicamente la sua azione, ignorando gli oggetti conosciuti e concentrandosi sulle novità. Lo svela una ricerca pubblicata dalla rivista Nature.
I ricercatori della Harvard University hanno scoperto che questo principio della ricerca della novità è operativo in molti ambienti visivi. “I nostri occhi raccontano il mondo visivo al nostro cervello, ma non del tutto fedelmente”, spiega Markus Meister, professore di Biologia Cellulare e Molecolare ad Harvard. “Ciò che fa la retina è uno schizzo della realtà, come un disegnatore, mettendo in evidenza alcuni aspetti e trascurando le aree meno interessanti”.
“Per esempio”, aggiunge Meister, “in ambienti visivi come foreste o prati, con tanti elementi verticali e pochi orizzontali, la retina tende a sopprimere le linee verticali e a sottolineare le rare linee orizzontali”.
Meister ed il suo team hanno esaminato i segnali neurali nelle cellule dei gangli retinali, che trasportano i segnali visivi dall’occhio al cervello. Si è notato che queste cellule tendono a registrare differenze locali e spaziali più che informazioni complessive. Questa caratteristica viene interpretata dagli scienziati come un codice, una strategia evolutiva: “Gli animali incontrano spesso ambienti con caratteristiche visive diverse da un ipotetico ‘ambiente medio’. Abbiamo scoperto che quando questo avviene, la retina si adatta dinamicamente: i campi recettivi delle cellule dei gangli retinali cambiano già dopo pochi secondi passati in un nuovo ambiente”.
Fonte: Harvard University press release 2005.
il coraggio di una donna
Betsy Blair
Corriere della Sera 12.7.05
«Quando Hollywood mi fece scappare»
Betsy Blair, ex moglie di Gene Kelly e pasionaria: grazie a McCarthy trovai Antonioni
DAL NOSTRO INVIATO
Lo ha ricordato l'altro giorno a Bologna, al festival «Il cinema ritrovato», dove è venuta a presentare alcuni dei suoi film, in compagnia di Francesco Maselli, che la diresse nel 1960 in I delfini .
Dopo che aveva girato in Spagna Calle Mayor di Bardém, nel 1956, e in Italia Il grido di Antonioni, nel 1957. E prima di farsi dirigere da Bolognini in Senilità , nel 1962.
Una carriera curiosa, quella della Blair, quasi tutta svoltasi in Europa, dopo aver dovuto abbandonare gli Stati Uniti per via delle persecuzioni maccartiste, nonostante fosse la moglie di una delle più grandi star di Hollywood e nonostante una nomination all'Oscar.
AMORE A PRIMA VISTA - Il marito, il primo, era Gene Kelly, sposato a diciott'anni nonostante lui ne avesse undici più di lei: amore a prima vista dopo un'audizione come ballerina di fila in un locale newyorkese e compagno affettuoso per molti anni, quando lei pensava solo alla famiglia (una figlia, Kerry) e soprattutto all'impegno politico.
Perché la bella e intraprendente Betsy, mentre ballava a New York, frequentava («in compagnia di Gene», tiene a sottolineare) gli ambienti intellettuali della sinistra radicale, finendo per aderire con convinzione alle idee comuniste. Che non rinnegò neppure quando, seguendo il successo del marito, si trasferì a Hollywood: «Cercavo di dedicare il mio tempo a iniziative socialmente utili, in difesa delle minoranze razziali, impegnandomi contro nazismo e fascismo. Insieme ad altri nomi celebri di Hollywood, come Orson Welles per esempio».
Mentre al sabato sera, le porte di casa si aprivano per gli amici più cari (e più «impegnati») come Lena Horn, Edy Lamarr, Richard Conte con la moglie Ruth, John Garfield, Leonard Bernstein. Per un certo periodo Bertold Brecht. Una volta anche un giovanissimo Stanley Kubrick, che portò da mostrare a tutti in anteprima il suo secondo film, Il bacio dell'assassino (ma il primo l'aveva sconfessato e fatto ritirare dalla programmazione).
LE PADELLE DELLA GARBO - Betsy lo ha ricordato a Bologna e lo aveva già scritto in The Memory of All That, uscito due anni fa, un libro di rievocazioni personali in cui i sabato sera in casa Kelly-Blair hanno un posto di rilievo, come quello organizzato per sperimentare delle nuove padelle che cuocevano senza bisogno di condimento: «Doveva essere una serata assolutamente familiare, tra amici, anche perché il cibo non si annunciava particolarmente saporito, quando suonano alla porta. Vado ad aprire e mi trovo davanti Gorge Cukor che si presenta con un'accompagnatrice».
«Era normale da noi - continua il racconto -: gli amici venivano sempre in compagnia. Ma questa volta con Cukor c'era Greta Garbo! Che si sedette in cucina, di fianco al lavello, assistendo disciplinatamente a tutte le dimostrazioni di cottura, che volle assaggiare ogni cosa nonostante il gusto non proprio eccellente di alcuni piatti e che alla fine ordinò per sé un'intera batteria di quelle pentole speciali».
NIENTE OSCAR - Per rompere questa specie di atmosfera incantata ci voleva solo il senatore Joseph McCarthy. E' il 1955, dopo qualche piccola parte al cinema ( La fossa dei serpenti , di Anatole Litvak), Betsy Blair - che fino a questo momento ha sempre vissuto un po' nell'ombra del marito - viene scelta per il suo primo ruolo importante: è la maestra che fa innamorare Ernest Borgnine in Marty - Storia di un timido .
Il film vince quattro Oscar, Betsy si deve accontentare di una nomination, ma si prende la rivincita a Cannes dove conquista la Palma per la miglior attrice. Resa celebre da Marty , Betsy Blair diventa improvvisamente un obiettivo fin toppo facile per la caccia alle streghe.
Nonostante la protezione del marito, che fu sempre tra i più leali e aperti difensori degli artisti di sinistra, a cominciare dai «dieci di Hollywood», le porte degli studios si chiudono. E Betsy decide di andarsene in Europa, raggiungendo a Parigi il gruppo di esuli composto da Jules Dassin, Joseph Losey e John Berry, come lei in fuga da Hollywood e dal maccartismo. Finisce il suo matrimonio con Gene Kelly ma inizia una nuova fase della sua carriera.
E' lì che la chiama Michelangelo Antonioni, che vuole affidarle una parte nel Grido.
Lei accetta, ma dopo due ore di discussione accanita (e si immagina difficile da accettare per il regista, viste le successive dichiarazioni ai Cahiers ) a proposito di una sceneggiatura che l'attrice americana considerava «vaga e sconnessa, perché contraddiceva tutto quello che mi avevano insegnato in America, metodo Stanislavskj compreso». Salvo poi ricredersi durante le riprese.
«NON RINNEGO NULLA» - Un nuovo amore, per il regista inglese Karel Reisz, la riporterà lontano dai set. Ma non le farà dimenticare l'impegno: «Oggi non me la sento più di dichiarami comunista. Ma non rinnego certo le mie idee di sinistra». E nonostante gli anni (a dicembre ne compie 82, portati con l'energia di una ragazzina che non vuole smettere di fumare) è pronta nuovamente a scendere in campo. Contro Bush, naturalmente.
Paolo Mereghetti
«Quando Hollywood mi fece scappare»
Betsy Blair, ex moglie di Gene Kelly e pasionaria: grazie a McCarthy trovai Antonioni
DAL NOSTRO INVIATO
LA CACCIA ALLE STREGHEBOLOGNA - Chi potrebbe dirlo che dietro i suoi dolcissimi occhi si nasconde la persona che ha fatto vivere ad Antonioni «le due ore più difficili della sua carriera»? Non ci voleva creder neppure l'interessata, l'attrice americana Betsy Blair, quando lesse la dichiarazione rilasciata dal regista sulle pagine dei Cahiers du Cinéma . E ricorda ancora che gli occhi le si riempirono di lacrime. Ma poi si fece consolare dal (secondo) marito, il regista inglese Karel Reisz (quello di Sabato sera, domenica mattina e della Donna del tenente francese ): doveva prenderlo «come un grande onore».
LA VICENDA
Nel ’47 la Commissione del Congresso Usa sulle attività antiamericane varò una violenta crociata anticomunista contro il mondo del cinema. Registi, attori, sceneggiatori in odore di sinistra potevano trovarsi da un giorno all’altro su una black list che li escludeva da ogni lavoro. A capo di questa caccia alle streghe dal ’51 al ’54 fu il senatore Joseph McCarthy (foto sopra) che condusse le epurazioni con feroce solerzia
I PERSEGUITATI
Nella lista finiscono i «rossi», ma anche chi non li denuncia. Tra i 320 proscritti costretti a emigrare all’estero o lavorare sotto falso nome, Arthur Miller, Charlie Chaplin e la moglie Oona, Dashiell Hammett e la moglie Lillian Hellman, Bertolt Brecht, Kim Hunter, John Garfield. E Zelo Mostel si suicidò
I DELATORI
Per convinzione ideologica o per paura di perdere il lavoro, molti furono quelli che collaborarono con McCarthy. Anche qui la lista è lunga: da Elia Kazan (foto) a Walt Disney, da John Wayne a Robert Taylor, Gary Cooper, Clark Gable, John Ford. «Spione» anche un futuro presidente, Ronald Reagan, ai tempi attore di western di serie B
Lo ha ricordato l'altro giorno a Bologna, al festival «Il cinema ritrovato», dove è venuta a presentare alcuni dei suoi film, in compagnia di Francesco Maselli, che la diresse nel 1960 in I delfini .
Dopo che aveva girato in Spagna Calle Mayor di Bardém, nel 1956, e in Italia Il grido di Antonioni, nel 1957. E prima di farsi dirigere da Bolognini in Senilità , nel 1962.
Una carriera curiosa, quella della Blair, quasi tutta svoltasi in Europa, dopo aver dovuto abbandonare gli Stati Uniti per via delle persecuzioni maccartiste, nonostante fosse la moglie di una delle più grandi star di Hollywood e nonostante una nomination all'Oscar.
AMORE A PRIMA VISTA - Il marito, il primo, era Gene Kelly, sposato a diciott'anni nonostante lui ne avesse undici più di lei: amore a prima vista dopo un'audizione come ballerina di fila in un locale newyorkese e compagno affettuoso per molti anni, quando lei pensava solo alla famiglia (una figlia, Kerry) e soprattutto all'impegno politico.
Perché la bella e intraprendente Betsy, mentre ballava a New York, frequentava («in compagnia di Gene», tiene a sottolineare) gli ambienti intellettuali della sinistra radicale, finendo per aderire con convinzione alle idee comuniste. Che non rinnegò neppure quando, seguendo il successo del marito, si trasferì a Hollywood: «Cercavo di dedicare il mio tempo a iniziative socialmente utili, in difesa delle minoranze razziali, impegnandomi contro nazismo e fascismo. Insieme ad altri nomi celebri di Hollywood, come Orson Welles per esempio».
Mentre al sabato sera, le porte di casa si aprivano per gli amici più cari (e più «impegnati») come Lena Horn, Edy Lamarr, Richard Conte con la moglie Ruth, John Garfield, Leonard Bernstein. Per un certo periodo Bertold Brecht. Una volta anche un giovanissimo Stanley Kubrick, che portò da mostrare a tutti in anteprima il suo secondo film, Il bacio dell'assassino (ma il primo l'aveva sconfessato e fatto ritirare dalla programmazione).
LE PADELLE DELLA GARBO - Betsy lo ha ricordato a Bologna e lo aveva già scritto in The Memory of All That, uscito due anni fa, un libro di rievocazioni personali in cui i sabato sera in casa Kelly-Blair hanno un posto di rilievo, come quello organizzato per sperimentare delle nuove padelle che cuocevano senza bisogno di condimento: «Doveva essere una serata assolutamente familiare, tra amici, anche perché il cibo non si annunciava particolarmente saporito, quando suonano alla porta. Vado ad aprire e mi trovo davanti Gorge Cukor che si presenta con un'accompagnatrice».
«Era normale da noi - continua il racconto -: gli amici venivano sempre in compagnia. Ma questa volta con Cukor c'era Greta Garbo! Che si sedette in cucina, di fianco al lavello, assistendo disciplinatamente a tutte le dimostrazioni di cottura, che volle assaggiare ogni cosa nonostante il gusto non proprio eccellente di alcuni piatti e che alla fine ordinò per sé un'intera batteria di quelle pentole speciali».
NIENTE OSCAR - Per rompere questa specie di atmosfera incantata ci voleva solo il senatore Joseph McCarthy. E' il 1955, dopo qualche piccola parte al cinema ( La fossa dei serpenti , di Anatole Litvak), Betsy Blair - che fino a questo momento ha sempre vissuto un po' nell'ombra del marito - viene scelta per il suo primo ruolo importante: è la maestra che fa innamorare Ernest Borgnine in Marty - Storia di un timido .
Il film vince quattro Oscar, Betsy si deve accontentare di una nomination, ma si prende la rivincita a Cannes dove conquista la Palma per la miglior attrice. Resa celebre da Marty , Betsy Blair diventa improvvisamente un obiettivo fin toppo facile per la caccia alle streghe.
Nonostante la protezione del marito, che fu sempre tra i più leali e aperti difensori degli artisti di sinistra, a cominciare dai «dieci di Hollywood», le porte degli studios si chiudono. E Betsy decide di andarsene in Europa, raggiungendo a Parigi il gruppo di esuli composto da Jules Dassin, Joseph Losey e John Berry, come lei in fuga da Hollywood e dal maccartismo. Finisce il suo matrimonio con Gene Kelly ma inizia una nuova fase della sua carriera.
E' lì che la chiama Michelangelo Antonioni, che vuole affidarle una parte nel Grido.
Lei accetta, ma dopo due ore di discussione accanita (e si immagina difficile da accettare per il regista, viste le successive dichiarazioni ai Cahiers ) a proposito di una sceneggiatura che l'attrice americana considerava «vaga e sconnessa, perché contraddiceva tutto quello che mi avevano insegnato in America, metodo Stanislavskj compreso». Salvo poi ricredersi durante le riprese.
«NON RINNEGO NULLA» - Un nuovo amore, per il regista inglese Karel Reisz, la riporterà lontano dai set. Ma non le farà dimenticare l'impegno: «Oggi non me la sento più di dichiarami comunista. Ma non rinnego certo le mie idee di sinistra». E nonostante gli anni (a dicembre ne compie 82, portati con l'energia di una ragazzina che non vuole smettere di fumare) è pronta nuovamente a scendere in campo. Contro Bush, naturalmente.
Paolo Mereghetti
i vertici Ds cercano di nuovo un accordo con i capi cattolici...
come fidarsi di lorsignori?!
Corriere della Sera 12.7.05
I VERTICI DELLA QUERCIA - CONFERENZA EPISCOPALE
Tentativo di ricucitura
Massimo Franco
ROMA - Né via Nazionale, sede della direzione dei Ds, né la Cei l’hanno resa di pubblico dominio. Ma la notizia filtra dalle maglie diessine come primo indizio di una ripresa del dialogo: pochi giorni dopo i risultati del referendum del 12 e 13 giugno, Piero Fassino ha incontrato il segretario generale della Conferenza episcopale, monsignor Giuseppe Betori, braccio destro del cardinale Camillo Ruini. Il leader dei Ds voleva spiegare la posizione del suo partito; e far capire che lo scontro sulla fecondazione assistita non voleva essere la prova generale di una sorta di «zapaterismo all'italiana»: non, almeno, da parte del gruppo dirigente diessino, uscito sconfitto col fronte del «sì». Si è trattato di una battaglia politica, combattuta e persa, senza gli intenti anticlericali che qualcuno voleva conferirle; e cercando di evitare paragoni suggestivi quanto scivolosi con il governo socialista spagnolo. Fassino sa bene che alcune leggi approvate di recente a Madrid sono considerate dal Vaticano come atti di aperta ostilità contro i valori cattolici. E che la Spagna di Luis Rodrìguez Zapatero viene guardata come il focolaio di un possibile contagio del «relativismo culturale» in tutta Europa. I vertici del suo partito vogliono invece assicurare che le lacerazioni provocate dal referendum possono essere almeno parzialmente ricucite.
L’incontro con Betori rientra, si spiega, in una strategia di tregua che dovrebbe preparare il dialogo ravvicinato e un chiarimento con lo stesso Ruini. Ma chiedere di vedere il presidente dei vescovi italiani subito, dopo le tensioni referendarie, avrebbe potuto provocare qualche malinteso, e magari anche imbarazzanti temporeggiamenti. Rimane tuttavia l'impressione che, dopo la vittoria del fronte astensionista appoggiato dal Vaticano, si stia riflettendo sui rapporti fra la sinistra e l’universo cattolico. L’opposizione al governo di Silvio Berlusconi comincia a porsi il problema di non «regalare la Chiesa al centrodestra».
Anche per questo, spiegano a via Nazionale, si punta più che in passato sull’incontro di settembre ad Assisi dei cattolici del partito, i «cristiano-sociali». L’idea è quella di usare il riferimento che, non ancora Papa, il cardinale Joseph Ratzinger fece in un discorso al Senato del 13 maggio 2004: quello sul socialismo democratico che in Europa, «in molte cose, era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica». Al convegno dovrebbero partecipare sia Fassino che Romano Prodi: e questa volta non nel ruolo solo istituzionale di presidente della Commissione europea, ma da leader della coalizione di centrosinistra. Sono tutti frammenti di un ripensamento appena agli inizi, ma in atto. Su questo sfondo, non è da escludersi che vengano in qualche modo ridisegnati i rapporti con i radicali, alleati dei Ds nel referendum. Oggi il partito di Marco Pannella e Daniele Capezzone è l’interlocutore del «polo socialista» che potrebbe nascere in vista delle elezioni: un’intesa Radicali-Sdi-Nuovo Psi, benedetta da via Nazionale. Ma uno dei temi dirimenti rimane quello dei finanziamenti alla Cei attraverso l’otto per mille. Esponenti dell’Unione come il senatore Stefano Passigli, e perfino il presidente dei Ds, Massimo D'Alema, nei momenti di maggiore tensione avevano sollevato il problema. Ma D’Alema, adesso, sostiene che occorre «ricostruire un ponte tra laici e cattolici». L’impressione è che si voglia rassicurare la Cei: lo avrebbe fatto anche Fassino nel colloquio con Betori.
Ufficialmente, fra i pochi prodiani a insistere insieme ai radicali sull’otto per mille, rimane il senatore Passigli. La sua proposta di legge punta a ridurre, di fatto, il gettito a favore della Cei. «Ma non ha nessuna possibilità di passare, perché non esiste una maggioranza laica in Parlamento», ammette Passigli. «Non passerebbe neppure se vincessimo le elezioni. Pensiamo a come si è comportata la Margherita...». D'altronde, Fassino ha sempre evitato di esasperare le polemiche: sapeva che il saldo politico poteva essere negativo, per l'opposizione. Il referendum ha diviso il centrosinistra. Prodi ha deciso di andare al voto come i Ds; il presidente della Margherita, Francesco Rutelli, si è astenuto.
Ma, più in generale, si avverte la fatica della sinistra a dialogare con un universo cattolico riplasmato dal pontificato di Giovanni Paolo II e dall’interventismo ruiniano. Alcuni diessini sostengono che è difficile discutere con una Cei chiusa a riccio, indisponibile a cambiare la legge sulla fecondazione assistita. Altri, però, ritengono che da tempo manchi la bussola culturale per capire i cambiamenti di un episcopato che parla in prima persona, e ricompatta un associazionismo storicamente diviso. Ma soprattutto, si fa notare, la sinistra ha ritenuto che la questione cattolica fosse politicamente chiusa con la fine della Dc: mentre si apriva proprio in quel momento.
I VERTICI DELLA QUERCIA - CONFERENZA EPISCOPALE
Tentativo di ricucitura
Massimo Franco
ROMA - Né via Nazionale, sede della direzione dei Ds, né la Cei l’hanno resa di pubblico dominio. Ma la notizia filtra dalle maglie diessine come primo indizio di una ripresa del dialogo: pochi giorni dopo i risultati del referendum del 12 e 13 giugno, Piero Fassino ha incontrato il segretario generale della Conferenza episcopale, monsignor Giuseppe Betori, braccio destro del cardinale Camillo Ruini. Il leader dei Ds voleva spiegare la posizione del suo partito; e far capire che lo scontro sulla fecondazione assistita non voleva essere la prova generale di una sorta di «zapaterismo all'italiana»: non, almeno, da parte del gruppo dirigente diessino, uscito sconfitto col fronte del «sì». Si è trattato di una battaglia politica, combattuta e persa, senza gli intenti anticlericali che qualcuno voleva conferirle; e cercando di evitare paragoni suggestivi quanto scivolosi con il governo socialista spagnolo. Fassino sa bene che alcune leggi approvate di recente a Madrid sono considerate dal Vaticano come atti di aperta ostilità contro i valori cattolici. E che la Spagna di Luis Rodrìguez Zapatero viene guardata come il focolaio di un possibile contagio del «relativismo culturale» in tutta Europa. I vertici del suo partito vogliono invece assicurare che le lacerazioni provocate dal referendum possono essere almeno parzialmente ricucite.
L’incontro con Betori rientra, si spiega, in una strategia di tregua che dovrebbe preparare il dialogo ravvicinato e un chiarimento con lo stesso Ruini. Ma chiedere di vedere il presidente dei vescovi italiani subito, dopo le tensioni referendarie, avrebbe potuto provocare qualche malinteso, e magari anche imbarazzanti temporeggiamenti. Rimane tuttavia l'impressione che, dopo la vittoria del fronte astensionista appoggiato dal Vaticano, si stia riflettendo sui rapporti fra la sinistra e l’universo cattolico. L’opposizione al governo di Silvio Berlusconi comincia a porsi il problema di non «regalare la Chiesa al centrodestra».
Anche per questo, spiegano a via Nazionale, si punta più che in passato sull’incontro di settembre ad Assisi dei cattolici del partito, i «cristiano-sociali». L’idea è quella di usare il riferimento che, non ancora Papa, il cardinale Joseph Ratzinger fece in un discorso al Senato del 13 maggio 2004: quello sul socialismo democratico che in Europa, «in molte cose, era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica». Al convegno dovrebbero partecipare sia Fassino che Romano Prodi: e questa volta non nel ruolo solo istituzionale di presidente della Commissione europea, ma da leader della coalizione di centrosinistra. Sono tutti frammenti di un ripensamento appena agli inizi, ma in atto. Su questo sfondo, non è da escludersi che vengano in qualche modo ridisegnati i rapporti con i radicali, alleati dei Ds nel referendum. Oggi il partito di Marco Pannella e Daniele Capezzone è l’interlocutore del «polo socialista» che potrebbe nascere in vista delle elezioni: un’intesa Radicali-Sdi-Nuovo Psi, benedetta da via Nazionale. Ma uno dei temi dirimenti rimane quello dei finanziamenti alla Cei attraverso l’otto per mille. Esponenti dell’Unione come il senatore Stefano Passigli, e perfino il presidente dei Ds, Massimo D'Alema, nei momenti di maggiore tensione avevano sollevato il problema. Ma D’Alema, adesso, sostiene che occorre «ricostruire un ponte tra laici e cattolici». L’impressione è che si voglia rassicurare la Cei: lo avrebbe fatto anche Fassino nel colloquio con Betori.
Ufficialmente, fra i pochi prodiani a insistere insieme ai radicali sull’otto per mille, rimane il senatore Passigli. La sua proposta di legge punta a ridurre, di fatto, il gettito a favore della Cei. «Ma non ha nessuna possibilità di passare, perché non esiste una maggioranza laica in Parlamento», ammette Passigli. «Non passerebbe neppure se vincessimo le elezioni. Pensiamo a come si è comportata la Margherita...». D'altronde, Fassino ha sempre evitato di esasperare le polemiche: sapeva che il saldo politico poteva essere negativo, per l'opposizione. Il referendum ha diviso il centrosinistra. Prodi ha deciso di andare al voto come i Ds; il presidente della Margherita, Francesco Rutelli, si è astenuto.
Ma, più in generale, si avverte la fatica della sinistra a dialogare con un universo cattolico riplasmato dal pontificato di Giovanni Paolo II e dall’interventismo ruiniano. Alcuni diessini sostengono che è difficile discutere con una Cei chiusa a riccio, indisponibile a cambiare la legge sulla fecondazione assistita. Altri, però, ritengono che da tempo manchi la bussola culturale per capire i cambiamenti di un episcopato che parla in prima persona, e ricompatta un associazionismo storicamente diviso. Ma soprattutto, si fa notare, la sinistra ha ritenuto che la questione cattolica fosse politicamente chiusa con la fine della Dc: mentre si apriva proprio in quel momento.
neuroscienziati americani ed epigoni
ansia...
Repubblica.it 11 luglio 05 07-11
Studio condotto dai ricercatori americani del Nimh
Sperimentazione su pazienti affetti da sindrome di Williams
"La causa genetica dell'ansia è scritta nel cromosoma sette"
Una ricerca in laboratorio
ROMA - I disturbi d'ansia avrebbero cause genetiche precise. Lo rivela uno studio condotto da un gruppo di ricercatori americani del National Institute of Mental Health Clinical di Bethesda, pubblicato su Nature Neuroscience. La ricerca è stata condotta su pazienti affetti da sindrome di Williams, una patologia congenita non ereditaria che interessa l'area cognitiva, comportamentale e motoria.
I soggetti colpiti da questa sindrome, che colpisce un neonato su 20mila, evidenziano livelli d'ansia superiori alla media. Per questo gli scienziati hanno esaminato 13 persone affette dalla sindrome (scelti tra quelle che non presentavano ritardo mentale, così da escludere effetti dovuti a problemi cognitivi) verificando le reazioni a immagini minacciose o paurose. Oltre ai 13 pazienti con sindrome di Williams, sono stati osservati altrettanti volontari sani, accoppiati in base all'età, al sesso e al quoziente d'intelligenza.
I dati raccolti hanno rivelato che nei pazienti affetti da sindrome, la parte del cervello da cui dipendono le emozioni negative come rabbia o paura, detta amigdala, funziona in modo anomalo: si attiva meno del normale in risposta a volti arrabbiati, mentre si iperattiva di fronte a immagini paurose. Da qui la conclusione degli autori: "Poichè la sindrome è causata dalla mancanza o dalla mutazione di alcuni geni del cromosoma 7, è probabile che alcuni di questi geni siano responsabili della formazione del 'circuito' da cui dipende il controllo dell'ansia".
Secondo i ricercatori, "ulteriori indagini sui geni implicati nella sindrome di Williams permetteranno di comprendere meglio il rapporto tra geni, caratteristiche cerebrali e sviluppo del comportamento sociale umano".
Il Mattino 12.7.05
Le radici dell’ansia nel cervello e nei geni
FEDERICO UNGARO
Le radici dell'ansia si nascondono nel cervello e forse anche nei geni. Le notizie emergono da due studi diversi, pubblicati su due prestigiose riviste scientifiche: Proceedings of the National Academy of Sciences e Nature neuroscience. Coordinati da Mohammed Milad, gli scienziati del primo gruppo appartenenti al Massachusetts General Hospital, pensano di essere riusciti a dare risposta a un interrogativo antico: perché alcune persone dopo delle esperienze traumatiche, dure, si trovano a fare i conti con attacchi di ansia per il resto della loro vita mentre altre persone, con le stesse esperienze, sembrano più forti e dimenticano? L'esempio classico dell'ansia generata da trauma è quello del soldato coraggioso, che al rumore di una marmitta bucata entra in uno stato di stress, pensando di essere finito nuovamente in trincea. Il fenomeno è ben noto agli psichiatri: un suono o un rumore risveglia nella mente il ricordo dell'evento traumatico e scatena una risposta da parte del nostro organismo. Generalmente però con il passare del tempo questi ricordi sbiadiscono e a poco a poco il fatto di risentire il rumore ma di non rivivere direttamente l'esperienza traumatica non scatena più la risposta emotiva esagerata. I ricercatori hanno scoperto che tutto dipende dalla corteccia prefrontale ventromediale, una regione che occupa la superficie inferiore del cervello. Sono le sue dimensioni infatti a regolare il modo con cui una persona reagisce all'evento e se riesce o meno a dimenticare nel tempo l'evento traumatico. Lo studio, condotto su 14 volontari, ha evidenziato che i pazienti con la corteccia prefrontale più spessa riescono a gestire meglio i ricordi stressanti. «La nostra ipotesi - commenta Milad - è che una corteccia più grande sia in grado di proteggere dai disturbi di ansia. Una più piccola al contrario potrebbe essere un fattore di predisposizione». Il secondo studio, invece, si è focalizzato su un'altra regione cerebrale, quella dell'amigdala. Questa struttura, a forma di mandorla, ha un ruolo molto importante nel regolare i comportamenti sociali. Per scoprire i meccanismi legati al suo funzionamento, i ricercatori del National Institute of mental health americano hanno osservato il cervello di due gruppi di volontari. Tredici erano sani; altrettanti invece erano soggetti colpiti da una malattia chiamata sindrome di Williams, di origine genetica, che dipende dalla mancanza di 21 geni sul cromosoma 7. Chi ne è colpito tende a essere particolarmente socievole: in pratica è così fiducioso che non teme mai di entrare in relazione con gli altri, anche quando in realtà avrebbe tutti i motivi per farlo, come di fronte a qualche brutto ceffo. I ricercatori hanno mostrato ai portatori della malattia delle immagini di visi spaventosi, mentre nel frattempo eseguivano una risonanza magnetica cerebrale del loro cervello. E hanno confrontato i risultati con quelli ottenuti sui volontari sani. Si è così visto che l'amigdala si attivava immediatamente nei volontari sani, mentre in quelli con la malattia genetica la risposta era molto più limitata. Al contrario, se la scena era priva di figure umane, ma era altrettanto paurosa (come un incidente aereo), l'amigdala dei malati funzionava a livelli maggiori di quella dei sani. E anche la reazione emotiva era molto più accentuata. Insomma in questi pazienti l'amigdala funziona nel momento sbagliato. Dunque lo stesso potrebbe avvenire nelle persone che soffrono di disturbi d'ansia, mentre il fatto che la sindrome di Williams sia genetica induce a sospettare che anche i geni mettano il loro zampino.
Il Mattino 12.7.05
«Ma biologia e psicologia sono fattori inestricabili»
f. ung.
Terapie a base di farmaci ma anche esposizione graduata a ciò che ci causa l'agitazione. Questi i segreti per battere i disturbi legati all'ansia. Lo spiega Alberto Oliverio, psicobiologo dell'Università La Sapienza di Roma e autore di molti saggi sul cervello umano. Professor Oliverio, i disturbi di ansia sembrano in grande crescita soprattutto nei Paesi occidentali. Come possiamo batterli? «Oggi si tende a usare una duplice strategia che vede il ricorso agli psicofarmaci, ma anche l'esposizione graduale del paziente alla sorgente della sua paura». Cioè? «È molto semplice: se io ho le vertigini, a poco a poco inizio a cercare di vincere la mia paura esponendomi a essa. Ad esempio prima salgo su una sedia, poi mi sporgo dalla finestra al primo piano, poi da un terrazzo, fino a salire in montagna. Generalmente i risultati sono positivi». Come funzionano invece gli psicofarmaci? «I più usati e moderni sono i cosiddetti inibitori della noradrenalina. Il principio del loro funzionamento si basa su quanto scoperto dagli studi recenti e cioè il fatto che particolare aree cerebrali, tra cui l'amigdala, si attivano in modo molto forte quando il soggetto sperimenta un evento traumatico. Il farmaco interviene cercando di riportare il funzionamento su standard più regolari». Esistono controindicazioni al loro uso? «In effetti si discute molto sulla loro utilità anche dal punto di vista etico. L'esempio è quello dei soldati che tornano traumatizzati da una guerra. Quando i ricordi riemergono, è possibile usare questi farmaci per tenerli sotto controllo. Però si finisce con l’inibire le emozioni. E magari, allo stesso soldato durante il conflitto erano stati somministrati altri farmaci che ne stimolavano l’aggressività». Come la grappa distribuita ai soldati prima degli attacchi durante la prima guerra mondiale? «Anche, ma penso soprattutto alle anfetamine, diventate di uso comune dall'ultima guerra in poi. In questo caso il problema etico di che cosa sto facendo alle emozioni del mio paziente non è secondario». E la soluzione a questo problema? «Se ne discute ancora. In America è prassi comune usare questi farmaci sulle vittime di traumi come le violenze sessuali per tenerle più calme quando vengono ricoverate in pronto soccorso». Le ultime ricerche puntano su geni e cervello. L'ansia ha dunque radici biologiche più che psicologiche? «Non possiamo dirlo con certezza. O meglio si tratta di un circolo. In realtà i due fattori sono inestricabili».
Studio condotto dai ricercatori americani del Nimh
Sperimentazione su pazienti affetti da sindrome di Williams
"La causa genetica dell'ansia è scritta nel cromosoma sette"
Una ricerca in laboratorio
ROMA - I disturbi d'ansia avrebbero cause genetiche precise. Lo rivela uno studio condotto da un gruppo di ricercatori americani del National Institute of Mental Health Clinical di Bethesda, pubblicato su Nature Neuroscience. La ricerca è stata condotta su pazienti affetti da sindrome di Williams, una patologia congenita non ereditaria che interessa l'area cognitiva, comportamentale e motoria.
I soggetti colpiti da questa sindrome, che colpisce un neonato su 20mila, evidenziano livelli d'ansia superiori alla media. Per questo gli scienziati hanno esaminato 13 persone affette dalla sindrome (scelti tra quelle che non presentavano ritardo mentale, così da escludere effetti dovuti a problemi cognitivi) verificando le reazioni a immagini minacciose o paurose. Oltre ai 13 pazienti con sindrome di Williams, sono stati osservati altrettanti volontari sani, accoppiati in base all'età, al sesso e al quoziente d'intelligenza.
I dati raccolti hanno rivelato che nei pazienti affetti da sindrome, la parte del cervello da cui dipendono le emozioni negative come rabbia o paura, detta amigdala, funziona in modo anomalo: si attiva meno del normale in risposta a volti arrabbiati, mentre si iperattiva di fronte a immagini paurose. Da qui la conclusione degli autori: "Poichè la sindrome è causata dalla mancanza o dalla mutazione di alcuni geni del cromosoma 7, è probabile che alcuni di questi geni siano responsabili della formazione del 'circuito' da cui dipende il controllo dell'ansia".
Secondo i ricercatori, "ulteriori indagini sui geni implicati nella sindrome di Williams permetteranno di comprendere meglio il rapporto tra geni, caratteristiche cerebrali e sviluppo del comportamento sociale umano".
Il Mattino 12.7.05
Le radici dell’ansia nel cervello e nei geni
FEDERICO UNGARO
Le radici dell'ansia si nascondono nel cervello e forse anche nei geni. Le notizie emergono da due studi diversi, pubblicati su due prestigiose riviste scientifiche: Proceedings of the National Academy of Sciences e Nature neuroscience. Coordinati da Mohammed Milad, gli scienziati del primo gruppo appartenenti al Massachusetts General Hospital, pensano di essere riusciti a dare risposta a un interrogativo antico: perché alcune persone dopo delle esperienze traumatiche, dure, si trovano a fare i conti con attacchi di ansia per il resto della loro vita mentre altre persone, con le stesse esperienze, sembrano più forti e dimenticano? L'esempio classico dell'ansia generata da trauma è quello del soldato coraggioso, che al rumore di una marmitta bucata entra in uno stato di stress, pensando di essere finito nuovamente in trincea. Il fenomeno è ben noto agli psichiatri: un suono o un rumore risveglia nella mente il ricordo dell'evento traumatico e scatena una risposta da parte del nostro organismo. Generalmente però con il passare del tempo questi ricordi sbiadiscono e a poco a poco il fatto di risentire il rumore ma di non rivivere direttamente l'esperienza traumatica non scatena più la risposta emotiva esagerata. I ricercatori hanno scoperto che tutto dipende dalla corteccia prefrontale ventromediale, una regione che occupa la superficie inferiore del cervello. Sono le sue dimensioni infatti a regolare il modo con cui una persona reagisce all'evento e se riesce o meno a dimenticare nel tempo l'evento traumatico. Lo studio, condotto su 14 volontari, ha evidenziato che i pazienti con la corteccia prefrontale più spessa riescono a gestire meglio i ricordi stressanti. «La nostra ipotesi - commenta Milad - è che una corteccia più grande sia in grado di proteggere dai disturbi di ansia. Una più piccola al contrario potrebbe essere un fattore di predisposizione». Il secondo studio, invece, si è focalizzato su un'altra regione cerebrale, quella dell'amigdala. Questa struttura, a forma di mandorla, ha un ruolo molto importante nel regolare i comportamenti sociali. Per scoprire i meccanismi legati al suo funzionamento, i ricercatori del National Institute of mental health americano hanno osservato il cervello di due gruppi di volontari. Tredici erano sani; altrettanti invece erano soggetti colpiti da una malattia chiamata sindrome di Williams, di origine genetica, che dipende dalla mancanza di 21 geni sul cromosoma 7. Chi ne è colpito tende a essere particolarmente socievole: in pratica è così fiducioso che non teme mai di entrare in relazione con gli altri, anche quando in realtà avrebbe tutti i motivi per farlo, come di fronte a qualche brutto ceffo. I ricercatori hanno mostrato ai portatori della malattia delle immagini di visi spaventosi, mentre nel frattempo eseguivano una risonanza magnetica cerebrale del loro cervello. E hanno confrontato i risultati con quelli ottenuti sui volontari sani. Si è così visto che l'amigdala si attivava immediatamente nei volontari sani, mentre in quelli con la malattia genetica la risposta era molto più limitata. Al contrario, se la scena era priva di figure umane, ma era altrettanto paurosa (come un incidente aereo), l'amigdala dei malati funzionava a livelli maggiori di quella dei sani. E anche la reazione emotiva era molto più accentuata. Insomma in questi pazienti l'amigdala funziona nel momento sbagliato. Dunque lo stesso potrebbe avvenire nelle persone che soffrono di disturbi d'ansia, mentre il fatto che la sindrome di Williams sia genetica induce a sospettare che anche i geni mettano il loro zampino.
Il Mattino 12.7.05
«Ma biologia e psicologia sono fattori inestricabili»
f. ung.
Terapie a base di farmaci ma anche esposizione graduata a ciò che ci causa l'agitazione. Questi i segreti per battere i disturbi legati all'ansia. Lo spiega Alberto Oliverio, psicobiologo dell'Università La Sapienza di Roma e autore di molti saggi sul cervello umano. Professor Oliverio, i disturbi di ansia sembrano in grande crescita soprattutto nei Paesi occidentali. Come possiamo batterli? «Oggi si tende a usare una duplice strategia che vede il ricorso agli psicofarmaci, ma anche l'esposizione graduale del paziente alla sorgente della sua paura». Cioè? «È molto semplice: se io ho le vertigini, a poco a poco inizio a cercare di vincere la mia paura esponendomi a essa. Ad esempio prima salgo su una sedia, poi mi sporgo dalla finestra al primo piano, poi da un terrazzo, fino a salire in montagna. Generalmente i risultati sono positivi». Come funzionano invece gli psicofarmaci? «I più usati e moderni sono i cosiddetti inibitori della noradrenalina. Il principio del loro funzionamento si basa su quanto scoperto dagli studi recenti e cioè il fatto che particolare aree cerebrali, tra cui l'amigdala, si attivano in modo molto forte quando il soggetto sperimenta un evento traumatico. Il farmaco interviene cercando di riportare il funzionamento su standard più regolari». Esistono controindicazioni al loro uso? «In effetti si discute molto sulla loro utilità anche dal punto di vista etico. L'esempio è quello dei soldati che tornano traumatizzati da una guerra. Quando i ricordi riemergono, è possibile usare questi farmaci per tenerli sotto controllo. Però si finisce con l’inibire le emozioni. E magari, allo stesso soldato durante il conflitto erano stati somministrati altri farmaci che ne stimolavano l’aggressività». Come la grappa distribuita ai soldati prima degli attacchi durante la prima guerra mondiale? «Anche, ma penso soprattutto alle anfetamine, diventate di uso comune dall'ultima guerra in poi. In questo caso il problema etico di che cosa sto facendo alle emozioni del mio paziente non è secondario». E la soluzione a questo problema? «Se ne discute ancora. In America è prassi comune usare questi farmaci sulle vittime di traumi come le violenze sessuali per tenerle più calme quando vengono ricoverate in pronto soccorso». Le ultime ricerche puntano su geni e cervello. L'ansia ha dunque radici biologiche più che psicologiche? «Non possiamo dirlo con certezza. O meglio si tratta di un circolo. In realtà i due fattori sono inestricabili».
Bertinotti e Ingrao
Corriere della Sera 12.7.05
L’INTERVISTA
Sì a politiche repressive ma nello stato di diritto
Bertinotti: sfruttiamo l’esperienza con le Br. Incrementare l’attività degli 007, si è dimostrata efficace. No alla superprocura
di DARIA GORODISKY
«È sconsolante. È sbagliata la filosofia generale su cui poggia l’idea di vararle e sono fuorvianti i singoli punti. Di fronte alla spirale guerra-terrorismo e all’esposizione del mondo al rischio di aggressione e morte, la risposta "leggi di emergenza" è inefficace e giuridicamente regressiva».
L’alternativa?
«Cert amente, non si possono ridurre le libertà dello stato di diritto. Né si può ricorrere a strumenti che istighino la popolazione a cercare nel vicino di casa la propaggine ultima del terrorismo, e che sollecitino la logica del sospetto. Piuttosto, bisogna combattere insieme guerra e terrorismo».
Intende dire che la guerra, nella fattispecie quella in Iraq, è la causa di attentati come quelli di Madrid o Londra?
«No, la guerra non genera meccanicamente il terrorismo. Il terrorismo è un soggetto politico autonomo che nasce per scelta strategica. Non esiste una causa che lo genera. Però, ci sono concause che lo alimentano: povertà, ingiustizia, oppressione, guerra... in particolare, quella immotivata, violenta e imperiale condotta appunto contro l’Iraq».
Per combattere miseria e ingiustizie ci vuole tempo, ma nel cuore delle città europee le bombe esplodono adesso. Che fare?
«Bisogna evitare di fare tutto ciò che può alimentare il terrorismo. Non possiamo offrirgli acqua in cui navigare: perciò, niente guerra e nessun nuovo torto verso le popolazioni islamiche».
Crede che basterebbe?
«Il terrorismo va sconfitto politicamente. Io ho vissuto l’esperienza italiana, certo diversissima, delle Br. Credo che, come allora, si debba capire bene la natura del fenomeno e isolarlo. Mettiamo a frutto quello che abbiamo imparato, pensiamo a una lotta di massa, a ridurre il brodo di coltura del terrorismo. Si possono usare anche politiche repressive, anche un po’ di legislazione di emergenza: purché ciò avvenga sostanzialmente nello stato di diritto».
Scusi, ma che cosa significa «un po’» di legislazione di emergenza? Per esempio, su potenziamento dell’intelligence e rafforzamento dei controlli di telefoni, mail, ecc.: è d’accordo?
«L’intelligence italiana ha dimostrato una certa efficacia. Se il governo - sempre nei limiti dello stato di diritto - vuole incrementare questa attività, lo faccia... e non ci rompa».
E le misure premiali come quelle applicate ai pentiti?
«Non mi convincono: davvero una persona così interna alla spirale di violenza da essere pronto al suicidio sarebbe disponibile a scambi di quel tipo?»
Il blocco dei canali finanziari che nutrono i gruppi terroristi?
«Esiste già questa possibilità, se è provato il legame».
Espulsioni più facili?
«No».
Allora una superprocura?
«Già visto. E poi è davvero contraddittorio proporre un organismo del genere ma, contemporaneamente, volere una norma che blocchi la legittima carriera di un magistrato come Caselli».
I suoi alleati Ds e Margherita hanno offerto al governo collaborazione nella lotta al terrorismo. E Rifondazione?
«Collaborare contro il terrorismo? Tutti dobbiamo farlo. Ma lo ripeto ancora una volta: combattiamo anche la guerra e rispettiamo lo stato di diritto. Anche Stefano Rodotà, che interpreta voci sicuramente non radicali, lo ha scritto».
l'Unità 12 Luglio 2005
INGRAO
La candidatura di Bertinotti farà identificare il popolo della sinistra
Pietro Ingrao e Haidi Giuliani: «Appoggeremo la candidatura di Fausto Bertinotti alle Primarie dell'Unione, che si terranno in ottobre.
Il senso di questa candidatura è innanzi tutto la sua capacità di parlare nell'Unione la lingua della sinistra, rafforzandone le ragioni, l'efficacia, la forza programmatica
La candidatura di Bertinotti può aiutare a identificare quel grande soggetto che abbiamo chiamato popolo di sinistra»
l'Unità 12 Luglio 2005
IL LIBRO
Dal libriccino
«Una lettera di Pietro Ingrao»
curato da Goffredo Bettini (Cadmo edizioni) - nato da una lettera di Igrao scritta nel 1992 a Bettini dopo aver letto un suo articolo che lo riguardava - pubblichiamo un brano.
È vero: ci sono due facce contraddittorie (ma è giusto chiamarle così?) della mia vita. Evidentemente io devo avere una «passione» per la politica che è tenace; altrimenti non si spiega come essa passione duri così a lungo, e ancora adesso - in un’età così avanzata - fatichi a spegnersi.
Posso dire di più: ogni tanto mi accorgo che (diversamente, assai diversamente da quello che qualcuno dice di me) a me interessa, nella politica, anche l’aspetto «tattico» (mi capisci: non nel senso di furbesco...). Me ne accorgo; e ripeto a me stesso che questo - nelle mie condizioni - è esorbitante, e può essere anche un «vizio»; ma poi vedo che mi interessano anche i passaggi «quotidiani»; quante volte sono tentato di impicciarmici!
Perché non staccarsene? Tu spieghi ciò con una motivazione morale. Io ho sempre molte esitazioni ad adoperare questo termine: perché io non sono in consonanza con un certo «eticismo»: il «dover essere» mi sembra che contenga una astrazione; e io credo molto in una corporeità della vita; credo nelle passioni vitali che ci scuotono e ci segnano. (...)
Ti dirò un episodio che rischia di risultare stupidamente lacrimoso. L’altra sera ho visto a Mixer alcuni filmati sui bambini irakeni colpiti durante e dopo la guerra dalle malattie e dalla penuria. Mi sono sembrati dei fatti letteralmente insopportabili. E mi sono rimproverato la mia inettitudine o defezione dinanzi a quella insopportabilità. Scusa queste parole: ho avvertito una nausea psichica. E mi sono vergognato, perché io non ho fatto e non facevo e non avrei fatto nulla di fronte a ciò che diceva, rappresentava (significava) quella realtà. Questo episodio può dire la ragione per cui io rimango incollato alla politica, persino sotto l’aspetto tattico.
uno stralcio piò ampio:
Repubblica 12.7.05
Una lettera inedita sul senso profondo della militanza
La politica che passione
PIETRO INGRAO
Posso dire di più: ogni tanto mi accorgo che (diversamente, assai diversamente da quello che qualcuno dice di me) a me interessa, nella politica, anche l'aspetto «tattico» (mi capisci: non nel senso di furbesco...). Me ne accorgo; e ripeto a me stesso che questo - nelle mie condizioni - è esorbitante, e può essere anche un «vizio»; ma poi vedo che mi interessano anche i passaggi «quotidiani»; quante volte sono tentato di impicciarmici!
Perché non staccarsene? Tu spieghi ciò con una motivazione morale. Io ho sempre molte esitazioni ad adoperare questo termine: perché io non sono in consonanza con un certo «eticismo»: il «dover essere» mi sembra che contenga un'astrazione; e io credo molto in una corporeità della vita; credo nelle passioni vitali che ci scuotono e ci segnano.
È vero. Io ho raccontato nel mio ultimo libro che fui trascinato a pedate nella politica dalla resistenza a Hitler. Ho ricordato una cosa che tuttora è in me nitidissima: quando di fronte al rischio che Hitler vincesse (i momenti terribili che la vostra generazione non ha vissuto), ho detto - nella mia mente - : non ci sto.
Anche in quel caso, però, continuo ancora oggi a pensare che fosse qualcosa di altro, o di non riducibile a un dovere etico. Era una resistenza del mio essere, una difficoltà della mia vita ad adattarsi a quell´esito (cioè a una vittoria del nazismo sul mondo).
Tu dici: il punto essenziale è per me dove «si difendono meglio gli umili e gli oppressi». E questo coglie, con parole semplici, un sentimento che è tenace dentro di me. Io sento penosamente la sofferenza altrui: dei più deboli, o più esattamente dei più offesi. Ma la sento perché pesa a me: per così dire, mi dà fastidio, mi fa star male. Quindi, in un certo senso, non è un agire per gli altri: è un agire per me. Perché alcune sofferenze degli altri mi sono insopportabili.
Ti dirò un episodio che rischia di risultare stupidamente lacrimoso. L'altra sera (ndr, la lettera risale al gennaio del 1992), ho visto a Mixer alcuni filmati sui bambini iracheni colpiti durante e dopo la guerra dalle malattie e dalla penuria. Mi sono sembrati dei fatti letteralmente insopportabili. E mi sono rimproverato la mia inettitudine o defezione dinanzi a quella insopportabilità. Scusa queste parole: ho avvertito una nausea psichica. E mi sono vergognato, perché io non ho fatto e non facevo nulla di fronte a ciò che rappresentava quella realtà. Non sono sicuro che ciò si possa rappresentare come una motivazione morale. C'entrano gli «altri», in quanto la loro condizione mi «turba», e senza gli «altri» non esisto (nemmeno sarei nato).
Battere Berlusconi. Sconfiggere le politiche del centrodestra che in questi quattro anni hanno devastato il Paese. Avviare un'alternativa di governo che sia anche vero rinnovamento della politica, della cultura, della democrazia italiana. Sono queste oggi le priorità nelle quali ci riconosciamo, pur nella diversità delle nostre storie, opinioni, collocazioni. Per questo, alle elezioni del 2006 ci impegneremo per la vittoria dell'Unione: un'alleanza inedita nella storia d'Italia, che potrà davvero vincere se saprà coniugare l'unità delle forze diverse che la compongono con l'apertura di una grande stagione di partecipazione democratica.
Sono queste le stesse ragioni che ci spingono oggi ad appoggiare, e a sostenere attivamente, la candidatura di Fausto Bertinotti alle Primarie dell'Unione, (che si terranno l'8 e il 9 di ottobre).
Per noi, il senso di questa candidatura è innanzi tutto la sua capacità di parlare nell'Unione la "lingua della sinistra", rafforzandone le ragioni, l'efficacia, la forza programmatica. Essa va ben oltre, di fatto, gli orizzonti di un singolo partito: nasce dalla persuasione che la sinistra non può essere a priori rassegnata a svolgere un ruolo subalterno, o di complemento. Al contrario: sia nella scelta di chi guiderà l'alleanza, sia nella definizione dei suoi contenuti, le idee, i valori, le persone della sinistra debbono poter pesare al massimo delle loro capacità. La sinistra, insomma, non è una realtà minore, è anzi la forza determinante per il cambiamento e l'uscita dalla crisi economica e sociale del paese. Perciò, nel suo concreto riferimento alternativo, europeo, popolare, la candidatura di Bertinotti può aiutare a identificare quel grande soggetto che abbiamo chiamato "popolo di sinistra": tutti coloro che in questi anni hanno detto no alla guerra, al neoliberismo e all'egemonia del pensiero unico, alla invereconda crescita delle diseguaglianze sociali e della stessa distribuzione della ricchezza, alla mercificazione galoppante dei saperi e della cultura, al preoccupante rilancio dell'oscurantismo, alla sciagurata teoria dello scontro delle civiltà. Tutti coloro che hanno dato vita ai vecchi e ai nuovi movimenti e che hanno domandato alla sinistra di essere finalmente se stessa.
L’INTERVISTA
Sì a politiche repressive ma nello stato di diritto
Bertinotti: sfruttiamo l’esperienza con le Br. Incrementare l’attività degli 007, si è dimostrata efficace. No alla superprocura
di DARIA GORODISKY
«La guerra non genera meccanicamente il terrorismo, questo è un soggetto politico autonomo che nasce per scelta strategica» dice al Corriere Fausto Bertinotti. E per combatterlo? «Si possono usare anche politiche repressive, un po’ di legislazione di emergenza: purché ciò avvenga sostanzialmente nello stato di diritto».ROMA - Fausto Bertinotti, che effetto fa a Rifondazione comunista sentir parlare di leggi speciali, leggi di emergenza...?
«È sconsolante. È sbagliata la filosofia generale su cui poggia l’idea di vararle e sono fuorvianti i singoli punti. Di fronte alla spirale guerra-terrorismo e all’esposizione del mondo al rischio di aggressione e morte, la risposta "leggi di emergenza" è inefficace e giuridicamente regressiva».
L’alternativa?
«Cert amente, non si possono ridurre le libertà dello stato di diritto. Né si può ricorrere a strumenti che istighino la popolazione a cercare nel vicino di casa la propaggine ultima del terrorismo, e che sollecitino la logica del sospetto. Piuttosto, bisogna combattere insieme guerra e terrorismo».
Intende dire che la guerra, nella fattispecie quella in Iraq, è la causa di attentati come quelli di Madrid o Londra?
«No, la guerra non genera meccanicamente il terrorismo. Il terrorismo è un soggetto politico autonomo che nasce per scelta strategica. Non esiste una causa che lo genera. Però, ci sono concause che lo alimentano: povertà, ingiustizia, oppressione, guerra... in particolare, quella immotivata, violenta e imperiale condotta appunto contro l’Iraq».
Per combattere miseria e ingiustizie ci vuole tempo, ma nel cuore delle città europee le bombe esplodono adesso. Che fare?
«Bisogna evitare di fare tutto ciò che può alimentare il terrorismo. Non possiamo offrirgli acqua in cui navigare: perciò, niente guerra e nessun nuovo torto verso le popolazioni islamiche».
Crede che basterebbe?
«Il terrorismo va sconfitto politicamente. Io ho vissuto l’esperienza italiana, certo diversissima, delle Br. Credo che, come allora, si debba capire bene la natura del fenomeno e isolarlo. Mettiamo a frutto quello che abbiamo imparato, pensiamo a una lotta di massa, a ridurre il brodo di coltura del terrorismo. Si possono usare anche politiche repressive, anche un po’ di legislazione di emergenza: purché ciò avvenga sostanzialmente nello stato di diritto».
Scusi, ma che cosa significa «un po’» di legislazione di emergenza? Per esempio, su potenziamento dell’intelligence e rafforzamento dei controlli di telefoni, mail, ecc.: è d’accordo?
«L’intelligence italiana ha dimostrato una certa efficacia. Se il governo - sempre nei limiti dello stato di diritto - vuole incrementare questa attività, lo faccia... e non ci rompa».
E le misure premiali come quelle applicate ai pentiti?
«Non mi convincono: davvero una persona così interna alla spirale di violenza da essere pronto al suicidio sarebbe disponibile a scambi di quel tipo?»
Il blocco dei canali finanziari che nutrono i gruppi terroristi?
«Esiste già questa possibilità, se è provato il legame».
Espulsioni più facili?
«No».
Allora una superprocura?
«Già visto. E poi è davvero contraddittorio proporre un organismo del genere ma, contemporaneamente, volere una norma che blocchi la legittima carriera di un magistrato come Caselli».
I suoi alleati Ds e Margherita hanno offerto al governo collaborazione nella lotta al terrorismo. E Rifondazione?
«Collaborare contro il terrorismo? Tutti dobbiamo farlo. Ma lo ripeto ancora una volta: combattiamo anche la guerra e rispettiamo lo stato di diritto. Anche Stefano Rodotà, che interpreta voci sicuramente non radicali, lo ha scritto».
l'Unità 12 Luglio 2005
INGRAO
La candidatura di Bertinotti farà identificare il popolo della sinistra
Pietro Ingrao e Haidi Giuliani: «Appoggeremo la candidatura di Fausto Bertinotti alle Primarie dell'Unione, che si terranno in ottobre.
Il senso di questa candidatura è innanzi tutto la sua capacità di parlare nell'Unione la lingua della sinistra, rafforzandone le ragioni, l'efficacia, la forza programmatica
La candidatura di Bertinotti può aiutare a identificare quel grande soggetto che abbiamo chiamato popolo di sinistra»
l'Unità 12 Luglio 2005
IL LIBRO
Dal libriccino
«Una lettera di Pietro Ingrao»
curato da Goffredo Bettini (Cadmo edizioni) - nato da una lettera di Igrao scritta nel 1992 a Bettini dopo aver letto un suo articolo che lo riguardava - pubblichiamo un brano.
È vero: ci sono due facce contraddittorie (ma è giusto chiamarle così?) della mia vita. Evidentemente io devo avere una «passione» per la politica che è tenace; altrimenti non si spiega come essa passione duri così a lungo, e ancora adesso - in un’età così avanzata - fatichi a spegnersi.
Posso dire di più: ogni tanto mi accorgo che (diversamente, assai diversamente da quello che qualcuno dice di me) a me interessa, nella politica, anche l’aspetto «tattico» (mi capisci: non nel senso di furbesco...). Me ne accorgo; e ripeto a me stesso che questo - nelle mie condizioni - è esorbitante, e può essere anche un «vizio»; ma poi vedo che mi interessano anche i passaggi «quotidiani»; quante volte sono tentato di impicciarmici!
Perché non staccarsene? Tu spieghi ciò con una motivazione morale. Io ho sempre molte esitazioni ad adoperare questo termine: perché io non sono in consonanza con un certo «eticismo»: il «dover essere» mi sembra che contenga una astrazione; e io credo molto in una corporeità della vita; credo nelle passioni vitali che ci scuotono e ci segnano. (...)
Ti dirò un episodio che rischia di risultare stupidamente lacrimoso. L’altra sera ho visto a Mixer alcuni filmati sui bambini irakeni colpiti durante e dopo la guerra dalle malattie e dalla penuria. Mi sono sembrati dei fatti letteralmente insopportabili. E mi sono rimproverato la mia inettitudine o defezione dinanzi a quella insopportabilità. Scusa queste parole: ho avvertito una nausea psichica. E mi sono vergognato, perché io non ho fatto e non facevo e non avrei fatto nulla di fronte a ciò che diceva, rappresentava (significava) quella realtà. Questo episodio può dire la ragione per cui io rimango incollato alla politica, persino sotto l’aspetto tattico.
Pietro Ingrao
uno stralcio piò ampio:
Repubblica 12.7.05
Una lettera inedita sul senso profondo della militanza
La politica che passione
PIETRO INGRAO
La lettera che qui in parte pubblichiamo è tratta dal volumetto Una lettera di , curato da Goffredo Bettini, destinatario della missiva. Il volume, edito da Cadmo, sarà presentato oggi pomeriggio a Roma (alle ore 19,30, alla Festa dell'Unità in viale Ostiense) da Veltroni, Bertinotti e Bettini.Caro Goffredo, è vero: ci sono due facce contraddittorie (ma è giusto chiamarle così?) della mia vita. Evidentemente io devo avere una «passione» per la politica che è tenace; altrimenti non si spiega come essa passione duri così a lungo, e ancora adesso - in un´età così avanzata - fatichi a spegnersi.
Posso dire di più: ogni tanto mi accorgo che (diversamente, assai diversamente da quello che qualcuno dice di me) a me interessa, nella politica, anche l'aspetto «tattico» (mi capisci: non nel senso di furbesco...). Me ne accorgo; e ripeto a me stesso che questo - nelle mie condizioni - è esorbitante, e può essere anche un «vizio»; ma poi vedo che mi interessano anche i passaggi «quotidiani»; quante volte sono tentato di impicciarmici!
Perché non staccarsene? Tu spieghi ciò con una motivazione morale. Io ho sempre molte esitazioni ad adoperare questo termine: perché io non sono in consonanza con un certo «eticismo»: il «dover essere» mi sembra che contenga un'astrazione; e io credo molto in una corporeità della vita; credo nelle passioni vitali che ci scuotono e ci segnano.
È vero. Io ho raccontato nel mio ultimo libro che fui trascinato a pedate nella politica dalla resistenza a Hitler. Ho ricordato una cosa che tuttora è in me nitidissima: quando di fronte al rischio che Hitler vincesse (i momenti terribili che la vostra generazione non ha vissuto), ho detto - nella mia mente - : non ci sto.
Anche in quel caso, però, continuo ancora oggi a pensare che fosse qualcosa di altro, o di non riducibile a un dovere etico. Era una resistenza del mio essere, una difficoltà della mia vita ad adattarsi a quell´esito (cioè a una vittoria del nazismo sul mondo).
Tu dici: il punto essenziale è per me dove «si difendono meglio gli umili e gli oppressi». E questo coglie, con parole semplici, un sentimento che è tenace dentro di me. Io sento penosamente la sofferenza altrui: dei più deboli, o più esattamente dei più offesi. Ma la sento perché pesa a me: per così dire, mi dà fastidio, mi fa star male. Quindi, in un certo senso, non è un agire per gli altri: è un agire per me. Perché alcune sofferenze degli altri mi sono insopportabili.
Ti dirò un episodio che rischia di risultare stupidamente lacrimoso. L'altra sera (ndr, la lettera risale al gennaio del 1992), ho visto a Mixer alcuni filmati sui bambini iracheni colpiti durante e dopo la guerra dalle malattie e dalla penuria. Mi sono sembrati dei fatti letteralmente insopportabili. E mi sono rimproverato la mia inettitudine o defezione dinanzi a quella insopportabilità. Scusa queste parole: ho avvertito una nausea psichica. E mi sono vergognato, perché io non ho fatto e non facevo nulla di fronte a ciò che rappresentava quella realtà. Non sono sicuro che ciò si possa rappresentare come una motivazione morale. C'entrano gli «altri», in quanto la loro condizione mi «turba», e senza gli «altri» non esisto (nemmeno sarei nato).
Liberazione 12.7.05
Pietro Ingrao e Haidi Giuliani: sosteniamo
la candidatura di Bertinotti alle primarie
Pietro Ingrao e Haidi Giuliani: sosteniamo
la candidatura di Bertinotti alle primarie
Battere Berlusconi. Sconfiggere le politiche del centrodestra che in questi quattro anni hanno devastato il Paese. Avviare un'alternativa di governo che sia anche vero rinnovamento della politica, della cultura, della democrazia italiana. Sono queste oggi le priorità nelle quali ci riconosciamo, pur nella diversità delle nostre storie, opinioni, collocazioni. Per questo, alle elezioni del 2006 ci impegneremo per la vittoria dell'Unione: un'alleanza inedita nella storia d'Italia, che potrà davvero vincere se saprà coniugare l'unità delle forze diverse che la compongono con l'apertura di una grande stagione di partecipazione democratica.
Sono queste le stesse ragioni che ci spingono oggi ad appoggiare, e a sostenere attivamente, la candidatura di Fausto Bertinotti alle Primarie dell'Unione, (che si terranno l'8 e il 9 di ottobre).
Per noi, il senso di questa candidatura è innanzi tutto la sua capacità di parlare nell'Unione la "lingua della sinistra", rafforzandone le ragioni, l'efficacia, la forza programmatica. Essa va ben oltre, di fatto, gli orizzonti di un singolo partito: nasce dalla persuasione che la sinistra non può essere a priori rassegnata a svolgere un ruolo subalterno, o di complemento. Al contrario: sia nella scelta di chi guiderà l'alleanza, sia nella definizione dei suoi contenuti, le idee, i valori, le persone della sinistra debbono poter pesare al massimo delle loro capacità. La sinistra, insomma, non è una realtà minore, è anzi la forza determinante per il cambiamento e l'uscita dalla crisi economica e sociale del paese. Perciò, nel suo concreto riferimento alternativo, europeo, popolare, la candidatura di Bertinotti può aiutare a identificare quel grande soggetto che abbiamo chiamato "popolo di sinistra": tutti coloro che in questi anni hanno detto no alla guerra, al neoliberismo e all'egemonia del pensiero unico, alla invereconda crescita delle diseguaglianze sociali e della stessa distribuzione della ricchezza, alla mercificazione galoppante dei saperi e della cultura, al preoccupante rilancio dell'oscurantismo, alla sciagurata teoria dello scontro delle civiltà. Tutti coloro che hanno dato vita ai vecchi e ai nuovi movimenti e che hanno domandato alla sinistra di essere finalmente se stessa.
«i greci avevano già inventato tutto»
La Stampa 12 Luglio 2005
Dall’automa alla pila: i greci avevano già inventato tutto
A NAPOLI UNA MOSTRA SUL GENIO DEGLI ANTICHI
Lea Mattarella
NAPOLI Il «Meccanismo di Anticitera» è stato ritrovato nel 1900 a Nord di Creta, nelle acque dell'isola da cui prende il nome, fra i resti di una nave naufragata. Risale probabilmente al I secolo a. C., è di fattura greca e serviva a studiare il movimento dei pianeti: se muovi una leva in senso orario l'intero cosmo si aziona. È stato ricostruito, perfettamente funzionante, in occasione della mostra «Eureka. Il genio degli antichi», curata da Eugenio Lo Sardo, aperta fino al 9 gennaio al Museo Archeologico di Napoli.
È uno dei tanti oggetti che conducono alla scoperta di un aspetto inusuale del mondo classico: non solo fascinazioni estetiche e letterarie, ma anche scoperte tecniche e scientifiche, vita materiale, pensiero astratto, matematico. Euclide, Archimede, Ctesibio, Erone sono alcuni dei protagonisti di questo suggestivo viaggio alla ricerca delle grandi invenzioni dell'antichità. Si scopre così che i greci conoscevano le proprietà del vapore. Lo prova la piccola «Eolipila» che si aziona grazie all'acqua vaporizzata dal calore del fuoco. A cosa servisse questo oggetto che ruotava, questa minima turbina a vapore, non si sa. Forse soltanto a divertire, stupire, incantare. Ma forse ha una funzione meno ludica. Certo è che, oltre al senso delle proporzioni su cui si fonda la storia dell'arte occidentale, oltre a miti e leggende - da Edipo a Crono - che hanno forgiato e magari anche contribuito a curare la nostra psiche, dal mondo classico ci arriva anche questo: un congegno meccanico che anticipa la rivoluzione industriale. Non c'è male.
Gli antichi, esattamente come nei film di fantascienza, sognano di riprodurre degli automi che possano servire alle esigenze dell'uomo. Lo stesso Aristotele afferma che se vi fossero strumenti capaci di assolvere alla loro funzione «come si dice delle statue di Dedalo o dei tripodi di Efesto... i capi artigiani non avrebbero bisogno di operai, né i padroni di servi».
Efesto è, nel mondo di Omero, il dio dell'Olimpo che crea gioielli, armi, strani congegni, ma anche macchine in tutto simili all'uomo. Uno dei primi automi che ci vengono tramandati attraverso la letteratura è Talos, il gigante che difendeva Creta dagli Argonauti. La mostra propone, nella sezione dedicata alle «Macchine del mito», alcuni vasi che raffigurano le sue gesta e la sua strana morte, quella perdita di liquido dal tallone che ricorda tanto la fusione a cera persa. E poi naturalmente c'è Icaro, con il suo volo tragicamente interrotto, come ci giunge attraverso affreschi e cammei.
Tra gli ambienti più affascinanti dell'esposizione c'è quello dedicato alla pneumatica, la scienza che studia il comportamento di fluidi, aria e liquidi. Ecco diversi animali di bronzo che ornavano le fontane, la cui funzione è chiarita dai fori per l'uscita dell'acqua. Anche qui c'è una ricostruzione: un gioco d'acqua descritto da Erone Alessandrino. C'è una civetta che gira e un albero con alcuni uccellini. Quando la civetta si volta, gli uccellini cominciano a cinguettare. Se quella li guarda stanno zitti. Ed è la pressione dell'acqua a creare il suono. Lo stesso sistema dà vita alla musica che produce l'organo idraulico, inventato nel 275 a. C. da Ctesibio. Un reperto di questo antico strumento è stato ritrovato di recente in Grecia, nella città di Dion. Qui ce n'è un esemplare ricostruito, nella sala dedicata agli strumenti, tra corni e siringhe.
Dalla musica al teatro il passo è breve. Anche in questo campo sono molte le invenzioni meccaniche. Un teatro dedicato a Dioniso grazie a uno speciale congegno di ruote, corde, carrucole, contrappesi, permetteva alle Baccanti di danzare in una sorta di girotondo intorno al dio. Le conoscenze astronomiche dell'antica Grecia, poi, sono davvero stupefacenti. Uno dei capolavori che si incontra in mostra e che appartiene alle collezioni del Museo è l'«Atlante Farnese». Regge sulle spalle la sfera celeste. «Le costellazioni - spiega Lo Sardo, sono posizionate in maniera molto precisa. Solo che l'opera ci mostra il mondo dal di fuori, come se il nostro fosse lo sguardo di un dio. Non vediamo, come sarebbe giusto, l'interno della sfera». E, tra congegni che scandiscono il tempo, altri che misurano il terreno, piante, animali e medicinali dell'antichità, riproduzioni del Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo che illuminava la notte dei naviganti, c'è anche il pezzo forte della glittica alessandrina: la «Tazza Farnese». Un cammeo in agata sardonica, forse appartenuto a Cleopatra, poi a Federico II e a Lorenzo il Magnifico e infine arrivato a Napoli con Carlo di Borbone. Ci riporta dentro confini squisitamente artistici. E il cerchio si chiude.
Dall’automa alla pila: i greci avevano già inventato tutto
A NAPOLI UNA MOSTRA SUL GENIO DEGLI ANTICHI
Lea Mattarella
NAPOLI Il «Meccanismo di Anticitera» è stato ritrovato nel 1900 a Nord di Creta, nelle acque dell'isola da cui prende il nome, fra i resti di una nave naufragata. Risale probabilmente al I secolo a. C., è di fattura greca e serviva a studiare il movimento dei pianeti: se muovi una leva in senso orario l'intero cosmo si aziona. È stato ricostruito, perfettamente funzionante, in occasione della mostra «Eureka. Il genio degli antichi», curata da Eugenio Lo Sardo, aperta fino al 9 gennaio al Museo Archeologico di Napoli.
È uno dei tanti oggetti che conducono alla scoperta di un aspetto inusuale del mondo classico: non solo fascinazioni estetiche e letterarie, ma anche scoperte tecniche e scientifiche, vita materiale, pensiero astratto, matematico. Euclide, Archimede, Ctesibio, Erone sono alcuni dei protagonisti di questo suggestivo viaggio alla ricerca delle grandi invenzioni dell'antichità. Si scopre così che i greci conoscevano le proprietà del vapore. Lo prova la piccola «Eolipila» che si aziona grazie all'acqua vaporizzata dal calore del fuoco. A cosa servisse questo oggetto che ruotava, questa minima turbina a vapore, non si sa. Forse soltanto a divertire, stupire, incantare. Ma forse ha una funzione meno ludica. Certo è che, oltre al senso delle proporzioni su cui si fonda la storia dell'arte occidentale, oltre a miti e leggende - da Edipo a Crono - che hanno forgiato e magari anche contribuito a curare la nostra psiche, dal mondo classico ci arriva anche questo: un congegno meccanico che anticipa la rivoluzione industriale. Non c'è male.
Gli antichi, esattamente come nei film di fantascienza, sognano di riprodurre degli automi che possano servire alle esigenze dell'uomo. Lo stesso Aristotele afferma che se vi fossero strumenti capaci di assolvere alla loro funzione «come si dice delle statue di Dedalo o dei tripodi di Efesto... i capi artigiani non avrebbero bisogno di operai, né i padroni di servi».
Efesto è, nel mondo di Omero, il dio dell'Olimpo che crea gioielli, armi, strani congegni, ma anche macchine in tutto simili all'uomo. Uno dei primi automi che ci vengono tramandati attraverso la letteratura è Talos, il gigante che difendeva Creta dagli Argonauti. La mostra propone, nella sezione dedicata alle «Macchine del mito», alcuni vasi che raffigurano le sue gesta e la sua strana morte, quella perdita di liquido dal tallone che ricorda tanto la fusione a cera persa. E poi naturalmente c'è Icaro, con il suo volo tragicamente interrotto, come ci giunge attraverso affreschi e cammei.
Tra gli ambienti più affascinanti dell'esposizione c'è quello dedicato alla pneumatica, la scienza che studia il comportamento di fluidi, aria e liquidi. Ecco diversi animali di bronzo che ornavano le fontane, la cui funzione è chiarita dai fori per l'uscita dell'acqua. Anche qui c'è una ricostruzione: un gioco d'acqua descritto da Erone Alessandrino. C'è una civetta che gira e un albero con alcuni uccellini. Quando la civetta si volta, gli uccellini cominciano a cinguettare. Se quella li guarda stanno zitti. Ed è la pressione dell'acqua a creare il suono. Lo stesso sistema dà vita alla musica che produce l'organo idraulico, inventato nel 275 a. C. da Ctesibio. Un reperto di questo antico strumento è stato ritrovato di recente in Grecia, nella città di Dion. Qui ce n'è un esemplare ricostruito, nella sala dedicata agli strumenti, tra corni e siringhe.
Dalla musica al teatro il passo è breve. Anche in questo campo sono molte le invenzioni meccaniche. Un teatro dedicato a Dioniso grazie a uno speciale congegno di ruote, corde, carrucole, contrappesi, permetteva alle Baccanti di danzare in una sorta di girotondo intorno al dio. Le conoscenze astronomiche dell'antica Grecia, poi, sono davvero stupefacenti. Uno dei capolavori che si incontra in mostra e che appartiene alle collezioni del Museo è l'«Atlante Farnese». Regge sulle spalle la sfera celeste. «Le costellazioni - spiega Lo Sardo, sono posizionate in maniera molto precisa. Solo che l'opera ci mostra il mondo dal di fuori, come se il nostro fosse lo sguardo di un dio. Non vediamo, come sarebbe giusto, l'interno della sfera». E, tra congegni che scandiscono il tempo, altri che misurano il terreno, piante, animali e medicinali dell'antichità, riproduzioni del Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo che illuminava la notte dei naviganti, c'è anche il pezzo forte della glittica alessandrina: la «Tazza Farnese». Un cammeo in agata sardonica, forse appartenuto a Cleopatra, poi a Federico II e a Lorenzo il Magnifico e infine arrivato a Napoli con Carlo di Borbone. Ci riporta dentro confini squisitamente artistici. E il cerchio si chiude.
il manifesto forse aveva uno spazio vuoto...
un'intervento chiarificatore...
(ovvero i nomi e le cose)
il manifesto 12.7.05
Carta bianca
Non solo linguistica (sic!)
Nell'articolo di Rossana Rossanda (manifesto, 5 luglio), c'è un errore d'ortografia:«dio» è scritto con l'iniziale minuscola. Chiaramente si tratta di una forma di provocazione della giornalista, forse non credente, con la quale si ribadisce l'estromissione di Dio da qualsiasi faccenda dello Stato, in nome della sua laicità; ma è noto dalla grammatica che Dio (nome spesso usato e abusato da politici e non), si scrive con la maiuscola, e non è un nome astratto ma concreto.
(...)
Giuliano
il manifesto 12.7.05
Carta bianca
Non solo linguistica (sic!)
Nell'articolo di Rossana Rossanda (manifesto, 5 luglio), c'è un errore d'ortografia:«dio» è scritto con l'iniziale minuscola. Chiaramente si tratta di una forma di provocazione della giornalista, forse non credente, con la quale si ribadisce l'estromissione di Dio da qualsiasi faccenda dello Stato, in nome della sua laicità; ma è noto dalla grammatica che Dio (nome spesso usato e abusato da politici e non), si scrive con la maiuscola, e non è un nome astratto ma concreto.
(...)
Giuliano
inglesi... e altri
libri ed emozioni
La Stampa 12 Luglio 2005
Psicologia? No, grazie
Un saggio inglese contesta la dittatura delle emozioni nella nostra società
I PERICOLI DI UN USO SCONSIDERATO
Elena Loewenthal
C’era una volta il bambino scalmanato: quello che ispirava un miscuglio di rabbia e compiacenza. Ora non esiste più, estinto dalla vita e dal vocabolario. Al suo posto è sorto il bambino «iperattivo» oppure affetto da una sindrome: carenza di attenzione. Insieme al bambino scalmanato ne sono spariti tanti altri, esuli in chissà quale isola che non c'è: uno per tutti, a titolo d'esempio, quello incline alla malinconia. In compenso, pullulano i bambini depressi e tanti altri sono capaci, già a cinque o sei anni, di dire di sé che sono «stressati». Queste mutazioni non sono né genetiche né lessicali: rientrano invece, secondo Frank Furedi, professore di sociologia all'università del Kent in Inghilterra, nel contesto di quello che lui chiama Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, ed è anche il titolo del suo libro (pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Lucia Cornalba, pp. 294, 25 euro). Questo conformismo ha prodotto, secondo Furedi, la morte del difetto, sostituito dal «disturbo». E come in una proiezione speculare dagli interessanti risvolti semantici, invece del binomio colpa-responsabilità ecco affermarsi l'universo delle «carenze».
Furedi parte da un'analisi di alcuni fenomeni collettivi per riscontrare una presenza capillare, quasi endemica, della terapia di supporto psicologico. Nel mondo del lavoro, in quello della scuola, nell'attualità più cocente, si è ormai creato uno stato di necessità permanente, in fatto di sedute per medicare i sentimenti. Negli ultimi anni una buona strategia di marketing terapeutico avrebbe creato una massiccia domanda di servizi terapeutici, tale da rendere inevitabili il ricorso a questo supporto e la totale fiducia nella sua efficacia. A dire il vero Furedi se la prende più con le istituzioni e l'opinione pubblica che con gli esperti, cioè i terapeuti. Ma questo libro lascia scossi.
Perché in fondo mette in discussione ciò che è il vero, unico tabù del nostro mondo: l'inviolabilità dei sentimenti. Mentre Martha Nussbaum ci racconta che le emozioni non sono un residuo della conoscenza bensì la sostanza vera dell'umano pensare (L'intelligenza delle emozioni, pubblicato in italiano da Il Mulino), Furedi dichiara con buona dose di scorrettezza politica di non voler sottostare alla dittatura delle emozioni che, oggi come oggi, esigono secondo lui un'attenzione costante, prioritaria e infarcita di luoghi comuni. Il caso del lutto è esemplare: per Nussbaum la summa della sua riflessione intorno alle emozioni parte proprio dall'esperienza della perdita della madre. L'elaborazione del lutto è maieutica, è il battistrada verso la conoscenza. Per Furedi il lutto è il caso più tipico di un'evoluzione che non gli piace troppo. Venuti meno i canoni della religione e abolito - se non formalmente certo nella percezione della sua rilevanza - il rituale di lutto, quest'ultimo è divenuto un procedimento mentale, più cervellotico che sofferto. Invece del dolore, una introspezione tanto macchinosa quanto stereotipata. Si è persa, qui come in tanti altri casi, la spontaneità del sentimento, che la terapia vuole invece inquadrato entro i propri canoni: il sociologo constata l'affermazione di un vero e proprio determinismo delle emozioni, incapace di ammettere pulsioni e comportamenti «alternativi» a quelli catalogati.
In questo senso, tale «nuovo conformismo» ha ben presto creato una serie di stereotipi e alcuni guai cui va rimediato prima che sia troppo tardi. Innazitutto, il codice terapeutico stabilisce una scala di valori nelle emozioni: ci sono quelle «buone» e quelle «cattive». «Gli uomini che si comportano da donne vengono nettamente preferiti alle donne che si comportano da uomini. Nella gerarchia emotivamente corretta del comportamento virtuoso, al primo posto vengono le donne femminili. Al secondo posto, prima delle donne mascoline, vengono gli uomini femminili. E naturalmente l'uomo mascolino, il “macho”, si colloca al gradino più basso». Eppure oltreoceano sembra già avviato un processo di riabilitazione del maschiaccio. Una risposta serenamente polemica a Furedi si trova implicita nel nuovo libro - denso di sfumature - di Marina Valcarenghi, L'insicurezza. La paura di vivere nel nostro tempo (Bruno Mondadori).
L'enfasi sulle emozioni, così coccolate sul lettino, determina ancora per Furedi un involontario isolamento dell'io, la tendenza all'individualizzazione. Zeno e la sua ultima sigaretta la dicono lunga in proposito: la psiche è un essere esigente, piuttosto geloso, incline al solipsismo.
Il conservatorismo indotto da troppa psicologia, conclude Furedi, provoca un processo che potrebbe risultare, alla lunga, pericoloso. Perché a forza di catalogare le emozioni si finisce per proietttare «un'immagine di un sé passivo che non corre rischi, ma piuttosto è a rischio. In questo scenario il ruolo dell'individuo come soggetto di sperimentazione e di trasformazione è semplicemente estinto.» Si può essere e non essere d'accordo, ma non ci si può esimere dal riflettere intorno all'implicito imperativo con cui il saggio si conclude e che si riassume più o meno così: «Provare, per non credere».
Psicologia? No, grazie
Un saggio inglese contesta la dittatura delle emozioni nella nostra società
I PERICOLI DI UN USO SCONSIDERATO
Elena Loewenthal
C’era una volta il bambino scalmanato: quello che ispirava un miscuglio di rabbia e compiacenza. Ora non esiste più, estinto dalla vita e dal vocabolario. Al suo posto è sorto il bambino «iperattivo» oppure affetto da una sindrome: carenza di attenzione. Insieme al bambino scalmanato ne sono spariti tanti altri, esuli in chissà quale isola che non c'è: uno per tutti, a titolo d'esempio, quello incline alla malinconia. In compenso, pullulano i bambini depressi e tanti altri sono capaci, già a cinque o sei anni, di dire di sé che sono «stressati». Queste mutazioni non sono né genetiche né lessicali: rientrano invece, secondo Frank Furedi, professore di sociologia all'università del Kent in Inghilterra, nel contesto di quello che lui chiama Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, ed è anche il titolo del suo libro (pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Lucia Cornalba, pp. 294, 25 euro). Questo conformismo ha prodotto, secondo Furedi, la morte del difetto, sostituito dal «disturbo». E come in una proiezione speculare dagli interessanti risvolti semantici, invece del binomio colpa-responsabilità ecco affermarsi l'universo delle «carenze».
Furedi parte da un'analisi di alcuni fenomeni collettivi per riscontrare una presenza capillare, quasi endemica, della terapia di supporto psicologico. Nel mondo del lavoro, in quello della scuola, nell'attualità più cocente, si è ormai creato uno stato di necessità permanente, in fatto di sedute per medicare i sentimenti. Negli ultimi anni una buona strategia di marketing terapeutico avrebbe creato una massiccia domanda di servizi terapeutici, tale da rendere inevitabili il ricorso a questo supporto e la totale fiducia nella sua efficacia. A dire il vero Furedi se la prende più con le istituzioni e l'opinione pubblica che con gli esperti, cioè i terapeuti. Ma questo libro lascia scossi.
Perché in fondo mette in discussione ciò che è il vero, unico tabù del nostro mondo: l'inviolabilità dei sentimenti. Mentre Martha Nussbaum ci racconta che le emozioni non sono un residuo della conoscenza bensì la sostanza vera dell'umano pensare (L'intelligenza delle emozioni, pubblicato in italiano da Il Mulino), Furedi dichiara con buona dose di scorrettezza politica di non voler sottostare alla dittatura delle emozioni che, oggi come oggi, esigono secondo lui un'attenzione costante, prioritaria e infarcita di luoghi comuni. Il caso del lutto è esemplare: per Nussbaum la summa della sua riflessione intorno alle emozioni parte proprio dall'esperienza della perdita della madre. L'elaborazione del lutto è maieutica, è il battistrada verso la conoscenza. Per Furedi il lutto è il caso più tipico di un'evoluzione che non gli piace troppo. Venuti meno i canoni della religione e abolito - se non formalmente certo nella percezione della sua rilevanza - il rituale di lutto, quest'ultimo è divenuto un procedimento mentale, più cervellotico che sofferto. Invece del dolore, una introspezione tanto macchinosa quanto stereotipata. Si è persa, qui come in tanti altri casi, la spontaneità del sentimento, che la terapia vuole invece inquadrato entro i propri canoni: il sociologo constata l'affermazione di un vero e proprio determinismo delle emozioni, incapace di ammettere pulsioni e comportamenti «alternativi» a quelli catalogati.
In questo senso, tale «nuovo conformismo» ha ben presto creato una serie di stereotipi e alcuni guai cui va rimediato prima che sia troppo tardi. Innazitutto, il codice terapeutico stabilisce una scala di valori nelle emozioni: ci sono quelle «buone» e quelle «cattive». «Gli uomini che si comportano da donne vengono nettamente preferiti alle donne che si comportano da uomini. Nella gerarchia emotivamente corretta del comportamento virtuoso, al primo posto vengono le donne femminili. Al secondo posto, prima delle donne mascoline, vengono gli uomini femminili. E naturalmente l'uomo mascolino, il “macho”, si colloca al gradino più basso». Eppure oltreoceano sembra già avviato un processo di riabilitazione del maschiaccio. Una risposta serenamente polemica a Furedi si trova implicita nel nuovo libro - denso di sfumature - di Marina Valcarenghi, L'insicurezza. La paura di vivere nel nostro tempo (Bruno Mondadori).
L'enfasi sulle emozioni, così coccolate sul lettino, determina ancora per Furedi un involontario isolamento dell'io, la tendenza all'individualizzazione. Zeno e la sua ultima sigaretta la dicono lunga in proposito: la psiche è un essere esigente, piuttosto geloso, incline al solipsismo.
Il conservatorismo indotto da troppa psicologia, conclude Furedi, provoca un processo che potrebbe risultare, alla lunga, pericoloso. Perché a forza di catalogare le emozioni si finisce per proietttare «un'immagine di un sé passivo che non corre rischi, ma piuttosto è a rischio. In questo scenario il ruolo dell'individuo come soggetto di sperimentazione e di trasformazione è semplicemente estinto.» Si può essere e non essere d'accordo, ma non ci si può esimere dal riflettere intorno all'implicito imperativo con cui il saggio si conclude e che si riassume più o meno così: «Provare, per non credere».
preti cattolici
se li conosci li eviti /3
La Stampa 12 Luglio 2005
MONDOVI’, LE INDAGINI PER I MINORI ADESCATI
Una perizia psichiatrica sul sacerdote arrestato
MONDOVI’ E’ stata l’invenzione del «tutore» una delle leve di persuasione sulle quali don Renato Giaccardi contava, per convincere gli adolescenti a far parte della sua «rete». Il sacerdote di Mondovì, accusato di sfruttamento, favoreggiamento e induzione della prostituzione ai danni di minorenni (arrestato dalla Squadra mobile di Cuneo), aveva messo in piedi un’organizzazione basata sul passaparola. Tesi semplici e suggestive agli occhi dei ragazzi, allettati con euro, ricariche telefoniche e dolci, in cambio di attenzioni particolari, nomi e numeri di telefono sempre nuovi di minorenni.
Don Renato raccontava di un personaggio (in realtà virtuale), figura principe dell’«Associazione Amicizia degli uomini», a cui lui stesso, sacerdote, si sarebbe sottomesso. Nella mente del prete, il «tutore» era colui che esaminava le richieste degli aspiranti iscritti: don Renato diceva di obbedirgli ciecamente e mostrava relazioni scritte su chi sarebbe dovuto diventare un «neo iscritto». E’ probabile che il sostituto procuratore Riccardo Baudinelli, titolare dell’indagine, richieda una perizia psichiatrica sul sacerdote.
Don Giaccardi ora si trova in un istituto religioso della diocesi di Albenga, agli arresti domiciliari. In un primo tempo agli inquirenti aveva detto di voler rinunciare a un difensore; oggi (dopo un incarico già assolto dall’avvocato Cristina Beccaria di Mondovì) è difeso dall’avvocato monregalese Antonio Viglione, che invita ad «abbassare i toni». «Pur con il clamore che la vicenda non poteva non suscitare - dice Viglione -, penso sia stata data eccessiva pubblicità a questa storia, con troppe fughe di notizie. Se don Renato sarà, all’esito delle indagini, ritenuto responsabile, pagherà, com’è giusto. Ma fino a sentenza definitiva, egli è da considerare innocente. Se può essere consentito un giudizio morale su una triste vicenda, non è giusto pubblicizzare fatti e situazioni a cui possa seguire una sorta di lapidazione, che chi subisce, alla lunga, potrebbe anche non reggere. Alla base di ogni anormale comportamento umano c’è sempre un problema».
MONDOVI’, LE INDAGINI PER I MINORI ADESCATI
Una perizia psichiatrica sul sacerdote arrestato
MONDOVI’ E’ stata l’invenzione del «tutore» una delle leve di persuasione sulle quali don Renato Giaccardi contava, per convincere gli adolescenti a far parte della sua «rete». Il sacerdote di Mondovì, accusato di sfruttamento, favoreggiamento e induzione della prostituzione ai danni di minorenni (arrestato dalla Squadra mobile di Cuneo), aveva messo in piedi un’organizzazione basata sul passaparola. Tesi semplici e suggestive agli occhi dei ragazzi, allettati con euro, ricariche telefoniche e dolci, in cambio di attenzioni particolari, nomi e numeri di telefono sempre nuovi di minorenni.
Don Renato raccontava di un personaggio (in realtà virtuale), figura principe dell’«Associazione Amicizia degli uomini», a cui lui stesso, sacerdote, si sarebbe sottomesso. Nella mente del prete, il «tutore» era colui che esaminava le richieste degli aspiranti iscritti: don Renato diceva di obbedirgli ciecamente e mostrava relazioni scritte su chi sarebbe dovuto diventare un «neo iscritto». E’ probabile che il sostituto procuratore Riccardo Baudinelli, titolare dell’indagine, richieda una perizia psichiatrica sul sacerdote.
Don Giaccardi ora si trova in un istituto religioso della diocesi di Albenga, agli arresti domiciliari. In un primo tempo agli inquirenti aveva detto di voler rinunciare a un difensore; oggi (dopo un incarico già assolto dall’avvocato Cristina Beccaria di Mondovì) è difeso dall’avvocato monregalese Antonio Viglione, che invita ad «abbassare i toni». «Pur con il clamore che la vicenda non poteva non suscitare - dice Viglione -, penso sia stata data eccessiva pubblicità a questa storia, con troppe fughe di notizie. Se don Renato sarà, all’esito delle indagini, ritenuto responsabile, pagherà, com’è giusto. Ma fino a sentenza definitiva, egli è da considerare innocente. Se può essere consentito un giudizio morale su una triste vicenda, non è giusto pubblicizzare fatti e situazioni a cui possa seguire una sorta di lapidazione, che chi subisce, alla lunga, potrebbe anche non reggere. Alla base di ogni anormale comportamento umano c’è sempre un problema».
l'Unità...
a prima vista un gran bell'argomento... ma poi, tentando di leggere...
una segnalazione di Sergio Grom
l'Unità 12 Luglio 2005
Gli Egizi lo sapevano già: il sogno è la vita
di Ugo Leonzio
Ugo Leonzio è l'autore de «Il volo magico. Storia generale delle droghe» - Edizioni Einaudi e il soggettista e sceneggiatore del film «La porta delle 7 stelle» (2003) di Pasquale Pozzessere
Con qualche eternità di ritardo, i ricercatori del New York Presbyterian hospital (Weill Cornell Medical Center) hanno scoperto che il novantacinque per cento di tutto quello che facciamo, pensiamo, amiamo appartiene alle decisioni di una divinità invisibile, l’Inconscio. Per quanto vecchia, nessuna notizia potrebbe essere più crudele e spaventosa di paurosa per le sue consequenze «inimmaginabili», Rishi vedici, sciamani e veggenti greci hanno dato un volto simpaticamente distruttivo a questo mostro chiamandolo Dioniso, Vuland o Shiva cercando di scorgere qaualche aspetto positivo in una pulsione divinamente cieca ma alla fine nascosero dietro sacri mantra e fiori di papavero l’abisso che avevano intravisto
Cosa sia veramente questo inconscio che vive non dentro di noi (non esiste alcun «dentro» nella nostra mente) ma per noi, cioè, al nostro posto neppure Freud è riuscito mai a definirlo con chiarezza. Si sa che questo ospite segreto non conosce valori, bene, male, moralità o scorrere del tempo. Soprattutto, è tagliato fuori dal mondo esterno che conosce solo attraverso il fantasmagorico, illusorio io degli esseri viventi. Quell’io che usiamo quando mandiamo sms, abbiamo fame o andiamo al cinema. Lo spazio dell’inconscio è incomparabilmente più vasto di quello che ci è dato immaginare e la sua infinità è determinata dalla sua «muta ma possente pulsione di morte».
Dunque l’inconscio si alimenta, non solo secondo Freud, di morte, materia alquanto indigesta per i vivi. Ma ci si puo rifiutare di invitare a cena chi possiede il novantacinque per cento della nostra vita?
Se osserviamo i nostri umori influenzare con implacabile indifferenza decisioni, comportamenti ed emozioni, avremo più di un motivo per non dubitare delle parole del Presbyterian hospital. Non si tratta solo di umori, della scelta di una cravatta, di un partner o di un libro. Si può, senza problemi, uccidere, stuprare, sganciare un’atomica, inquinare, coltivare passioni e orrori pedofili, dedicarsi alla vivisezione, affamare, rubare, mutilare, trafugare organi, seminare stragi, divorare, bruciare, seppellire… tutto proviene dal novantacinque per cento di azioni inconsce, pulsioni, inconsce, decisioni inconsce. Come può il resto della nostra anima, della nostra mente, del nostro cervello, opporsi con il suo esiguo cinque per cento al volere di questo invisibile, onniscente, buio inquilino che siamo pur sempre noi, cioè io e voi?
Non basta. La vera pazzia, a questo punto, è dormire. Passiamo un terzo della nostra vita viaggiando in territori sconosciuti, pieni di pericoli, di volti sconosciuti che ci ingannano con sciocche promesse che a noi sembrano mirabili paradisi. Eppure, ogni notte ci infiliamo sotto le lenzuola, chiudiamo gli occhi, dormiamo. Non dormiamo, lo scopo del sonno è il sogno. Privati del sogno per qualche giorno, il nostro io deperisce e muore e noi con lui. Quindi, così come noi viviamo perché dobbiamo morire, così dormiamo perché dobbiamo sognare. Qui non c’è nessuna scelta, nessun libero arbitrio. La percentuale scende a zero. Perché allora è così importante il mondo dei sogni? Che cosa ci rivela? Una traccia rivelatrice si trova nell’intenso libro di Edda Bresciani La porta dei sogni (Einaudi pp. 190, euro 19,50) quando dice che gli egizi definivano il sogno «reset», risveglio.
Dunque, quando chiudiamo gli occhi, le palpebre diventano pesanti e il sonno ci trascina sempre più giù facendoci agitare rumorosamente tra le lenzuola, in realtà ci stiamo svegliando e se ci svegliamo nel sogno vuol dire che prima, da svegli, dormivamo. Che la vita sia illusione, che l’Io non esista, che tutto dipenda dal riverbero incerto di una luce beata che per motivi inspiegabili si è solidificata negli elementi che hanno creato i mondi (che però continuano a non esistere) è stato predicato dal Buddha Sakyamuni fino alla sua estrema vecchiaia e prima e dopo di lui, molti, moltissimi ci hanno avvertito che la vita è un sogno, un’illusione, un riflesso pieno di furore e rumore «che non significa nulla».
Anche Shakespeare, durante la sua tenebrosa e umiliante passione per il Conte di Southampton, il misterioso «mr.W.H» nella dedica dei Sonetti, ne aveva scritto con una potenza piena di meraviglioso dolore. Cosa c’è di più eccitante di un sogno, di una illusione? I sogni, le illusioni si rigenerano senza fine. Sono le sole cose eterne che conosciamo. Da svegli diventano polvere.
Dunque, dormire per gli Egizi, per i Greci o per gli Indu equivale a svegliarsi, a risvegliarsi. Ma dove ci risveglia?
Nella psicanalisi, il luogo del sogno è un luogo sotterraneo, dove persone diverse da noi vivono e si organizzano sotto i nostri piedi inconsapevoli. In sostanza è l’Ade, con il suo dio invisibile e i suoi ospiti assetati di sangue. I Greci hanno descritto spesso e in modo diverso la discesa nel gelido regno di Ade. A volte come un umido teatro d’ombre, a volte come una farsa o un gioco. Non amavano la morte, la evitavano ma conoscevano la verità.
Svegliarsi quando ci addormentiamo vuol dire che adesso, mentre state leggendo, siete morti e solo più tardi, a occhi chiusi, vi incamminerete sul sentiero della vita che ci libera dal potere del Buio Signore che abita in noi. Ma mentre dormiamo, perché sogni invece di guidarci verso la liberazione ci vengono incontro, con il loro feroce accumularsi e svanire? Quei sogni, quelle persone, quei sorrisi crudeli nei volti invisibili sono l‘implacabile marea del ricordo di quando eravamo vivi, l’intrecciarsi delle emozioni che hanno fatto il nido nei recessi più indiscreti dela nostra memoria e che ci tengono in vita, una vita scombinata e illusoria, piena di nostalgia che però è l’unica che si oppone allo strapotere dell’inconscio e dei suoi inganni, con il suo misero cinque per cento. E che ci porterà in salvo.
Ci sono poche speranze di capire dove siamo e dove andremo attraverso questo forsennato copulare di istinti, avidità e illusione che ci aggredisce nel sonno e da svegli. Come liberarsi?
Una strada viene da dove meno ce la si potrebbe aspettare, dal mondo buio dell’inconscio che ci ha scelto come cordone ombelicale per nascere e riprodursi. Ma l’inconscio, proprio perché immutabile, refrattario ad ogni evoluzione e legato solo alle sue pulsioni, deve per forza agire come uno specchio pareggiando il mondo dei vivi e quello dei morti. L’altra parte, quella che ci sfugge, è identica a quella che vediamo adesso. Se siamo morti, proveremo, le stesse emozioni di prima con qualche elemento tipico di chi vive nell’illusione della vita. Per esempio, avremo una tendenza irresistibile ad amare qualcuno o qualcosa, un gatto, un fiore, un figlio e proveremo un dolore profondo a separarcene, ci commuoveremo davanti a qualcosa di bello senza spiegarcene il motivo se non con l’impressione di un ricordo. Avremo una predilezione per Mozart, Bob Dylan, la Woolf, i poeti cinesi, l’I Ching, le sedie di Hoffman, le more di rovo ecc.
Guardatevi allo specchio. Lo specchio è l’elemento che rivela l’illusione e i segreti della morte. Vi mostra tutto quello che non siete. Lo specchio è un sogno, esattamente come la vita. Contemplate i vostri occhi, la vostra bocca, le vostre orecchie. Vi appartengono solo per il cinque per cento. Lasciate svanire tutto, la beatitudine verrà quando avrete dimenticato anche quella misera percentuale. Lasciatela al Presbyterian hospital.
Siamo morti? Pensateci e se siete delle persone ragionevoli non potrete rispondere di no, a meno che non siate convinti che con lo svanire del corpo vi trasformerete in un bruco, in una verza o qualcosa del genere. Vediamo perché siamo morti mentre siamo convinti di vivere. E soprattutto vediamo se c’è una differenza tra vivi e morti. È buio, Chiudiamo gli occhi. Venite con me. Dormiamo.
l'Unità 12 Luglio 2005
Gli Egizi lo sapevano già: il sogno è la vita
di Ugo Leonzio
Ugo Leonzio è l'autore de «Il volo magico. Storia generale delle droghe» - Edizioni Einaudi e il soggettista e sceneggiatore del film «La porta delle 7 stelle» (2003) di Pasquale Pozzessere
Con qualche eternità di ritardo, i ricercatori del New York Presbyterian hospital (Weill Cornell Medical Center) hanno scoperto che il novantacinque per cento di tutto quello che facciamo, pensiamo, amiamo appartiene alle decisioni di una divinità invisibile, l’Inconscio. Per quanto vecchia, nessuna notizia potrebbe essere più crudele e spaventosa di paurosa per le sue consequenze «inimmaginabili», Rishi vedici, sciamani e veggenti greci hanno dato un volto simpaticamente distruttivo a questo mostro chiamandolo Dioniso, Vuland o Shiva cercando di scorgere qaualche aspetto positivo in una pulsione divinamente cieca ma alla fine nascosero dietro sacri mantra e fiori di papavero l’abisso che avevano intravisto
Cosa sia veramente questo inconscio che vive non dentro di noi (non esiste alcun «dentro» nella nostra mente) ma per noi, cioè, al nostro posto neppure Freud è riuscito mai a definirlo con chiarezza. Si sa che questo ospite segreto non conosce valori, bene, male, moralità o scorrere del tempo. Soprattutto, è tagliato fuori dal mondo esterno che conosce solo attraverso il fantasmagorico, illusorio io degli esseri viventi. Quell’io che usiamo quando mandiamo sms, abbiamo fame o andiamo al cinema. Lo spazio dell’inconscio è incomparabilmente più vasto di quello che ci è dato immaginare e la sua infinità è determinata dalla sua «muta ma possente pulsione di morte».
Dunque l’inconscio si alimenta, non solo secondo Freud, di morte, materia alquanto indigesta per i vivi. Ma ci si puo rifiutare di invitare a cena chi possiede il novantacinque per cento della nostra vita?
Se osserviamo i nostri umori influenzare con implacabile indifferenza decisioni, comportamenti ed emozioni, avremo più di un motivo per non dubitare delle parole del Presbyterian hospital. Non si tratta solo di umori, della scelta di una cravatta, di un partner o di un libro. Si può, senza problemi, uccidere, stuprare, sganciare un’atomica, inquinare, coltivare passioni e orrori pedofili, dedicarsi alla vivisezione, affamare, rubare, mutilare, trafugare organi, seminare stragi, divorare, bruciare, seppellire… tutto proviene dal novantacinque per cento di azioni inconsce, pulsioni, inconsce, decisioni inconsce. Come può il resto della nostra anima, della nostra mente, del nostro cervello, opporsi con il suo esiguo cinque per cento al volere di questo invisibile, onniscente, buio inquilino che siamo pur sempre noi, cioè io e voi?
Non basta. La vera pazzia, a questo punto, è dormire. Passiamo un terzo della nostra vita viaggiando in territori sconosciuti, pieni di pericoli, di volti sconosciuti che ci ingannano con sciocche promesse che a noi sembrano mirabili paradisi. Eppure, ogni notte ci infiliamo sotto le lenzuola, chiudiamo gli occhi, dormiamo. Non dormiamo, lo scopo del sonno è il sogno. Privati del sogno per qualche giorno, il nostro io deperisce e muore e noi con lui. Quindi, così come noi viviamo perché dobbiamo morire, così dormiamo perché dobbiamo sognare. Qui non c’è nessuna scelta, nessun libero arbitrio. La percentuale scende a zero. Perché allora è così importante il mondo dei sogni? Che cosa ci rivela? Una traccia rivelatrice si trova nell’intenso libro di Edda Bresciani La porta dei sogni (Einaudi pp. 190, euro 19,50) quando dice che gli egizi definivano il sogno «reset», risveglio.
Dunque, quando chiudiamo gli occhi, le palpebre diventano pesanti e il sonno ci trascina sempre più giù facendoci agitare rumorosamente tra le lenzuola, in realtà ci stiamo svegliando e se ci svegliamo nel sogno vuol dire che prima, da svegli, dormivamo. Che la vita sia illusione, che l’Io non esista, che tutto dipenda dal riverbero incerto di una luce beata che per motivi inspiegabili si è solidificata negli elementi che hanno creato i mondi (che però continuano a non esistere) è stato predicato dal Buddha Sakyamuni fino alla sua estrema vecchiaia e prima e dopo di lui, molti, moltissimi ci hanno avvertito che la vita è un sogno, un’illusione, un riflesso pieno di furore e rumore «che non significa nulla».
Anche Shakespeare, durante la sua tenebrosa e umiliante passione per il Conte di Southampton, il misterioso «mr.W.H» nella dedica dei Sonetti, ne aveva scritto con una potenza piena di meraviglioso dolore. Cosa c’è di più eccitante di un sogno, di una illusione? I sogni, le illusioni si rigenerano senza fine. Sono le sole cose eterne che conosciamo. Da svegli diventano polvere.
Dunque, dormire per gli Egizi, per i Greci o per gli Indu equivale a svegliarsi, a risvegliarsi. Ma dove ci risveglia?
Nella psicanalisi, il luogo del sogno è un luogo sotterraneo, dove persone diverse da noi vivono e si organizzano sotto i nostri piedi inconsapevoli. In sostanza è l’Ade, con il suo dio invisibile e i suoi ospiti assetati di sangue. I Greci hanno descritto spesso e in modo diverso la discesa nel gelido regno di Ade. A volte come un umido teatro d’ombre, a volte come una farsa o un gioco. Non amavano la morte, la evitavano ma conoscevano la verità.
Svegliarsi quando ci addormentiamo vuol dire che adesso, mentre state leggendo, siete morti e solo più tardi, a occhi chiusi, vi incamminerete sul sentiero della vita che ci libera dal potere del Buio Signore che abita in noi. Ma mentre dormiamo, perché sogni invece di guidarci verso la liberazione ci vengono incontro, con il loro feroce accumularsi e svanire? Quei sogni, quelle persone, quei sorrisi crudeli nei volti invisibili sono l‘implacabile marea del ricordo di quando eravamo vivi, l’intrecciarsi delle emozioni che hanno fatto il nido nei recessi più indiscreti dela nostra memoria e che ci tengono in vita, una vita scombinata e illusoria, piena di nostalgia che però è l’unica che si oppone allo strapotere dell’inconscio e dei suoi inganni, con il suo misero cinque per cento. E che ci porterà in salvo.
Ci sono poche speranze di capire dove siamo e dove andremo attraverso questo forsennato copulare di istinti, avidità e illusione che ci aggredisce nel sonno e da svegli. Come liberarsi?
Una strada viene da dove meno ce la si potrebbe aspettare, dal mondo buio dell’inconscio che ci ha scelto come cordone ombelicale per nascere e riprodursi. Ma l’inconscio, proprio perché immutabile, refrattario ad ogni evoluzione e legato solo alle sue pulsioni, deve per forza agire come uno specchio pareggiando il mondo dei vivi e quello dei morti. L’altra parte, quella che ci sfugge, è identica a quella che vediamo adesso. Se siamo morti, proveremo, le stesse emozioni di prima con qualche elemento tipico di chi vive nell’illusione della vita. Per esempio, avremo una tendenza irresistibile ad amare qualcuno o qualcosa, un gatto, un fiore, un figlio e proveremo un dolore profondo a separarcene, ci commuoveremo davanti a qualcosa di bello senza spiegarcene il motivo se non con l’impressione di un ricordo. Avremo una predilezione per Mozart, Bob Dylan, la Woolf, i poeti cinesi, l’I Ching, le sedie di Hoffman, le more di rovo ecc.
Guardatevi allo specchio. Lo specchio è l’elemento che rivela l’illusione e i segreti della morte. Vi mostra tutto quello che non siete. Lo specchio è un sogno, esattamente come la vita. Contemplate i vostri occhi, la vostra bocca, le vostre orecchie. Vi appartengono solo per il cinque per cento. Lasciate svanire tutto, la beatitudine verrà quando avrete dimenticato anche quella misera percentuale. Lasciatela al Presbyterian hospital.
Siamo morti? Pensateci e se siete delle persone ragionevoli non potrete rispondere di no, a meno che non siate convinti che con lo svanire del corpo vi trasformerete in un bruco, in una verza o qualcosa del genere. Vediamo perché siamo morti mentre siamo convinti di vivere. E soprattutto vediamo se c’è una differenza tra vivi e morti. È buio, Chiudiamo gli occhi. Venite con me. Dormiamo.
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