domenica 5 settembre 2004

ragione e religione

Corriere della Sera 5.09.04
Ma gli eredi della Ragione
hanno perso l’antica saggezza
di ROBERTO RADICE*


«I sapienti dicono che cielo, terra, dèi e uomini sono tenuti insieme dall’ordine, dalla saggezza e dalla rettitudine... ed è per tale motivo che essi chiamano questo tutto cosmo , cioè ordine». Se fosse possibile in un’estrema semplificazione trovare la sorgente del pensiero occidentale, la coglierei proprio in questo asserto pitagorico del VI secolo a.C., forse pronunciato nella città di Crotone nell’antica scuola di Pitagora e tramandatoci da Platone. Lo metterei all’origine della cultura dell’Occidente non perché esso ci insegni qualcosa di particolare, ma perché si è subito depositato nel nostro subconscio cognitivo diventando una sorta di «pregiudizio» universale del modo di sentire, di conoscere e di operare. Per esso, noi sappiamo in anticipo, pur non avendolo ancora provato, che i fenomeni di domani seguiranno le medesime leggi di quelli di oggi e siamo certi che a parità di condizioni sortiranno i medesimi effetti.
Anzi, in un senso ancor più generale, avvertiamo che ogni cosa che esiste o esisterà in futuro sarà suscettibile di ordine e di ragione e pensiamo pure che se, eventualmente, un qualche disordine dovesse apparire all’orizzonte, questo sarebbe appunto «apparente», in attesa di venire riassorbito nella generale armonia.
In verità l’espressione pitagorica da cui muoviamo è molto più impegnativa e densa di quello che sembra. Non solo ci obbliga a credere che il tutto è razionale, ma anche ci costringe a ritenere che questa razionalità può essere da noi colta in pienezza di forma e di senso con la sola forza dell’intelligenza. Per tale motivo, quasi a nessun greco (fatta eccezione per qualche sofista o per qualche filosofo scettico) venne mai in mente di dubitare seriamente della capacità della mente umana a intendere il mondo e anche quando, nell’ultima fase del pensiero ellenico (ad esempio nel neoplatonismo) oppure nel giudaismo alessandrino, comparve l’idea che l’intelletto può imbattersi in qualcosa di inconoscibile, anche in questo caso non fu una deroga al principio di ragione, ma l’approdo a una specie di ulteriore ragione la quale non sta nel pensiero discorsivo, ma nell’intuizione assolutamente unitaria. Dunque, non si trattava tanto di un «inconoscibile», quanto di un «ineffabile».
Ma la ragione è difficile da difendersi quando, in maniera diretta o indiretta, i fatti della vita e l’esperienza della storia la smentiscono di continuo. Cos’ha di razionale la morte di Socrate? Non è forse una palese smentita della «saggezza e rettitudine» che reggono il mondo? No, direbbe Platone, perché il mondo è una realtà duplice, per metà fatto di idee di perfetto ordine e per metà fatto di chora , cioè di materia bruta e caotica. E qui appunto sta il male con la sua forza sovversiva e deviante. L’idea, però, domina comunque sulla chora e, quindi, ancora di «razionalismo» si deve parlare.
Allo stesso problema del disordine nel cosmo (dunque, a una contraddizione in termini) Aristotele dà una diversa soluzione: il disordine è solo nell’attimo fuggente, è solo in potenza, perché il telos - cioè il fine - del mondo intero mira alla perfezione, ossia alla Ragione.
E poi, perché affaticarsi ancora in questo assillante contrasto fra l’ordine e il disordine, il bene e il male, in un conflitto che non ha mai fine né sfogo? Vennero gli stoici (III sec a.C.) e spensero il problema. L’irrazionale non esiste proprio, c’è solo il logos - la ragione archetipa - e una natura vivente di carattere igneo, insita in ciascuna realtà ad animarla e a vivificarla. L’idea che qualcosa di irragionevole possa spuntare all’orizzonte è solo un errore di valutazione, un voler confondere il particolare con l’universale. Solamente nel particolare - affermano con forza gli stoici - sembra sussistere il disordine, ma, in verità, nella prospettiva del tutto, l’ordine è sovrano. E così, in un mondo perfettamente ordinato, provvidenza (perché tutto ciò che ci accade è «ragionevole») e necessità (perché tutto quello che avviene non può non avvenire) si identificano e l’unica libertà concessa all’uomo sta nel volere il volere del fato.
Quando poi, nella fase conclusiva del pensiero greco, a partire da Plotino (II-III sec d.C.), la Ragione trovò la sua prima collocazione in un mondo di assoluta trascendenza, non si trattò più di comprendere questo mondo - quello che interessava ai pitagorici - ma di fuggire da esso nella dimensione della pura ragione. A tal punto l’estasi, che in greco vuol dire «uscita», sembrò l’ultimo e definitivo approdo alla Ragione, intesa come la forza unificante del tutto.
Queste varie tappe che a me paiono figure del logos greco possono tutte collocarsi a fondamento del nostro modo di vivere e di pensare, come presupposti della scienza (per quanto riguarda il cosmo pitagorico), come archetipi del mondo dei valori (con riferimento a Platone), come giustificazione del progresso umano (secondo il finalismo di Aristotele), come naturalismo (secondo gli stoici) e infine come attitudine contemplativa per quanto noi dobbiamo ai neoplatonici.
Molto altro che non ha origini elleniche si è via via aggiunto alla nostra storia: il concetto di persona, l’empirismo scientifico e in genere la volontà di trasformare il mondo e non solo di conoscerlo. E si potrà anche dire che qualcosa di diverso e opposto vi si è aggiunto: ad esempio il consumismo, la comunicazione di massa, il fanatismo, la mercificazione dell’uomo e del mondo.
E infatti, per questi nuovi apporti la nostra civiltà sta cambiando e forse morendo.

* Docente di Storia della filosofia antica all’Università Cattolica di Milano

Jean Paul Sartre

La Stampa Tuttolibri 4/9/2004
Sartre, una cartina di tornasole per incubi e ideali del ‘900
specchio autobiografico
Ermanno Bencivenga


IN primavera ho tenuto un corso per le matricole su L’essere e il nulla. L'ho già fatto un paio di volte in passato, ed è un compito che affronto sempre con un po' di trepidazione. Il testo è lungo e complicato, intriso di cultura filosofica (i ragazzi americani non studiano filosofia alle superiori); l'ontologia dinamica che articola e difende è quanto di più lontano si possa immaginare dalla nozione ordinaria, quietista e scientista, dell'essere; l'autore è un intellettuale europeo un po' affettato la cui formazione e le cui esperienze non hanno nulla in comune con quelle della gioventù californiana contemporanea. Eppure ogni volta i miei timori si rivelano infondati: gli studenti frequentano regolarmente, seguono il discorso con serietà e attenzione, fanno domande pertinenti in cui si avvertono perplessità e illuminazioni di carattere personale. E conseguono ottimi risultati agli esami - forse l'indicazione più eloquente che il tema li interessa e li coinvolge. Mi sono convinto che non sia un caso. Meglio di ogni altro filosofo del Novecento, Sartre dà voce a questo nostro tempo frattale e incerto: la sua prosa gonfia e turgida, le infinite digressioni che spezzano il filo del suo discorso, i suoi esempi talvolta irritanti ma sempre azzeccati (pensate alla donna che fa finta di non notare la mano dello spasimante e preferisce illudersi di attrarlo con la sua conversazione) disegnano soggetti senza Dio alle prese con una costante reinvenzione di sé stessi; rapporti sociali che, perso ogni legame rassicurante con la tradizione, si rivelano dominati dall'inganno e dal tradimento; una carne insoddisfatta e insoddisfacente cui lo spirito tenta sempre, senza riuscirci, di sfuggire; un'etica elusiva ed esigente, necessaria e impossibile. E lo fanno in uno stile che è fedele espressione del suo contenuto: che si reinventa a ogni pagina; che lascia balenare promesse mai del tutto mantenute, sogni mai del tutto realizzati; che nega con il suo impeto e la sua urgenza la natura descrittiva in cui il progetto fenomenologico minaccia costantemente di arenarsi. È per questo che gli studenti ne sono attratti, contro le mie e le loro aspettative: sono intimiditi dall'incedere tetragono e teutonico di Heidegger; li lascia indifferenti la disperata, seriosa ludicità e lucidità di Wittgenstein; ma capiscono Sartre, hanno l'impressione che parli a loro, di loro. Così, quando mi è comparso davanti un libro intitolato Il secolo di Sartre, non ho potuto che guardarlo con favore. Finalmente, mi sono detto, si spezza l'oblio sistematico del pensatore della libertà; compare qualche crepa nella generale congiura del silenzio con cui gli si sono fatti scontare la sua eccessiva popolarità e autorevolezza, la sua sfrontata indipendenza di giudizio, la sua incredibile capacità creativa, il suo controllo sicuro dei generi letterari più diversi. Finalmente potremo parlare con serenità di come un intero periodo della nostra storia sia riflesso nei testi di Sartre, almeno quanto l'opera di Kant riflette un'epoca ispirata dalle idee razionali e l'opera di Hegel ne riflette un'altra intimamente convinta del carattere magnifico e progressivo delle sue sorti. Ma sono rimasto deluso, purtroppo: Il secolo di Sartre non ha molto da dire sul secolo ventesimo e, in fondo, neanche su Sartre. Intendiamoci: queste carenze non sono dovute al fatto che qui manchino lo spazio o l'impegno. L'autore, Bernard-Henri Lévy, ha scritto un tomo di oltre cinquecento pagine e le ha occupate discorrendo, per quanto in modo un po' caotico, dell'intera produzione sartriana. Ma Sartre e il suo secolo non sembrano interessarlo granché. I fantasmi di Lévy sono altri: vuole capire come Sartre abbia acquisito tanta importanza, perché abbia voluto essere insieme Stendhal e Spinoza (perché riteneva di non poter primeggiare né come puro filosofo né come puro letterato, e quindi si è cercato una nicchia sua propria?), usando quali tattiche sia riuscito ad appropriarsi con successo del pensiero altrui. Ne viene fuori, inevitabilmente, un libro pieno di dettagli (sarei tentato di dire: di pettegolezzi), che posiziona Sartre rispetto ai suoi maestri e ai suoi compagni di scuola, alle sue famiglie e alle sue amanti, e così facendo lo inchioda a una condizione molto specifica, da cui nulla impariamo sul suo ruolo di icona universale. Come può riconoscersi in questo Sartre una persona che non sia stata allevata da un nonno sacerdote mancato e bibliofilo accanito, o che non abbia con la donna della sua vita una relazione di paradossale intimità e distanza (una relazione scritta, per lo più, in cui le dava rigorosamente del voi e le raccontava in tutti i particolari le sue avventure con altre), o che non abbia incontrato la catarsi in un campo di prigionia nazista? Che significato avrà, questo Sartre, per una persona che non conosca e magari non voglia conoscere i mille personaggi, quasi tutti francesi, che Lévy evoca nel costruire il suo presepio? Oppure, per arrivare infine all'aspetto più deteriore dell'operazione, come non chiudere il libro annoiati quando ci si rende conto che Lévy sta parlando soprattutto di sé stesso: che a ogni piè sospinto menziona i suoi libri, i suoi incontri con questo e con quello, le sue opinioni e idiosincrasie? Quando si capisce insomma che Sartre è solo un pretesto per un certo tipo di autobiografia? Lasciamo perdere Lévy, dunque, e torniamo ad aspettare che qualcuno si ricordi di Sartre. Che qualcuno davvero lo usi come cartina di tornasole per gli incubi e gli ideali del Novecento, come sensibile testimone e appassionato partecipe delle sue speranze e dei suoi orrori. Come simbolo e riassunto di un secolo.

Emanuele Severino

Corriere della Sera 05 Settembre 2004
IL FILOSOFO «SCOMUNICATO» DAL SANT’UFFIZIO
Severino: attenti, il nuovo terrorismo è la Tecnica
«I terroristi di oggi sarebbero impensabili senza l’uso dei media»
«Lo scontro di civiltà? Islam e Cristianesimo entrambi figli di Atene»


LA prima parola è il silenzio, pietas. La seconda, davanti al massacro di bambini di Beslan, è «il nuovo terrorismo ceceno dimostra che la tesi dello scontro di civiltà è sbagliata». Lo scontro non è tra Islam e Cristianesimo, «rami» dello stesso albero, la filosofia greca; lo scontro è interno all’Occidente, «tra il grande Passato e la temperie filosofica degli ultimi due secoli che nega nel modo più radicale quel Passato, alimentata com’è dall’idea nietzscheana della morte di dio».
Emanuele Severino è nella sua casa in provincia di Brescia, dietro di lui pareti tappezzate di libri, l’amato Parmenide, che gli costò in anni remoti la «scomunica» da parte del Sant’Uffizio, il cristallino Platone «da cui tutto comincia», i padri della Chiesa significativamente accanto ai fratelli arabi, Avicenna e Averroè, poi il saturnino Nietzsche, emblema della follia della modernità, e il cosmico Leopardi. Davanti, un pianeta che non è bello guardare neanche con gli occhi della sophia, l’antica saggezza greca. Commozione e dolore, chi non li ha provati davanti alle foto dei ragazzini osseti? Ma poi come capire cosa succede al mondo tre anni dopo l’11 settembre, massacri di bambini, teatri presi in ostaggio, sgozzamenti senza quartiere, guerre preventive? «Il quadro di fondo, dice Severino, non cambia per questa raccapricciante vicenda di Beslan. Sì, c’è una intensificazione della violenza, una radicalizzazione quantitativa del livello di terrore: ma il quadro che lo determina resta lo stesso». E bisogna guardare questo quadro anche per capire l’Ossezia.
Il filosofo sta parlando di dinamiche fondamentali attraverso le quali l’Occidente è (divenuto) quello che è oggi, il bersaglio di un’offensiva e il teatro di una guerra. Per comprenderle, suggerisce, partiamo dalle idée reçues con le quali si cerca di rendere accessibile l’assurdo del terrorismo. Per esempio l’idea di Samuel Huntington: «Io sono convinto che la tesi dello scontro di civiltà sia sbagliata: al di sotto della superficie, che pure raggiunge livelli di cruenza e radicalità inauditi (le stragi, i sequestri, la stessa guerra americana in Iraq), esiste poi una conflittualità molto più radicale e profonda di quella, presunta, tra Islam e Cristianesimo. Questa conflittualità è la culla di ogni evento sanguinoso al quale assistiano oggi, ed è la conflittualità tra il Passato e gli ultimi due secoli, espressi dalla sentenza nietzscheana che dio è morto».
Facciamo un passo indietro, per arrivarci: perché Islam e Cristianesimo non sono nemici? «Perché appartengono allo stesso titolo a questo Passato dell’Occidente al quale alludo. Due culture che paiono nemiche sono invece solidali poiché si radicano entrambe nel pensiero greco, sono rami del medesimo tronco. Sia il Nuovo testamento (e i padri della Chiesa) sia il Corano nascono sulle stesse categorie: la filosofia greca. L’operazione che fa Tommaso, mostrare come la filosofia greca sia il piedistallo della Rivelazione, è la stessa che fa Avicenna quando dice che i preambula fidei sono nel pensiero greco. Non capirlo significa precludersi anche l’accesso a una strage come quella in Ossezia».
Islam e Cristianesimo non solo non sono nemici, ma hanno lo stesso nemico: «Il nemico comune è la distruzione del divino da parte della modernità, cioè la laicità radicale del mondo». Senonché la lettura fondamentalista assume l’Islam come l’anti-Occidente, anziché come un figlio dell’Occidente: «L’Islam non centra il punto quando dice che il grande Satana è l’egoismo, l’erotismo, la superficialità dei costumi occidentali. Il punto centrale è invece la negazione di dio operata dalla modernità, davanti alla quale l’Islam dovrebbe sentirsi solidale col Cristianesimo».
L’abbaglio, e dunque la contrapposizione dei due «nemici», è inevitabile? «Direi che Islam e Cristianesmo vengono avvertiti in questa mortale contrapposizione solo dagli integralismi di entrambe le parti. La larga maggioranza degli islamici e dei cristiani non la pensa così». Naturalmente, posto che il «tronco» è lo stesso, i «rami» sono poi molto diversi: «Mentre il Cristianesismo ha dovuto fare i conti con la modernità e la sua critica durissima (anche quando Giordano Bruno ardeva sul rogo esisteva una coscienza culturale europea che metteva sotto giudizio i suoi giudici), l’Islam dal punto di vista del rapporto col moderno è rimasto al Medioevo».
Siamo a un punto di non ritorno delle tensioni e del terrore? «In questa chiacchierata c’è un convitato di pietra: la Tecnica. Finora le forze che hanno prevalso nel mondo, ieri capitalismo e comunismo, oggi democrazia capitalismo Cristianesimo Islam e quella forma di capitalismo comunista che è la Cina, si sono servite della Tecnica come strumento. Ma lo strumento sta diventando un fine in sé. Tra qualche tempo sarà la Tecnica a servirsi dei suoi attuali padroni, proprio perché il divino è morto, e la Tecnica non ha più limiti. Basta guardare alla superpotenza americana, sempre più al servizio dell’apparato tecnico-scientifico con il quale pianificava il dominio sul mondo».
Il futuro è fosco. «A breve e medio termine siamo in una guerra, una guerra che è cominciata ben prima dell’11 settembre, da quando è finita la tensione Usa-Urss. A lungo termine la Tecnica prenderà totalmente la scena, andando incontro alla terribile vocazione naturale dell’uomo, la Volontà di Potenza, l’uomo che concepisce se stesso come Volontà di Potenza». I terroristi globali ne sono come dei prototipi: «Oggi evidentissimamente si servono della Tecnica, cercano la visibilità mediatica, se non ci fosse quella non farebbero probabilmente nulla di quanto stanno facendo. Poi sarà la Tecnica a servirsi di loro, dell’Islam come della democrazia, per imporre solo se stessa».
È l’uomo che ha ammazzato dio, e si pensa onnipotente. «Esiste un altro uomo?», domanda Severino. Forse, ma è invisibile nel mondo piccolo del terrore globale.

il doppio

La Stampa Tuttolibri 4/9/2004
IL TEMA DEL DOPPIO ATTRAVERSA LA NOSTRA CULTURA DALLA TRAGEDIA GRECA ALLA PSICOANALISI ED ESPRIME LA DIFFICOLTÀ DI VIVERE CON SE STESSI
Oddone Camerana


NEL mondo primitivo poche cose facevano paura quanto i gemelli. Orrore e spavento di fronte ad essi, visti come la rappresentazione fisica dell'indifferenziato, dell'identico e del simmetrico in cui si precipitava quando i propri desideri impattavano uno sull'altro in modo speculare. Se infatti il desiderio di una persona assomigliava a quello del prossimo tanto da eguagliarlo e si fissava su un bene di cui c'era penuria, la violenza che per appropriarsene ne nasceva dava inizio alla sequenza interminabile di colpi e contraccolpi che la tragedia antica ha tramandato nelle vicende di interminabili vendette che vi sono narrate. Valga per tutte l'esempio del ciclo dell'Orestiade di Eschilo. Dalla crisi, detta «mimetica», perché originata da un desiderio simile a quello del modello-rivale, lo studioso francese René Girard ipotizza che ci si fosse salvati una prima volta per effetto dell'intervento di una violenza inflitta a un estraneo ai due contendenti, ormai resi perfettamente speculari e inesorabilmente simmetrici o «doppi». Avendo questa nuova violenza arbitraria, in quanto scaricata su un estraneo ritenuto ingiustamente colpevole, fermato quella cattiva e interminabile, si era gridato al miracolo. A ragion veduta, perché grazie alla vittima, che era stata per questo divinizzata, i due contendenti avevano ritrovato non solo la pace, ma anche la differenza tra di loro. Da doppi che erano diventati per aver desiderato la stessa cosa e cercato, senza uscirne, di dirimere la questione con una violenza speculare e doppia, essi erano infatti tornati ad essere differenti superando lo scoglio de «l'angoscia della differenza», come viene oggi definita la paura di non distinguersi dal prossimo. Terrorizzato dunque dai doppi, il mondo primitivo e antico aveva così trovato la soluzione ai problemi descritti, ma lo aveva fatto a scapito della vittima, una abitudine, questa, che, prosperata per chissà quanto, a un certo punto aveva dimostrato crepe incolmabili. A soccorrere il mondo dall'esaurirsi di una pratica durata fin troppo, aveva provveduto l'antropologia evangelica. Nessuno prima di Gesù aveva detto parole più illuminanti sull'orrore della voglia di imitazione che prendeva coloro che, per risolvere una situazione di crisi collettiva, aspettavano che uno gettasse la prima pietra sulla vittima per copiarlo secondo il rito persecutorio quanto liberatorio. Nessuno prima di Gesù aveva detto parole più chiare sulla attrazione da cui erano presi, specialmente se in giovane età, coloro che, inciampando in un ostacolo invisibile, imitavano chi suscitava scandalo.
Tutto ciò detto per ricordare brevemente che il tema del doppio, o dell'altro io, attraversa la cultura già dai primordi. Sennonché per sentirne parlare di nuovo e in termini insoliti bisogna arrivare ai secoli più recenti della vicenda umana, come dimostra la bella antologia in materia curata da Guido Davico Bonino per la Einaudi. Ciascuno preceduto da una preziosa guida alla lettura, i 24 racconti selezionati da varie letterature post-illuministiche configurano i diversi modi in cui il doppio è stato visto da altrettanti autori maestri del «narrar breve», da E.T.A. Hoffmann a Virginia Woolf e Franz Kafka. Si va dal velo di pizzo nero che copre il volto di un predicatore, agli equivoci provocati da due persone troppo somiglianti tra di loro, al doppio come fantasma, o come ombra che prende il sopravvento, o come sosia aguzzino. Il tema è per lo più angosciante come negli esempi citati, quando non è grottesco nella forma del doppio come frammento del proprio corpo nel celebre episodio del naso ambulante di N. Gogol, o quando non dà vita a situazioni di coscienza turbata e di identificazione come ne Il coinquilino segreto di J. Conrad. Certe volte prende l'aspetto di una relazione scientifica che fa pensare ai Casi clinici di Freud. Negli autori latino-americani assume i toni ingegnosi cari alla tradizione di questa area geografica, mentre nella letteratura europea più vicina ai nostri giorni si intreccia con le strutture del sogno o degli specchi, o con la dimensione dell'autismo, o con l'universo incombente della clonazione e quello della trasmigrazione delle anime. Per lo più scritti con grande maestria, i racconti sorreggono la sfida imposta dai fraintendimenti della realtà in cui precipita l'io interiore dei protagonisti. Il problema è come venire a patti con questo essere indefinito. Se lo uccidi, come propone E.A. Poe, o se cedi al suo dominio, come accade nell'episodio raccontato da H.C. Andersen, o te lo fai portare via, come succede nel già citato Il naso, sei comunque fottuto. Ci si chiede perché, a cominciare dal XIX secolo, il tema del doppio, che faceva parte del nostro patrimonio di conoscenze nel modo illustrato sopra, sia stato collocato in area fantastica, come recita il sottotitolo dell'antologia. La ragione di questa etichetta risale alla consuetudine di porre all'origine del doppio i miti fantastici di Narciso e dell'androgino, trascurando il fatto che alla sua base stia invece la realtà del conflitto tra Caino e Abele, i due fratelli mimetici emblematicamente in lotta per cercare di assicurarsi il bene indivisibile della stima paterna. Ispirandosi alle due leggende greche che, come tutte le leggende, nascondono invece di far luce sui fenomeni, in questo caso del doppio si finisce per allontanarsi dal tema in questione, per altro mai abbandonato dalla antropologia, per nulla fantastica, della tradizione ebraico-cristiana. Dalla patristica a Sant'Agostino, il quale nel dire: «Qui imitare noluit, necare voluit», sintetizza la deriva violenta del desiderio mimetico, a Pascal, così politicamente scorretto da non vergognarsi di dire che: «Tutti gli uomini si odiano naturalmente l'un l'altro», forse perché sorretto da una lingua in cui per desiderio e invidia c'è lo stesso termine envie; a Valéry, secondo il quale «gli uomini si distinguono da ciò che mostrano e si assomigliano in ciò che nascondono», è evidente come il filo rosso della realtà mimetica, che precipita il desiderio nel doppio contrario, non si sia mai perduto del tutto. Se dunque i narratori dei due secoli passati lo riscoprono, ancorché in forma fantastica, è perché sentono di dover reagire sia al mito ottimistico dell'illuminismo sulla bontà dell'uomo, sia a quello romantico dell'inalienabile proprietà dei desideri e della loro spontaneità. Più aderente alla realtà è Dostoevskij, che raffigura «l'altro io» in personaggi dopo averne tratto i connotati esplorando gli abissi dell'universo del sottosuolo: un popolo di ipocondriaci ossessionati, posseduti da copie di sé indotti, questi, a inseguire i loro modelli dall'insopprimibile bisogno di copiarne i desideri. Non è dunque motivo di stupore il fatto che, dando profilo caricaturale al fenomeno, ad un certo punto, da fantastica la letteratura diventa una branca o una specialità della psichiatria e, che, rinunciando al bisogno di raffigurare l'altro io in personaggi, in fantasmi, in apparizioni, in sosia e in presenze persecutrici, essa tende la mano alla scienza psichiatrica. Ed ecco allora lo psichiatra inglese R.D. Laing che ne L'io diviso presenta una casistica di catatonici e di schizofrenici come una serie di personaggi da romanzo. Ricordo che i duplicati, o meglio i posseduti dell'epoca classica erano i lussuriosi, i superbi, i golosi, gli avari, gli iracondi, gli invidiosi e, a modo loro, gli accidiosi presi dal nulla, antesignani dei nichilisti e degli indemoniati di Dostoevskij. I posseduti di oggi sono invece, per fare alcuni esempi, i drogati e i dopati, gli ammanettati mentali descritti da Ceronetti, gli sfiniti dalla fatica di essere se stessi, l'antiamericanismo ossessivo dei francesi americanizzati come tutti dal cinema, dalla Coca-Cola e da Internet, e tutti coloro che non riescono a sottrarsi dalla dipendenza di spiare coloro che odiano. Il doppio di cui parliamo non esiste in sé stesso. Detto in termini scientifici, è una figura relazionale, risultato di una struttura binaria. Si forma, e perché questo avvenga bisogna essere in due. Presi all'identica voglia, questi si fronteggiano e arrivano al punto di dimenticare il bene conteso - la stima del prossimo, ad esempio - e di provare il fastidio di vedersi uguali. La situazione assurda ma reale, descritta dal doppio, di cercare di distinguersi da chi si copia, è una scoperta recente, attorno alla quale si sono organizzate le leggi della pubblicità, della moda e del marketing, nonché dello snobismo, dove la dipendenza da coloro da cui si vuole differire è una ben nota ossessione. Certo, in epoca di individualismo e soggettivismo, come la nostra, è difficile accettare l'idea che il desiderio sia copiato, tanto più nei casi in cui si afferma l'idea-prestigio che sia bello dissimulare il desiderio, negarlo magari nel risentimento o nella capacità di dire di no. Tutte forme per nascondere la realtà del doppio in agguato, per redimersi dal quale la tradizione cristiana, come riportato da Tommaso da Kempis ne L'imitazione di Cristo, raccomandava un'imitazione senza pericoli. Oggi, in epoca secolarizzata che propone di essere modelli a se stessi, è con se stessi che si cerca almeno di convivere.

Piergiorgio Odifreddi

La Stampa 4/9/2004
Ci vuole logica, se non vuoi cadere in trappola
Piergiorgio Odifreddi divulga le regole essenziali del pensiero e del linguaggio, fra teorie e aneddoti, da Parmenide a Gödel da Kant a Amartya Sen: una disciplina che in matematica come in politica «redime dalla metafisica»
Piero Bianucci


SE in una stazione domandi qual è il treno per Brindisi, qualcuno ti risponderà l’IC 726, qualcun altro l’Inter City in partenza dal terzo binario e qualcun altro ancora farà segno con il dito dicendo: «Quello lì». Sono tre livelli di discorso: accademico, «medio-alto» e popolare. Piergiorgio Odifreddi li pratica tutti e tre con la stessa dedizione e disinvoltura. Da accademico, insegna logica matematica all’Università di Torino e, stagionalmente, alla Cornell University di New York. Divulgazione alta è, per esempio, Il diavolo in cattedra, una storia della logica che ha pubblicato un anno fa da Einaudi, dove parecchie pagine sono irte di formule. Divulgazione più popolare nel senso migliore della parola è Le menzogne di Ulisse, un’altra storia della logica ma più narrativa e colorita, appena uscita da Longanesi. Come nel caso della stazione l’importante è che il viaggiatore salga sul treno giusto, così nei tre esempi fatti si può stare tranquilli che Odifreddi ti porterà felicemente a destinazione. Collane librarie, saggi, passaggi in tv, conferenze, dibattiti: convinto che in sostanza comunicare e divulgare sia quasi la stessa cosa, Odifreddi non tralascia nessuna opportunità. Questo pomeriggio, per esempio, è a Sarzana per il «Festival della Mente»: nel Chiostro di San Francesco spiegherà che «Creare è una questione di logica»; sabato prossimo sarà al Festival della Letteratura di Mantova per l’evento «Ti racconto... Alan Turing» a Palazzo San Sebastiano. Le menzogne di Ulisse è un libro intessuto di aneddoti e curiosità, merce che tra i matematici e i logici sovrabbonda. Per restare al tema del pensiero creativo di cui a Sarzana stanno discutendo biologi, filosofi, psicologi, musicisti e scrittori, è interessante scoprire come sia stato diverso l’approccio alla logica di persone ugualmente geniali come Pitagora, Newton, Kant, Goedel, Turing o Einstein. Chi operava nella massima concentrazione razionale, chi partiva dall’esperienza, chi, come Poincaré, aveva ispirazioni improvvise nelle situazioni più varie: «Dopo aver bevuto una tazza di caffè, sul predellino di un autobus, passeggiando sulla spiaggia, attraversando la strada». E infatti, riferisce lo psicologo Toulouse, si dedicava allo studio dei problemi dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, «lasciando la mente vagare nel resto del tempo». Spesso incominciava a scrivere senza sapere dove sarebbe andato a parare, cambiando tema se il discorso non veniva bene. Così produsse 500 lavori e una trentina di libri, inclusi quelli che hanno fondato la teoria del caos deterministico. La logica però non la prendeva sul serio, pensava che tutt’al più servisse a controllare le intuizioni, il che non gli impedì di darle contributi geniali. In quanto disciplina che studia il pensiero e il linguaggio, la logica ha qualcosa da dire su tutto, ma è in matematica e informatica che ha avuto gli sbocchi più rilevanti: con Goedel e il suo teorema di incompletezza, secondo il quale di alcune affermazioni non si può dire né che sono vere né che sono false perché sono indecidibili («come nei migliori processi di mafia», soggiunge Odifreddi maliziosamente); e con Turing, la cui tesi di laurea pose le basi della macchina universale, il computer, nella quale lo stesso hardware è programmabile in una quantità illimitata di modi, così da poter affrontare illimitati problemi. Il teorema di Goedel, fa notare Odifreddi, ha un peso analogo al principio di indeterminazione di Heisenberg, fondamentale nella fisica quantistica: «Come il teorema di incompletezza ha decostruito la nozione metafisica di verità matematica sostituendola con quella operativa di dimostrabilità e scoprendo l’esistenza di verità non dimostrabili, così il principio di indeterminazione ha decostruito la nozione metafisica di realtà fisica, sostituendola con quella di misurabilità e scoprendo l’esistenza di realtà non misurabili». Ma la logica ha contribuito alle scienze della vita (in particolare al problema-cardine dell’autoriproduzione, dal Dna al replicarsi delle cellule e degli organismi), alla politica (il teorema di Arrow mette in crisi la possibilità della democrazia), alla nozione di diritto (decostruita da Amartya Sen, premio Nobel nel 1998). Ancora più in generale, la logica ha il ruolo di smontare quelle sublimi trappole che il pensiero e il linguaggio costruiscono, rimanendo poi prigionieri di concetti come essere, infinito, verità. «Fino a quando la cosa si mantiene nel sano ambito della logomachia e della logopaidia, cioè della battaglia o del gioco di parole, tutto va bene - conclude Odifreddi -. Ma quando si soffre di logopatia o di logolatria, cioè di patologia o di adorazione del linguaggio, allora diventano necessarie una logopedia o una logotomia, una rieducazione o una asportazione del logos, che solo la logica ha dimostrato di saper effettuare». Insomma: la logica non si limita a far piazza pulita della metafisica ma è «una redentrice dal peccato originale del linguaggio, apparsa in Terra per riscattare chi parla e chi pensa».