martedì 4 gennaio 2005

citato al lunedì:
psicofarmaci
«Prozac, il dossier scomparso»

Corriere.it 3.1.05
CRONACHE
Sotto accusa l’azienda produttrice. Gli esperti: può essere utile
Prozac, il dossier scomparso: «Aggressività e rischio suicidi»
In uno studio gli effetti collaterali dell’antidepressivo. «Ma è stato nascosto»
di Margherita De Bac


ROMA - L’accusa è di vecchia data, le prove però sono nuove. Ancora forti sospetti sul Prozac, uno dei farmaci più venduti nella storia della medicina, la pillola che ha promesso la felicità a milioni di depressi. La fluoxetina, il principio attivo di cui è composta, era stata accusata di scatenare drammatici effetti collaterali, da profonde modificazioni del comportamento al suicidio a forme incontrollate di aggressività.
IL DOSSIER - La documentazione, di cui non si aveva traccia dal ’94, è stata pubblicata nell’ultimo numero del British Medical Journal: secondo un rapporto datato 1988, «il 38% dei malati a cui è stata somministrata fluoxetina presentano un eccesso di eccitazione motoria, contro il 19% dei pazienti che invece ricevono il placebo». Lo studio, dunque, mostrerebbe l’esistenza di un legame fra l’assunzione dell’antidepressivo e forme di aggressività, fino al suicidio. Gli editori della rivista medica hanno ricevuto il materiale per posta, da un mittente ignoto, e adesso alcuni esperti ci stann o lavorando per stabilire eventuali responsabilità della casa madre. Alla Eli Lilly, la multinazionale statunitense che sul Prozac ha costruito parte della sua fortuna dalla metà degli anni ’80, si rinfaccia di aver nascosto la verità negando il compromettente dossier al Fda, l’ente americano per la registrazione dei farmaci. L’azienda non commenta, ma ricorda che il medicinale «ha migliorato in modo significativo la vita di moltissimi pazienti. É una delle molecole più studiate ed è stato prescritto a 50 milioni di malati. La sua sicurezza ed efficacia sono state ben analizzate». Il caso fluoxetina è divampato nell’89. Un uomo si suicidò dopo aver ucciso 8 colleghi col fucile. Era sotto cura per depressione. La famiglia raccolse le prove e tirò fuori durante il processo le carte che evidenziavano come la pillola fosse causa di forte «agitazione, aggressività e aumento delle tendenze suicide». Il fascicolo sparì nel ’94.
CLASSE - Il Prozac appartiene alla classe degli inibitori della ricaptazione della serotonina, gli SSRI. Interviene sul meccanismo di uno dei neurotrasmettitori che regolano il nostro umore. Da oltre un anno è uscito di brevetto per esordire nella categoria dei generici. Qualsiasi azienda può decidere di produrlo. Nel frattempo sono entrate in commercio molecole sempre più sofisticate, di ultima generazione, che hanno ridotto la popolarità della «prima nata». Eppure della famosa pillola si continua a parlare, come è accaduto solo pochi mesi fa a proposito di un aumento di incidenza di suicidi che gli psicofarmaci procurerebbero tra i minorenni senza che sui foglietti illustrativi siano riportati i necessari avvertimenti mirati sui bambini.
CONSUMI - Celebrità legata soprattutto ai consumi e alla diffusione dei disturbi psichiatrici. Secondo Giuseppe Dell’Acqua, direttore dipartimento Salute mentale di Trieste, dall’1,5 al 3% di italiani soffrono di problemi gravi, il 25% denunciano nell’arco dell’anno stati di sofferenza psichica. In Italia nel quadriennio 2000-2003 la vendita degli psicofarmaci è cresciuto del 75%. Si contano 50 confezioni di antidepressivi ogni 100 abitanti, oltre a 126 di benzodianzepine (ansiolitici e tranquillanti) e 20 di antipsicotici. Rispetto ad altri Paesi siamo tra gli utilizzatori più morigerati. Nota Dell’Acqua: «Sono un sostenitore delle cure farmacologiche per lenire il dolore ma da qui a costruire un modello imperante che interpreta tutto in chiave farmacologica ce ne passa. Che gli antidepressivi abbiano effetti collaterali lo sappiamo bene. Il problema è che se ne abusa ed è normale poi che ci siano casi estremi».
EFFETTI - Non si sorprende dei recenti sviluppi sul Prozac Silvio Garattini, Istituto Mario Negri: «Gli effetti di questa classe di molecole, come fluoxetina e paroxetina, non sono un segreto. Non sempre danno felicità». Fabrizio Starace, primario di psichiatria al Cotugno di Napoli, teme «la criminalizzazione dell’antidepressivo, che invece è una risorsa utile per chi sta male». E spiega: «Bisogna invece criminalizzare le modalità di prescrizione. Il farmaco è l’unico agente terapeutico prodotto a scopo di lucro a differenza di psicoterapia e interventi territoriali. Va da sé quali interessi si trascini dietro». Il rischio dell’inappropriatezza è in agguato. Ma Alberto Siracusano, cattedra di psichiatria a Tor Vergata, invita a non fare confronti tra Usa e Italia: «La nostra cultura ci riporta ad un uso molto oculato. In molti hanno beneficiato dei vantaggi dei serotoninergici, mi sembra assurdo rifarsi a un episodio di 20 anni fa».

PTSD
ancora sul disturbo post-traumatico da stress

humanitasalute.it 4 gennaio 2004

Ernesto Caffo:
vicini alle piccole vittime È allarme Disturbo Post Traumatico da Stress per le piccole vittime: una task force internazionale di psichiatri infantili coordinata da Telefono Azzurro pronta ad intervenire nei Paesi colpiti dal maremoto Telefono Azzurro insieme ad ESCAP, Società Europea di Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, IACAPAP, International Association for Child and Adolescent Psychiatry and Allied Professions, si sono attivate per organizzare una task force di psichiatri internazionali - tra cui Myron Belfer, Responsabile all’interno dell’OMS per la Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza e Nathaniel Laor dell’Università di Tel Aviv, esperto degli aspetti psico-sociali dell’intervento in situazioni di guerra e terrorismo – pronta ad intervenire nei Paesi colpiti dal maremoto. Il team di esperti è già in stretto contatto con gli psichiatri e gli operatori indiani ed indonesiani per studiare un piano d’intervento specifico per il Disturbo Post Traumatico da Stress.
Il PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress) è il disturbo mentale che con maggior rischio incorre nei bambini e negli adolescenti vittima di eventi catastrofici. I sintomi di questa patologia sono: paura, sintomi dissociativi, disordini depressivi, disturbo dell’adattamento, disturbi d’ansia, disturbi della condotta, disturbi dell’attenzione, e abuso di sostanze. Il PTSD può tradursi in età adulta anche in disturbi di carattere medico: spossatezza, disturbi gastrointestinali, mal di testa, asma, problemi cardiovascolari, dolore cronico. Sebbene l’investigazione degli aspetti neurobiologici del trauma in età evolutiva sia ancora ai suoi esordi, diversi studi hanno evidenziato come lo stress sia in grado di plasmare la maturazione di determinate strutture del sistema nervoso, di modificarne il funzionamento, di influenzare le funzioni cognitive, emozionali e comportamentali. Un’esperienza traumatica può dunque condizionare lo sviluppo biologico, cognitivo, emotivo e relazionale del bambino: ne parliamo con il Prof. Ernesto Caffo, Ordinario di Neuropscichiatria Infantile dell’Università di Modena e Reggio Emilia e Presidente della Società Europea di Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.
Prof. Caffo, quali possono essere le conseguenze di un'esperienza così traumatica?
“L’esperienza traumatica può produrre conseguenze psicopatologiche di diversa natura. Il trauma non costituisce solo un fattore di rischio per una serie di disturbi mentali ma può anche condizionare lo sviluppo del bambino, i suoi processi di apprendimento e socializzazione: le ferite, inoltre, possono trasformarsi in aggressività e rabbia, fino a vere e proprie manifestazioni di violenza. Occorre quindi intervenire precocemente: la prontezza nell’identificazione dello stato di disagio e nell’intervento con individui altamente traumatizzati e con le loro famiglie rappresenta un importante fattore protettivo".
È importante dunque intervenire al più presto nelle zone colpite?
“Assolutamente. Ci siamo infatti attivati subito. Tutti gli psichiatri infantili europei hanno dato la loro disponibilità a mettere insieme competenze ed esperienze per sostenere gli psichiatri delle zone colpite. Stiamo gia’ coordinanci con i colleghi indiani e indonesiani per supportarli nella gestione della prima emergenza e concordare un piano d’intervento adeguato. A breve partirà un team specializzato nell’intervento in situazioni di eventi catastrofici, il quale si concentrerà soprattutto sulla formazione degli operatori locali".
Il progetto di collaborazione con i colleghi dei Paesi colpiti segue i principi definiti dalla Carta di Roma: il documento programmatico, siglato l’anno scorso da 40 esperti provenienti da USA, Israele, Iraq, Egitto, Iran, Australia, Libano, Estonia, Germania, Francia e Nuova Zelanda, che definisce l’impegno di un gruppo di lavoro internazionale specializzato nelle situazioni di trauma. Obiettivo è promuovere la ricerca, condividere esperienze ed elaborare nuovi modelli d’intervento da portare nei Paesi colpiti da eventi catastrofici.
In Italia Telefono Azzurro collabora già con la Protezione Civile Regione Emilia Romagna presso l’Aeroporto di Malpensa, dove un gruppo di esperti accoglie bambini, adolescenti e le loro famiglie, fornendo un supporto psicologico.

A cura dell'Ufficio Stampa di Telefono Azzurro
Info:
Novella Pellegrini – tel. 349/7876827
Cristina Setti – tel 348/7987844

ancora sui crimini dei cattolici ladri di bambini
ieri, il manifesto, oggi Avvenire e Corsera

ilmanifesto.it
2 gennaio 2004
DIVINO
Battesimo come destino
FILIPPO GENTILONI


Nei giorni intorno al natale è tornata di attualità la discussione sul comportamento di Pio XII nei confronti dello sterminio nazista degli ebrei. Una discussione che da decenni vede ripetersi gli stessi argomenti: forti da parte dell'accusa e piuttosto deboli da parte della difesa. L'occasione, questa volta, è un documento del 1946 pubblicato in Francia e ripreso da Alberto Melloni sul Corriere della Sera. Da Roma arrivarono al nunzio Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, indicazioni sui bambini ebrei che erano stati ricoverati in case e conventi cattolici e battezzati. La risposta fu che non si restituissero, passato il pericolo, alle famiglie ebree: ormai dovevano essere considerati e educati come cattolici. Roncalli, per fortuna, disobbedì alle ingiunzioni, a dir poco, inumane di Roma. Una triste vicenda, non nuova negli anni tragici della shoah, sulla quale si può leggere, fra l'altro, il ben documentato studio di Marina Caffiero Battesimi forzati. Storia di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi (edizioni Viella). I casi esaminati riguardano soprattutto il 700; nel secolo successivo il caso più famoso è stato quello del bambino Mortara che fu sottratto ai genitori e poi divenne sacerdote. Gli argomenti contro questa prassi sono stati autorevolmente ripresida Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche italiane che ha definito «orrendo» quel documento («è arido, burocratico, non ha nessuna sensibilità, mi spiace dirlo, per la shoah») e ha aggiunto che il Vaticano si guardi bene dal «beatificare» Pio XII.
Quanto agli argomenti portati in difesa, sono sempre gli stessi: il Vaticano fece il possibile, i cattolici salvarono un numero notevole di ebrei e se la condanna vaticana del nazismo fosse stata più esplicita, la strage sarebbe stata ancora più tremenda. La migliore sintesi del dibattito rimane, a mio avviso, quella contenuta nei saggi dello storico Giovanni Miccoli , fra cui I dilemmi e i silenzi di Pio XII (Rizzoli): il primo termine non elimina il secondo né lo giustifica. Per Miccoli «né la Santa Sede né la gran parte del mondo cattolico avevano l'esatta percezione della specificità della shoah».
Con ogni probabilità il dibattito è destinato a proseguire. Intanto mi sembra importante riflettere sulla teologia che la posizione vaticana sottintendeva e che ancora è largamente dominante nel cattolicesimo più ufficiale. Una teologia per la quale i sacramenti - in particolare il battesimo - hanno un effetto di tipo meccanico, quasi automatico, indipendente dalla volontà e dalla libertà di ciascuno. Automatismi di tipo quasi magico, tali da determinare per sempre appartenenze, sorti, diritti e doveri. Questa teologia portava il documento vaticano a dichiarare: «I bambini che sono stati battezzati non potranno essere affidati a istituzioni che non ne sappiano assicurare l'educazione cristiana». Una educazione, però, fuori dal tempo e dalla storia.

«non ce vonno stà», è un'arroganza indefettibile: la difesa di Avvenire, che non dice un bel nulla:

Avvenire 4.1.05
INTERVISTA
Padre Gumpel, relatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli, interviene sulle insistenti polemiche di questi giorni
Caso Pio XII, documenti senza prove
«Il testo al centro del dibattito non è stato presentato con metodo corretto Non si capisce, tra l’altro, perché il Sant’Uffizio avrebbe scritto in francese al nunzio Roncalli»
Di Marco Roncalli

Non si arresta il dibattito apertosi ormai una settimana fa con la pubblicazione sul «Corriere della Sera» del documento datato 20 ottobre 1946 contenente presunte disposizioni del Sant'Uffizio sulla non restituzione di piccoli ebrei accolti da istituzioni e famiglie cattoliche ed eventualmente battezzati. Un testo sul quale è legittimo porsi qualche serio interrogativo: non a caso tra gli studiosi si ventila ora più d'una supposizione, l'ultima delle quali, ad esempio, lascia intendere che si tratti della sintesi di un'istruzione più ampia, destinata alla Conferenza episcopale francese e non al nunzio Angelo Giuseppe Roncalli: cosa da verificare. Dopo l'intervista di domenica scorsa allo storico padre Pierre Blet, prende ora la parola il gesuita padre Peter Gumpel , relatore della causa di beatificazione di Pio XII
Allora, padre Gumpel, qual è il suo giudizio circa le analisi diffuse su questa vicenda che scandalizza gli uni e scuote altri ad alzare difese, che qualcuno giudica d'ufficio se non apologetiche?
«Prima di arrivare al problema che è ampio e complesso, e al quale bisognerebbe rispondere in modo assai articolato, occorre fermarsi sul documento pubblicato. È stato pubblicato un testo senza indicare esattamente la persona che l'ha redatto, e da quale archivio...».
Ma il testo termina con tre righe «Si noti che questa decisione della Congregazione del Sant'Uffizio è stata approvata dal Santo Padre» ed è stato scritto che «l'originale si trova negli Archivi della Chiesa di Francia»...
«È questione di metodologia storica: prima di usare una fonte documentaria dobbiamo saperne di più, specie sulla provenienza, la dizione "Archivi della Chiesa di Francia" è piuttosto vaga: dove si trovava, in quale faldone, se è protocollato, dattiloscritto, se ha una busta col destinatario. E, da quanto so, dal Centro generale degli archivi francesi non è uscito nulla di simile».
Non vorrà dirmi che dubita della sua autenticità formale?
«No. Potrebbe provenire dall'archivio di qualche diocesi francese. Infatti sto indagando, e alla fine delle mie ricerche farò il punto. Ma le ho appena avviate. Poi mi lasciano perplesse alcune cose: la lingua del testo, il Sant'Uffizio da Roma e il nunzio italiano futuro Papa che comunicano in francese, il carattere più di abbozzo informativo che di documento ufficiale. E poi un'informativa redatta da chi? Ma c'è anche il fatto dell'assenza di riferimenti concreti nelle agende sul contenuto».
Contenuto che comunque non cambia.
«Mi pare che il significato del battesimo per la Chiesa cattolica sia stato ben messo in evidenza in questi giorni. Se si è battezzati validamente si è incorporati nella Chiesa. A prescindere da tutto il resto, sangue, stirpe, religione. È stato fatto notare anche che le disposizioni dei vescovi francesi erano di non battezzare quelli che venivano accolti. Anche se è facile immaginare la difficoltà di comunicare a tutti queste disposizioni in quella temperie. È stato evidenziato che ci furono casi gestiti con delicatezza. Piuttosto non si è parlato di altre cose».
Ad esempio?
«Di tutto il lavoro delle varie agenzie ebraiche sioniste, volto a ottenere persone con l'idea di trasferirle in Palestina in vista del futuro Stato d'Israele, che ancora non esisteva. Della logica dietro questo progetto. E di altri casi taciuti: armeni, zingari... La questione è molto complessa. E tanti tasselli devono trovare posto nel mosaico. Inoltre andrebbero valutati anche ulteriori aspetti».
Quali?
«Se una famiglia aveva accolto dei piccoli formando ambienti calorosi, poteva anche essere disumano toglierli a questa e affidarli ad altri. Si parla di bambini: comunque altri sceglievano per loro. Chi conosce i casi singoli? I grandi, i maggiorenni (perché c'erano anche giovani con meno di ventuno anni), sceglievano con la massima libertà. Si doveva vedere caso per caso ogni singola richiesta».
Mi sembra concordi con alcune dichiarazioni già fatte da padre Blet.
«Certo, e sono d'accordo con lui anche sul fatto che queste polemiche sono alimentate con un fine preciso, quello di fermare la causa di beatificazione di Pio XII».
Padre Gumpel, ha letto le dichiarazioni di ieri dello storico Renato Moro al «Corriere» proprio sull'atteggiamento della Chiesa cattolica e di Pio XII alla luce di questa «querelle»? Le cito due brani : «È la conferma che nell'immediato dopoguerra la percezione del problema ebraico da parte della Chiesa, nelle sue grandi linee teologiche e culturali, non risulta modificata dall'esperienza della Shoah».
«È assurdo».
Continuo: «Certamente a Pio XII sfuggì la specificità dello sterminio razziale, che considerò in modo riduttivo come uno dei tanti orrori perpetrati in guerra».
«È totalmente assurdo, assolutamente assurdo».

Un atto d’accusa dello storico dopo la pubblicazione sul «Corriere» della direttiva vaticana che riguardava i bambini battezzati provenienti da famiglie israelite


Corriere della Sera 4.1.05
Goldhagen: papa Pacelli, perché non è santo
di DANIEL JONAH GOLDHAGEN
*

Immaginiamo che una persona salvi un bambino da una macchina in fiamme in una zona rurale, esponendosi a un certo rischio. I genitori sono morti. Lo definiremmo un eroe. Ma poi decide di tenere il bambino e di educarlo secondo il suo credo. Non informa le autorità. Quando i parenti del bambino, che lo cercano disperati, vengono a bussare alla sua porta, nega di sapere dove si trovi. La buona azione iniziale si trasforma in un crimine e questa persona in un rapitore. Ora è stato pubblicato sul Corriere della Sera un documento proveniente dagli archivi della Chiesa cattolica francese che mostra che papa Pio XII si comportò in maniera simile quando parenti e genitori ebrei, cercando affannosamente i loro figli, vennero a bussare alla sua porta. Nel 1946 il Vaticano inviò un documento al nunzio apostolico in Francia, Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, noto per la sua compassione verso gli ebrei e per la dedizione mostrata nel cercare di riunire i bambini ebrei, nascosti in istituti cattolici durante l’Olocausto, ai loro genitori, parenti o alle istituzioni ebraiche. Il documento ordinava a Roncalli di trattenere quei bambini: «I bambini che sono stati battezzati non possono essere affidati a istituzioni che non assicurerebbero loro un’educazione cristiana».
La ferma intenzione del Papa di non riconsegnare i figli ai loro genitori è inequivocabile: «Se i bambini sono stati affidati (alla Chiesa) dai genitori ed essi li rivogliono, possono essere loro restituiti, purché non siano stati battezzati. Si fa presente che questa decisione della Congregazione del Sant’Uffizio è stata approvata dal Santo Padre». Poiché la decisione di non restituire i bambini ebrei battezzati venne annunciata come una linea di condotta pontificia di carattere generale, ci sono buone ragioni per credere che fosse divulgata e applicata in tutt’Europa. I documenti su questo argomento restano celati negli archivi del Vaticano (come la copia dell’ordine a Roncalli) e di altre chiese nazionali.
Durante l’Olocausto migliaia di bambini ebrei trovarono rifugio in monasteri, conventi e scuole cattoliche, anche se per opera di Roncalli, non per ordine di quel papa antisemita. Furono messi in salvo da preti e suore eroici, che a volte battezzarono i bambini di cui si dovevano occupare. È noto che gli ebrei sopravvissuti o i loro parenti ed eredi ebbero spesso (anche se non sempre) difficoltà a riprendersi i figli. Si sospettava che la Chiesa si proponesse di rapire quei bambini ebrei in nome di Gesù. Una sopravvissuta ad Auschwitz, perseguitata perché ebrea, secondo Pio XII non doveva riavere il proprio figlio proprio perché ebrea.
Ora abbiamo la prova evidente: questo documento. Esso dimostra che era intenzione del Papa e della Chiesa portar via sistematicamente i bambini ebrei. E mostra quanto Pio XII fosse insensibile alle sofferenze degli ebrei. Venne così reiterata la persecuzione che avevano subito, privando i sopravvissuti all’inferno nazista, offesi fisicamente e spiritualmente, dei loro figli.
Il documento non sorprenderà chi conosce l’antisemitismo della Chiesa in quel periodo o lo sciagurato precedente di papa Pio IX, il rapimento nel 1858 di Edgardo Mortara, un bambino ebreo di sei anni, che produsse un moto di ripulsa e di protesta nei confronti della Chiesa in tutt’Europa. Ma questo documento rimuove il beneficio di cui Pio XII ha finora goduto: la possibilità, che per sessant’anni lui e la sua Chiesa hanno cercato di conservare, di negare plausibilmente molti crimini compiuti contro gli ebrei durante l’Olocausto da Pio XII, vescovi e sacerdoti.
Papa Pio XII si è reso colpevole di un crimine non restituendo i bambini ai genitori, parenti o custodi legali o spirituali. E con lui tutti i vescovi, preti e suore che si sono prestati a portar via i bambini ebrei. Nessuno è al di sopra della legge. Un leader religioso o un capo di governo che facesse una cosa simile oggi sarebbe messo in prigione (l’inquisitore, un sacerdote che rapì Edgardo per ordine di Pio IX, fu arrestato e imprigionato dalle autorità italiane)
In nome della religione, oggi e nel passato, si sono commessi molti delitti. Gli abiti religiosi non dovrebbero impedire che una persona venga chiamata con il suo nome. I recenti scandali su abusi sessuali commessi da preti ce l’hanno insegnato. Ci hanno anche insegnato che vi è necessità di trasparenza per questa Chiesa, tra le più reticenti, che ha abitualmente celato crimini e misfatti dei suoi esponenti. Se la Chiesa è l’istituzione morale che proclama di essere deve provvedere a rimediare ai suoi crimini.
Il Vaticano dovrebbe istituire una commissione di alto profilo, indipendente, composta da esperti internazionali indipendenti di storia, di questioni ecclesiastiche e giuridiche, guidata da una persona di grande statura internazionale, per stabilire quanti bambini ebrei siano stati rapiti dalla Chiesa in Europa. La commissione dovrebbe poter accedere a tutte le istituzioni ecclesiastiche, poter esaminare liberamente documenti e parlare con il personale ecclesiastico. Papa Giovanni Paolo II, che ha lavorato molto sotto vari aspetti per migliorare l’atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei, dovrebbe ordinare pubblicamente a tutte le Chiese cattoliche europee di cooperare con i membri della commissione e compiere per proprio conto ricerche su ciò che è accaduto nelle loro parrocchie. Probabilmente la maggior parte dei documenti è facile da reperire. La Chiesa è un’istituzione che registra e conserva fedelmente soprattutto una cosa: il battesimo. Una volta identificate, le vittime ebree - o i loro parenti - dovrebbero essere ritrovate e ricevere una comunicazione ufficiale. La commissione dovrebbe anche pubblicare dei rapporti storici dettagliati sulla sua ricerca.
Se la Svizzera l’ha fatto, istituendo la Commissione Bergier per indagare sul furto dei beni degli ebrei durante la guerra (sono stati pubblicati ventisei volumi sull’argomento), e se l’Australia l’ha fatto per i bambini che il suo governo ha portato via agli aborigeni in quello stesso periodo, lo può fare anche la Chiesa cattolica per il furto dei bambini ebrei.
Il Vaticano dovrebbe por fine una volta per tutte a pretesti e reticenze che durano da decenni e aprire a studiosi e giornalisti gli archivi suoi e delle sue chiese nazionali relativi al periodo dell’Olocausto. Dovrebbe smettere di pretendere che l’unico suo errore sia stato non aver fatto di più per salvare gli ebrei e che il suo unico atto di pubblica contrizione possa consistere nel presentare deboli scuse. Sicuramente il documento che è venuto fuori non è la sola prova presente nei vasti archivi segreti della Chiesa. E non dovrebbe, a questo punto, la Chiesa impedire ai suoi seguaci di attaccare gli ebrei e altri che a buon diritto le chiedono di essere aperta e sincera sui suoi crimini passati e recenti?
Infine, la Chiesa dovrebbe cessare di perseguire la canonizzazione Pio XII. Pio XII fu alla testa di una Chiesa che diffuse un feroce antisemitismo proprio quando gli ebrei venivano sterminati. Che usò i suoi documenti per aiutare il regime nazista a stabilire chi era ebreo in modo da poterlo perseguitare. Che legittimò e partecipò alla deportazione ad Auschwitz degli ebrei slovacchi. E che continuò per più di un decennio dopo l’Olocausto a proclamare ufficialmente che tutti gli ebrei di tutti i tempi saranno sempre colpevoli per la morte di Cristo. Pio XII, ordinando ai suoi subordinati di portar via i bambini ai loro genitori, è divenuto uno dei più grandi rapitori, o presunti rapitori, dei tempi moderni, senza contare che è stato una persona priva di qualsiasi empatia umana nei confronti dei poveri genitori ebrei in cerca dei loro figli, dopo anni di sofferenza.
Il titolo del famoso libro di memorie di Primo Levi, che è anche una riflessione sulla natura umana, è Se questo è un uomo. Come possiamo non chiederci: «Se questo è un santo» e anche che genere di Chiesa è questa?

(Traduzione di Maria Sepa)
* © Daniel Jonah Goldhagen 2005 of Harward University’s Center for European Studies
è l’autore di «Una questione morale. La Chiesa cattolica e l’Olocausto», pubblicato in Italia nel 2003 da Mondadori

Internet e disagio giovanile

Yahoo! Salute lunedì 3 gennaio 2005
Internet e psicopatologia tra gli studenti
Il Pensiero Scientifico Editore


Internet continua ad essere, oltre che uno strumento indispensabile, uno straordinario oggetto di studio per sociologi, psicologi e psichiatri. Una ricerca in corso di pubblicazione su Epidemiologia e psichiatria sociale apporta un ulteriore contributo alla complessa problematica del rapporto tra uso della rete e disagio psicologico, proponendosi d’indagare le caratteristiche e gli effetti dell’uso di Internet in un campione di studenti di scuole superiori.
La ricerca è stata condotta presso due istituti superiori di Conegliano Veneto, raccogliendo informazioni su età, sesso, classe frequentata ed utilizzo di Internet da parte dei genitori, sull’utilizzo oggettivo (da quanti anni e numero di ore giornaliero e settimanale) e sulla percezione soggettiva (ovvero sul vissuto personale della connessione) degli studenti, servendosi anche di un questionario (il General Health Questionnaire nella versione a 28 item di Goldberg, GHQ).
Hanno risposto 1071 studenti su 1671 questionari somministrati e 1062 sono state le risposte ritenute valide. Per quanto riguarda l’utilizzo della rete, la larga maggioranza degli studenti dichiara di navigare meno di 5 ore la settimana, mentre una piccola parte dichiara un utilizzo superiore alle 20 ore settimanali. I settori della rete più frequentati sono risultati i motori di ricerca, la posta elettronica, le chat ed i giochi di ruolo.
Rispetto alla percezione soggettiva di eventuali disagi connessi all’incapacità di gestire il proprio tempo in Internet, è rilevante la percentuale di chi risponde di passare più tempo di quanto dovrebbe in Rete o di avere difficoltà a limitarsi.
In conclusione, la ricerca segnala la presenza di un generico e diffuso disagio psicologico in tutto il campione. Tuttavia, l’analisi delle sofferenze al GHQ correlate al tempo di utilizzo di Internet dimostra che situazioni di significativa sofferenza sono riscontrabili solo in concomitanza con un ricorso abnorme alle rete, superiore alle 25 ore di utilizzo settimanale. Un interesse particolare merita l’analisi dell’effetto dell’età in correlazione con l’utilizzo di chat e i punteggi finali al GSQ: la ricerca di relazioni per persone con difficoltà psichiche sembrerebbe avvenire, secondo questi dati, più che altro “osservando” le relazioni da lontano o assumendo identità fasulle, proteggendosi così dagli aspetti emotivamente più impegnativi dell’incontro con l’altro. In definitiva, la ricerca del gruppo di Treviso conferma alcune affermazioni, già presenti in letteratura, circa l’associazione tra disagio personale e uso problematico di Internet.
Fonte: Favaretto G et al. Internet e psicopatologia: un contributo dall’analisi dell’uso della rete da parte di 1075 studenti delle scuole superiori. Epidemiologia e psichiatria sociale, 13, 4,2004:249-254.

sinistra
Fausto Bertinotti:

Adnkronos
GAD: BERTINOTTI, NON SI PUÒ NEGARE CHE L'ANTIBERLUSCONISMO È IL COLLANTE


Roma, 3 gen. (Adnkronos) - ''L'antiberlusconismo non è solo un sentimento, perché se si fa un'inchiesta nel paese si vede che una parte consistente è contraria alle politiche di questo governo. C'è un'opposizione sociale fortissima e questo elemento non è sradicabile in nome dei dissensi interni all'Alleanza, perché questi ultimi sono fisiologici nel maggioritario''. Così il segretario di Rifondazione, Fausto Bertinotti, intervistato da Radio Radicale risponde ad una domanda sul grado di coesione dell'Alleanza e su quanto in questa coesione abbia peso l'antiberlusconismo.
(Mon/Col/Adnkronos)

Il Foglio 4.1.05

Bertinotti a Rutelli: “Sì al confronto programmatico, ma no allo stravolgimento del welfare e alla riduzione delle tasse che servono a garantire i servizi”. Il leader di Rifondazione comunista è d’accordo a “confrontarsi sul merito”, ma non è convinto, come il leader della Margherita, che la Gad abbia come proprie categorie di riferimento “le forze produttive del paese”.

l'Unità 4.1.05
Rifondazione comunista
Bertinotti, alla vigilia del congresso: «Siamo nella Gad grazie a maggioritario e Berlusconi»


Roma. «Non si può dimenticare che l'opposizione a Berlusconi è parte considerevole di questa costruzione alternativa. Se non ci fosse Berlusconi, probabilmente queste forze dell'Alleanza Democratica non starebbero insieme».. Parola di Fausto Bertinotti, segretario del Prc. Nella Gad «Prc e Margherita sono agli estremi opposti» e l'antiberlusconismo «non è solo un sentimento. Una parte molto consistente del paese è radicalmente avversa alle politiche di questo governo. E questo elemento non è sradicabile in nome del fatto che ci sono dissensi nell'Alleanza». Dissensi che per il segretario di Rifondazione sono «fisiologici» in entrambi gli schieramenti «finché c'è questo sistema maggioritario. Io sono un proporzionalista e spero che vi sia una revisione che dia luogo ad un sistema elettorale come quello tedesco, ma finché c'è, è il maggioritario, bellezza...»
Nel secondo week end di gennaio inizieranno i primi congressi di circolo di Rifondazione comunista, decisivi per definire i rapporti di forza nel partito in vista del congresso che si terrà la prima settimana di marzo a Rimini. Bertinotti punta a una maggioranza autonoma, che gli consenta di fare a meno del rapporto con i leninisti dell'area di Ernesto e i trotzkisti di Area Erre, in maggioranza all'ultimo congresso del 2002, ma che ora si presentano con mozioni congressuali indipendenti. Su 120 federazioni la mozione Bertinotti «L'alternativa di società» ottiene adesioni per il 56,1% nel gruppo dirigente uscente. La mozione «Essere comunisti» dell'Ernesto è al 26,3%; Ferrando con «Progetto comunista» raccoglie il 7,9%; Area Erre con «Un'altra Rifondazione è possibile» il 7,6% e «Rompere con Prodi» di Falce e martello il 2,1%. Bertinotti fa l'en plein in realtà come Napoli, Perugia, Bari e Palermo e conquista maggioranze più o meno brillanti a Roma, Milano e Genova. L'Ernesto ha partita vinta in tre regioni (Sardegna, Valle d'Aosta, e Molise); conquista la maggioranza a Bologna, Ancona, Cosenza e Cagliari, la maggioranza relativa a Torino (dove Bertinotti è in difficoltà, anche per il positivo andamento di Area Erre) e il 36% a Milano. Ferrando si conferma forte in Liguria, specie a Savona e Genova, mentre Area Erre ha le sue punte a Torino e Roma mentre Falce e martello ottiene un lusinghiero 7,8% a Milano.

storia
un articolo di Eric Hobsbawm

Le Monde diplomatique, dicembre 2004
La scommessa della ragione
Manifesto per la storia
di Eric Hobsbawm


Dal preteso «scontro di civiltà» alla concretissima crisi sociale, dalle angosce esistenziali alle chiusure identitarie, tutto spinge a rilanciare il lavoro degli storici per comprendere l'evoluzione degli esseri umani e delle società. Nel corso degli ultimi decenni, il relativismo, in campo storico, ha marciato spesso al ritmo del consenso politico. Al contrario, è tempo di «ricostruire un fronte della ragione» per promuovere una nuova concezione della storia. È l'invito di Eric Hobsbawm, uno dei più grandi storici contemporanei, di cui pubblichiamo il discorso pronunciato il 13 novembre 2004 a conclusione del seminario sulla storiografia marxista, tenutosi all'Accademia britannica.

Eric Hobsbawm
«I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo». (1) Le due parti della celebre «tesi su Feuerbach» di Marx, riferite al filosofo tedesco, hanno ispirato due linee di sviluppo parallele della storiografia marxista. La maggior parte degli intellettuali che abbracciarono il marxismo a partire dagli anni 1880 (inclusi gli storici marxisti), volevano trasformare il mondo, in collaborazione con i movimenti operai e socialisti; movimenti che stavano diventando, grazie all'influenza del marxismo, forze politiche di massa. La cooperazione fra intellettuali e masse orientò gli storici che intendevano cambiare il mondo, verso determinati campi di studio, in particolare la storia del popolo o della popolazione operaia che, se attiravano naturalmente le persone di sinistra, non possedevano all'origine alcun rapporto particolare con una visione marxista. All'opposto, quando a partire dagli anni 1890 molti intellettuali smisero di essere dei rivoluzionari sociali, spesso cessarono anche di professarsi marxisti.
La rivoluzione sovietica dell'ottobre 1917 rinfocolò tale impegno.
Ricordiamoci, infatti, che il marxismo fu abbandonato formalmente dai principali partiti socialdemocratici dell'Europa continentale, solo negli anni '50, se non più tardi. La rivoluzione d'ottobre determinerà inoltre una storiografia marxista per così dire obbligatoria in Urss e negli stati posti in seguito sotto l'influenza del regime comunista.
La motivazione militante venne ulteriormente rafforzata durante il periodo dell'antifascismo. A partire dagli anni '50, tale tendenza si affievolì nei paesi sviluppati - ma non nel terzo mondo - sebbene l'evoluzione considerevole dell'insegnamento universitario e l'agitazione studentesca, daranno vita, durante gli anni '60, in seno all'Università, a un nuovo e importante contingente di persone decise a cambiare il mondo. Tuttavia, pur essendo radicali, molti dei contestatari non erano propriamente marxisti, alcuni - anzi - non lo erano affatto.
Questa risorgenza ideologica raggiunse l'acme negli anni '70, un po' prima che iniziasse - ancora una volta per ragioni essenzialmente politiche - una reazione di massa contro il marxismo. L'effetto principale di tale reazione fu di eliminare - tranne fra i neoliberali che vi aderiscono ancora - l'idea che si possa predire, con il sostegno dell'analisi storica, il successo di una particolare organizzazione della società umana. La storia è stata disgiunta dalla teleologia.
(2).
Considerate le incerte prospettive che si offrono ai movimenti socialdemocratici e social-rivoluzionari, risulta improbabile che si possa assistere a una nuova corsa verso il marxismo politicamente motivato. Ma facciamo attenzione a non cadere in una visione eccessivamente occidentalocentrica.
A giudicare dalla richiesta di cui sono oggetto le mie opere storiche, constato che la domanda si è sviluppata dopo gli anni 1980 in Corea del Sud e Taiwan, dopo gli anni 1990 in Turchia e che - secondo alcuni segnali - adesso aumenta nei paesi di lingua araba.
Ma che ne è stato del filone inerente alla «capacità di interpretare il mondo» del marxismo? La storia è un po' diversa, ma viaggia anche in parallelo all'altra dimensione. Riguarda la crescita di quella che si può definire la reazione anti-Ranke (3), di cui il marxismo ha rappresentato un elemento importante, anche se ciò non gli è stato sempre riconosciuto integralmente. S'è trattato, essenzialmente, di un doppio movimento.
Da una parte questa tendenza contestava l'idea positivista, secondo cui la struttura oggettiva della realtà era per così dire evidente: bastava applicare la metodologia scientifica, spiegare perché i fatti erano accaduti e come, per scoprire «wie es eigentlich gewesen» (come era andata realmente)... Per tutti gli storici, la storiografia è stata e rimane ancorata a una realtà oggettiva, ovvero la realtà di ciò che è accaduto nel passato. Tuttavia essa non parte dai fatti, ma dai problemi ed esige che si indaghi per comprendere perché e come questi problemi - paradigmi e concetti - siano stati formulati così all'interno di tradizioni storiche e ambienti socio-culturali differenti.
D'altra parte, questo movimento tentava di avvicinare le scienze sociali alla storia e di inglobarle, di conseguenza, in una disciplina generale in grado di spiegare le trasformazioni della società umana.
Per usare la formula di Lawrence Stone (4), l'oggetto della storia doveva consistere nel «porre le grandi questioni del"perché"». Questo «tornante sociale» non è derivato dalla storiografia ma dalle scienze sociali, alcune germinanti in quanto tali, che si affermavano all'epoca come discipline evoluzioniste, ovvero storiche.
Se Marx si può considerare il padre della sociologia della conoscenza, il marxismo - benché sia stato accusato, a torto, di un presunto oggettivismo cieco - ha contribuito, senza dubbio, al primo aspetto di questo movimento. Inoltre, l'impatto più noto delle idee marxiste - l'importanza attribuita ai fattori economici e sociali - non era specificamente marxista, benché l'analisi marxista abbia avuto un peso considerevolmente in questo orientamento. Tale impostazione si inscriveva in un movimento storiografico generale, evidente dagli anni 1890 e al culmine tra il 1950 e il 1960, a tutto vantaggio della mia generazione di storici, che ha avuto la fortuna di trasformare questa disciplina.
La suddetta corrente socio-economica travalicava il marxismo. La creazione di riviste e di istituzioni della storia economico-sociale è stata a volte, come in Germania, opera di socialdemocratici marxisti, come nel caso della rivista Vierteljahrschrift, nel 1893. Casi analoghi non si verificarono però in Gran Bretagna, in Francia o negli Stati uniti. Persino in Germania, la scuola di economia d'impronta fortemente storica, non aveva niente di marxista. Soltanto nel terzo mondo del XIX secolo (Russia e Balcani) e in quello del XX secolo, la storia economica ha assunto un orientamento prima di tutto socialrivoluzionario, al pari di ogni «scienza sociale».
Di conseguenza, tale disciplina è stata attratta fortemente da Marx.
In ogni caso l'interesse storico degli storici marxisti non è tanto rivolto alla «base» (l'infrastruttura economica), quanto al rapporto fra base e sovrastruttura. Gli storici dichiaratamente marxisti sono sempre stati relativamente poco numerosi. Marx ha influenzato principalmente la storia, mediante lo stratagemma degli storici e dei ricercatori in scienza sociale, che hanno ripreso le questioni che egli aveva posto - indipendentemente dal fatto che abbiano apportato loro altre risposte o meno. Da parte sua la storiografia marxista è notevolmente progredita, rispetto a ciò che era all'epoca di Kautsky e Georgy Plekanov (5), grazie al fertile innesto di altre discipline (in particolare l'antropologia sociale), e al contributo scientifico di pensatori influenzati da Marx, come Max Weber, che sono giunti a completarne il pensiero (6).
La svolta sociale Se qui sottolineo il carattere generale di questa corrente storiografica non è certo per minimizzare le divergenze latenti o dichiarate all'interno delle sue componenti. I modernizzatori della storia si sono posti le stesse domande e hanno voluto impegnarsi nelle stesse battaglie intellettuali: sia che traessero ispirazione dalla geografia umana, o dalla sociologia di Durkheim (7), o dalla statistica - utilizzate, in Francia, vuoi dagli Annali, vuoi da Labrousse - , sia che facessero riferimento alla sociologia weberiana, alla «Historische Sozialwissenschaft» della Germania federale, oppure al marxismo degli storici del Partito comunista, vettori della modernizzazione storica in Gran Bretagna o, quanto meno, fondatori della sua principale rivista. Gli uni e gli altri si considerano alleati contro il conservatorismo in campo storico, anche quando le loro posizioni politiche e ideologiche sono state antagoniste come nel caso di Michel Postan (8) e dei suoi allievi marxisti britannici. Tale coalizione progressista trovò la sua espressione esemplare nella rivista Past and Present, fondata nel 1952, che divenne riferimento autorevole nel mondo degli storici. La rivista ebbe successo perché i giovani marxisti che la fondarono rifiutarono deliberatamente l'esclusività ideologica, e così i giovani modernizzatori, provenienti da altri orizzonti ideologici, furono pronti a raggiungerli, consapevoli che le differenze ideologiche e politiche non avrebbero rappresentato un ostacolo alla reciproca collaborazione. Il fronte del progresso avanzò in modo spettacolare fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 1970, in quello che Lawrence Stone definisce «un vasto insieme di sconvolgimenti nella natura del discorso storico». Il processo continuò fino alla crisi del 1985, che vide il passaggio dagli studi quantitativi agli studi qualitativi: dalla macro alla microstoria, dalle analisi strutturali ai racconti; dal sociale alle tematiche culturali...
Da allora, la coalizione modernizzatrice è sulla difensiva, persino nelle sue componenti non marxiste come la storia economica e sociale.
Negli anni '70, la corrente dominante in campo storico aveva subito un tale mutamento - per l'influenza, in particolare, delle «grandi questioni» poste alla maniera di Marx - , che io scrissi: «È spesso impossibile dire se un'opera è stata scritta da un marxista o da un non-marxista, a meno che l'autore non dichiari la sua posizione ideologica... Attendo con impazienza il giorno in cui più nessuno domanderà se gli autori sono o non sono marxisti!» Ma, come al contempo evidenziavo, eravamo lontani da una tale utopia. Da allora, l'esigenza di sottolineare l'apporto concreto del marxismo alla storiografia è diventata anzi più forte. Non avveniva così da molto tempo: sia perché la storia ha bisogno di essere difesa dagli attacchi di quanti negano la sua capacità di aiutarci a comprendere il mondo, e poi per via dei nuovi sviluppi scientifici che hanno scompigliato il calendario storiografico. Sul piano metodologico, il fenomeno negativo più rilevante è stato costruire un insieme di barriere tra ciò che è successo - o che accade - , nella storia, e la nostra capacità di osservare questi fatti e comprenderli. Questi blocchi derivano dal rifiuto di ammettere che esista una realtà oggettiva, che essa non è costruita dall'osservatore in rapporto a fini differenti e mutevoli né dovuta alla convinzione che non si possano oltrepassare i limiti del linguaggio, ovvero dei concetti che rappresentano il solo modo con cui possiamo parlare del mondo e del passato.
Una visione simile elimina la domanda se esistano schemi e regolarità nel passato, utili allo storico per formulare proposte significative.
Tuttavia, alcune ragioni meno teoriche spingono comunque a un tale rifiuto: si concluderà così che il corso del passato è troppo contingente, e cioè che le generalizzazioni sono escluse, poiché in pratica potrebbe succedere, o sarebbe potuto accadere, qualsiasi avvenimento. Questi argomenti riguardano implicitamente tutte le scienze.Tralasciamo i tentativi più futili di recuperare vecchie concezioni: attribuire il corso della storia a decisionisti politici o a militari di alto grado, all'onnipotenza delle idee o ai «valori»; oppure ridurre la dottrina storica alla ricerca, importante ma in sé insufficiente, di un'empatia con il passato... Il maggior pericolo politico immediato, che minaccia la storiografia attuale è costituito dall'«anti-universalismo» per cui «la mia verità è valida quanto la tua, quali che siano i fatti». L'anti-universalismo seduce naturalmente la storia dei gruppi identitari, nelle loro differenti forme, per cui oggetto essenziale della storia non è ciò che è accaduto, ma in che cosa ciò che è successo riguarda i membri di un gruppo particolare. In generale, ciò che conta per questo genere di storia, non è la spiegazione razionale, ma «il significato»; non quindi l'avvenimento che si è prodotto, ma il modo in cui i membri di una collettività, che si definisce in contrapposizione alle altre - in termini di religione, etnia, nazione, sesso, modo di vita, o altro - percepiscono quello che è avvenuto...
Il fascino del relativismo fa presa sulla storia dei gruppi identitari.
Per motivi diversi l'invenzione di massa delle controverità storiche e dei miti -che sono altrettante deformazioni dettate dall'emozione - ha conosciuto una vera e propria età dell'oro nel corso degli ultimi trent'anni. Alcuni di questi miti costituiscono un pericolo pubblico.
Si vedano paesi come l'India all'epoca del governo induista (9), gli Stati uniti e l'Italia di Silvio Berlusconi, per non parlare dei nuovi nazionalismi - spinti o meno dall'integralismo religioso.
Darwin e Marx In ogni caso, benché questo fenomeno, nei margini più lontani dalla storia, abbia generato abbagli e stupidaggini in certi gruppi particolari - nazionalisti, femministi, gay, neri ed altri - ha parimenti dato origine a sviluppi storici inediti e molto interessanti nell'ambito degli studi culturali, quali «il boom della memoria negli studi storici contemporanei», come lo definisce Jay Winter (10). La ricerca Les Lieux de mémoire («I luoghi della memoria»), coordinata da Pierre Nora (11) ne è un buon esempio.
Di fronte a simili derive, è tempo di ripristinare l'alleanza tra coloro che vogliono vedere nella storia una modalità razionale di indagine sulle trasformazioni umane: sia per contrastare chi la manipola a fini politici che, più in generale, per opporsi a relativisti e postmodernisti, ciechi a questa possibilità offerta dalla storia.
Fra i sunnominati relativisti, alcuni si considerano di sinistra e altri posmoderni. Sfaldature politiche inattese rischiano dunque di dividere gli storici attuali. L'approccio marxista si rivela perciò un elemento necessario per ricostruire il fronte della ragione, come già lo fu durante gli anni 1950 e 1960. Il contributo marxista risulta, infatti, ancora più pertinente oggi che altre componenti della coalizione di allora hanno abdicato. Fra queste la scuola delle Annales, con Fernand Braudel, e l'«antropologia sociale struttural-funzionale», la cui influenza è stata molto grande fra gli storici. Questa disciplina è stata particolarmente scossa dalla corsa verso la soggettività postmoderna.
Nel frattempo, mentre i postmodernisti negavano la possibilità di una comprensione storica, i progressi ottenuti nell'ambito delle scienze naturali, restituivano a una storia evoluzionista dell'umanità la piena attualità. Senza che gli storici se ne accorgessero veramente.
Ciò è avvenuto in due modi.
In primo luogo, l'analisi del Dna ha stabilito una cronologia più solida e precisa dello sviluppo, dall'apparizione dell'homo sapiens in quanto specie, in particolare per quanto riguarda la cronologia dell'espansione, nel resto del mondo, di questa specie originaria dell'Africa, e degli sviluppi che ne sono seguiti, prima che comparissero fonti scritte. Nello stesso tempo, questa scoperta ha rivelato la stupefacente brevità della storia umana - in base ai criteri geologici e paleontologici - e ha eliminato la soluzione riduzionista della sociobiologia darwiniana (12). Le trasformazioni della vita umana, sia collettiva che individuale, nel corso degli ultimi diecimila anni, e particolarmente nel corso delle ultime dieci generazioni, sono troppo rilevanti per spiegarsi, tramite i geni, secondo un meccanismo integralmente darwiniano. Le trasformazioni registrate corrispondono a un'accelerazione della trasmissione di caratteristiche acquisite, mediante meccanismi non genetici ma culturali. Si potrebbe affermare che si si tratta della rivincita di Lamarck (13) su Darwin, per il tramite della storia humana! Non serve a granché travestire il fenomeno con metafore biologiche, parlando di «memi» (14), piuttosto che di «geni». I patrimoni culturali e biologici non funzionano nello stesso modo.
Per riassumere, la rivoluzione del Dna richiede un metodo particolare, storico, per studiare l'evoluzione della specie umana. E, per inciso, essa fornisce anche un quadro razionale per una storia del mondo.
Una storia che considera il pianeta in tutta la sua complessità, come unità di studi storici, non come un contesto particolare o una regione circoscritta. In altri termini la storia è il proseguimento dell'evoluzione biologica dell'homo sapiens con altri mezzi...
In secondo luogo, la nuova biologia evoluzionista elimina la distinzione rigorosa fra storia e scienze naturali, già in gran parte cancellata dalla «storicizzazione « sistematica di queste scienze, negli ultimi decenni. Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei pionieri multidisciplinari della rivoluzione del Dna, parla del «piacere intellettuale che si prova nel trovare tante analogie fra ambiti di studio disparati, alcuni dei quali appartengono tradizionalmente ai due poli opposti della cultura: la scienza e l'umanistica». In breve: la nuova biologia ci libera dal falso dibattito circa la questione della storia in quanto scienza o non scienza. In terzo luogo, questa disciplina ci riporta inevitabilmente all'approccio di base della evoluzione umana, adottata da archeologi e studiosi della preistoria, che consiste nello studio delle modalità di interazione (e controllo crescente) fra la nostra specie e l'ambiente. Riecco quindi le questioni poste da Karl Marx. I «modi di produzione» (comunque si vogliano definire), fondati su maggiori innovazioni della tecnologia produttiva, della comunicazione e dell'organizzazione sociale - ma anche sulla potenza militare - sono al centro dell'evoluzione umana.
Tali innovazioni, di cui Marx era consapevole, non sono sopraggiunte e non arriveranno certo da sole. Le forze materiali e culturali, e i rapporti di produzione, non sono scindibili. Rappresentano, infatti, le attività di uomini e donne artefici della propria storia, ma non nel vuoto, non al di fuori della vita materiale né del loro passato storico. Di conseguenza, le nuove prospettive per la storia, devono anche ricondurci a questo obiettivo essenziale - per quanto non sia mai completamente realizzabile - per chi studia il passato: «La storia totale» - non la «storia di tutto» ma la storia intesa come una tela indivisibile, nella quale tutte le attività umane sono interconnesse - è lo scopo della ricerca. I marxisti non sono i soli che hanno puntato a questo obiettivo. Anche Fernand Braudel si è posto questo scopo, ma sono i marxisti che l'hanno perseguito con maggiore tenacia, come ha precisato uno di loro, Pierre Vilar (15).
Fra le questioni importanti sollevate da queste nuove prospettive, quella che ci riconduce all'evoluzione storica dell'uomo è fondamentale.
Si tratta del conflitto che vede da una parte le forze responsabili della trasformazione dell'homo sapiens, a partire dall'umanità del neolitico fino all'umanità dell'epoca nucleare, dall'altra le forze che mantengono immutabili la riproduzione e la stabilità delle collettività umane, o dei contesti sociali, e che nella maggior parte del corso storico le hanno efficacemente neutralizzate. È un problema teorico è centrale. L'equilibrio delle forze pende in modo decisivo verso una direzione determinata.
Lo squilibrio, che forse va al di là dell'umana comprensione, supera certamente la capacità di controllo delle istituzioni sociali e politiche degli esseri umani. Gli storici marxisti, che non avevano compreso le conseguenze involontarie e indesiderabili dei progetti collettivi umani propri del XX secolo, questa volta, forti della loro esperienza pratica, potranno forse aiutarci a comprendere come siamo arrivati a questo punto.


note:

* Storico ingle
se. Autore di Il secolo breve, Rizzoli, 2000.

(1) Marx-Engels, Opere, V vol., Editori Riuniti
(2) Teleologia: dottrina che si fonda sull'idea di finalità.
(3) Reazione contro Leopold von Ranke (1795-1886), considerato il padre della principale scuola di storiografia universitaria, prima del 1914. Autore in particolare dei volumi Storia del popolo romano e germanico dal 1494 al 1535 (1824) e Histoire du monde (Weltgeschichte) (1881-1888- testo incompiuto).
(4) Lawrence Stone (1920-1990) una tra le più eminenti e influenti personalità della storia sociale. Fu autore, segnatamente dei volumi The cause of the English Revolution 1529-1642 (1972) (trad. it. Le cause della rivoluzione inglese, Einaudi, 2001) e The family, Sex and Marriage in England, 1500-1800 (1977).
(5) Furono dirigenti, l'uno della socialdemocrazia tedesca, l'altro della socialdemocrazia russa, all'inizio del XX secolo.
(6) Max Weber (1864-1920), sociologo tedesco.
(7) Dal nome di Emile Durkheim (1858-1917) che ha fondato Le regole del metodo sociologico (1895) Einaudi, 2001 e che è considerato, dunque, uno dei padri della sociologia moderna. Fu autore in particolare del saggio La divisione del lavoro sociale (1893) Einaudi, 1999 e della ricerca: Il suicidio (1897).
(8) Dal 1937 Michael Postan tiene la cattedra di storia economica all'Università di Cambridge. È stato ispiratore, insieme a Fernand Braudel, dell'Associazione internazionale di storia economica.
(9) Il partito Bharatiya Janata (Bjp) ha diretto il governo indiano dal 1999 fino a maggio del 2004.
(10) È professore all'Università di Columbia (New York), considerato uno dei grandi specialisti della storia delle guerre del XX secolo e soprattutto dei «luoghi della memoria».
(11) Cfr: Les Lieux de mémoire, Gallimard, Paris, 3 voll., 1984, 1986, 1993
(12) Dal nome di Charles Darwin (1809-1882), naturalista inglese che ha teorizzato l'evoluzione della specie fondata sulla selezione naturale.
(13) Jean-Baptiste Lamark (1744-1829), naturalista francese che, per primo, ha contestato l'idea della permanenza della specie.
(14) I «memi» secondo Richard Dawkins, uno dei capofila del neo-darwinismo, sono unità di base della memoria, considerati vettori della trasmissione e sopravvivenza culturale, così come i geni sono i vettori della sopravvivenza delle caratteristiche genetiche degli individui.
(15) Si legga, in proposito, Une histoire en construction: approche marxiste et problématique conjoncturelle, Gallimard-Seuil, Paris,1982.
(Traduzione di E.G.)

la timidezza è innata?

Repubblica 4.1.05
Uno studio del San Raffaele di Milano: dietro rossori e isolamento un motivo biologico

Timidi a causa di un gene
Un'alterazione modifica il comportamento dei bambini
di FRANCO VERNICE


MILANO - Vostro figlio arrossisce per un nonnulla e magari si isola davanti ai giochi dei suoi amici? Forse al San Raffaele di Milano hanno scoperto il motivo: un gene nascosto nel Dna. Il «colpevole» è stato battezzato con una sigla: «5-HTTLPR», un gene che, in una sua particolare versione, rende i bambini che lo hanno nascosto nel loro bagaglio genetico più timidi e insicuri dei loro coetanei. La prova, secondo i ricercatori dell'Università vita e salute del San Raffaele di Milano guidati dal professore di psicologia clinica Marco Battaglia, che la timidezza, in certi casi, può avere appunto una finora insospettata causa genetica.
La ricerca è stata effettuata selezionando un gruppo di 300 ragazzini lombardi tra i quali è stato individuato un sottogruppo di 49 bambini di età compresa fra i 7 e i 9 anni. Spiega il professor Battaglia: «La cosa nuova e chiara che è emersa è la relazione fra il gene della timidezza e il comportamento cerebrale, stabilendo un rapporto causale fra quel particolare gene e l'emotività. Per la prima volta si dimostra che alcuni geni comunemente presenti nella popolazione possono influenzare non solo alcuni aspetti del comportamento umano ma anche le modalità attraverso le quali il nostro cervello analizza informazioni importanti nella comunicazione fra le persone, come i segnali non verbali di accettazione o rifiuto».
Gli scienziati milanesi si sono mossi in questo modo: un anno fa hanno studiato le reazioni dei piccoli e il loro grado di timidezza nella vita di tutti giorni. Poi hanno proceduto allo studio del loro Dna con un semplice prelievo di saliva. Quindi, hanno fatto scorrere su un monitor immagini di altri ragazzini dalle diverse espressioni: allegre, rabbiose e neutre. «Di fronte alle manifestazioni di gioia la reazione era uguale per tutti, mentre di fronte ad atteggiamenti di aggressività ci siamo accorti che il cervello di alcuni bambini reagiva in maniera differente, con maggior coinvolgimento emozionale. Un aiuto particolare ci è arrivato dalla possibilità di studiare alcune coppie di gemelli, una risorsa straordinaria per poter distinguere fra origine genetica e condizioni ambientali», racconta ancora Marco Battaglia. Risultato: l'indizio chiaro, in pratica, di un'inferiore difesa davanti a situazioni sgradevoli. «E in questi casi la predisposizione all'ansia risulta superiore», sottolinea ancora Battaglia
Si calcola che l'8-10 per cento dei nostri figli siano timidi: «Metà di loro, crescendo impareranno a gestirsi da soli. L'altra metà correrà invece maggiori rischi di restare vittima dell'ansia, dell'ipertensione e, con gli anni, a essere più inclini, per esempio, all'alcolismo come forma di automedicamento», avverte lo psicologo del San Raffaele.
Da qui l'importanza di una diagnosi precoce della timidezza e la conseguente possibilità di un intervento ancora in età infantile. Il risultato del lavoro dei ricercatori comparirà sul numero in uscita di Archives of general psichiatry.

ricorrenze
3 gennaio 1925: il discorso di Mussolini in Parlamento

Repubblica 4.1.05
Ottant'anni fa l'Italia perdeva la libertà
Il 3 gennaio 1925 il Duce tenne il discorso con cui liquidò lo Stato liberale
MASSIMO L. SALVADORI


La storia dell'Italia unita è stata segnata in maniera ricorrente da alcuni decisivi momenti di contrasto frontale tra gli schieramenti politici e sociali, in cui si pose all'ordine del giorno la questione di quale dovesse prevalere, concludendo una fase di crisi profonda o di equilibri fattisi troppo incerti e aprendo la strada ad un nuovo corso caratterizzato da una ristrutturazione del potere intorno ai vincitori. I maggiori e più significativi di questi momenti sono stati la svolta liberale che nel 1901, sconfitta la linea reazionaria, inaugurò l'età giolittiana; il 3 gennaio 1925, che mise fine al periodo di trapasso apertosi nel 1922 con l'ascesa al potere di un fascismo ancora relativamente debole e instabile e diede inizio alla sua trasformazione in una dittatura organica; l'aprile 1948, quando De Gasperi, che già nel maggio 1947 aveva escluso le sinistre dal governo, creò le basi della lunga egemonia democristiana; le elezioni del 2001, che hanno dato al centrodestra capeggiato da Berlusconi una forte maggioranza parlamentare.
Per cogliere in particolare il significato della svolta impressa da Mussolini il 3 gennaio 1925, occorre collocarla nel contesto della marcia compiuta dal fascismo dal 1919 al 1925-26. Questa fu contraddistinta da quattro fasi principali. La prima era stata quella dell'incertezza, della non raggiunta identità, quando il fascismo oscillava tra rivoluzionarismo nazionalistico, imperialismo, antisocialismo e al tempo stesso elementi di riformismo democratico persino radicale. La seconda fase vide il fascismo svilupparsi nel 1920 come guardia pretoriana armata degli agrari e, dopo l'occupazione delle fabbriche, anche degli industriali, contro l'"eversione rossa"; nel 1921 entrare in Parlamento grazie a Giolitti e trasformarsi in partito; nel 1922 darsi un'organizzazione sindacale, scatenare ricorrenti ondate di violenza, ottenere il crescente consenso dei conservatori di varia corrente illusoriamente convinti di poter utilizzare il fascismo come proprio strumento subalterno in un periodo di emergenza. La terza fase è da collocarsi tra il 28 ottobre 1922 e la fine del 1924: anni in cui Mussolini capo del governo fece un uso autoritario delle istituzioni liberali con l'appoggio della monarchia e delle forze (militari, magistrati, nazionalisti, liberali di destra, cattolici filo-fascisti, intellettuali come Croce ed Einaudi) che vedevano in lui l'uomo chiamato a restaurare "l´autorità dello Stato". La quarta fase - dal gennaio 1925 al novembre 1926 in un quadro di disfatta trasformatasi via via in rotta delle opposizioni - portò alla fine dello Stato liberale, alla formazione della dittatura e al monopolio politico del Partito fascista. Il discorso di Mussolini tenuto in Parlamento il 3 gennaio 1925 costituì l'inizio di quest'ultima fase.
Quel discorso? in cui Mussolini prese su di sé «la responsabilità politica, morale, storica» dell'assassinio di Matteotti del 10 giugno 1924, affermò retoricamente che «se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere» e, dopo aver ricordato che «quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza», minacciò le opposizioni di far tornare tutto alla sua normalità in 48 ore - si collocò al culmine di un momento di gravissima crisi del fascismo, cui fece seguito un'incontrastata e definitiva vittoria che rivelò il crollo politico di tutte le opposizioni: dai liberali ai comunisti. L'assassinio di Matteotti aveva messo in moto l'intero fronte politico e parlamentare, creando un profondo sommovimento nella società e una crisi di fiducia verso il fascismo in ampi settori della borghesia e dei ceti medi inferiori che lo avevano sostenuto. Ma emerse a quel punto come allo sbandamento del fascismo corrispondesse l'incapacità delle opposizioni di trovare un sia pur minimo comun denominatore politicamente efficace. La protesta morale le univa, ogni proposta di azione le frantumava. Parte dei liberali che avevano seguito Mussolini e democratici come Amendola puntarono su una soluzione costituzionale che inducesse il re a licenziare il governo; i socialisti massimalisti si mostrarono svuotati e incapaci di decisione; Gramsci fece appello ad uno sciopero generale che nessun altro all'infuori dei comunisti voleva e trovava le masse esauste. La scissione parlamentare culminata nell'Aventino, intesa a premere sulla corona, restò senza effetto. Mussolini ottenne la fiducia prima al Senato e poi alla Camera. Intanto i "ras" del fascismo provinciale minacciavano di scatenare la guerra civile su vasta scala nel paese esortando il capo a reagire con la massima decisione. Il 3 gennaio 1925, percepito il fallimento delle opposizioni, forte dell'appoggio della monarchia e del Vaticano, Mussolini tirò le somme. Un ruolo decisivo nel rafforzare l'azione del capo del governo dopo quel discorso ebbero i liberali di destra, le cui ragioni Salandra avrebbe così indicato: «per loro le idealità liberali non erano che una soprascritta; esse andavano posposte alla necessità di serbarsi salda la difesa materiale del fascismo contro la minaccia di una riscossa dei sovversivi».
Si giunse così alla stretta finale, che ebbe come esito, in rapida successione, il varo delle leggi e la creazione degli istituti che nel 1925-26 instaurarono la dittatura, liquidarono lo Stato liberale agonizzante e diedero vita al regime. Gentile redasse il manifesto degli intellettuali fascisti; Croce il contromanifesto degli intellettuali antifascisti. Seguì un'ondata di terrore ad opera delle squadracce. Furono varate le leggi "fascistissime": controllo della polizia su tutte le associazioni; modifica dello Statuto ed esautoramento del Parlamento; rappresentanza sindacale alle organizzazioni di regime; riforma delle amministrazioni locali; scioglimento dei partiti, salvo naturalmente quello fascista; introduzione del confino di polizia; arresto di deputati delle opposizioni; creazione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato e dell'Ovra, la polizia politica che dopo di allora sarebbe stato l'occhio vigile del regime sulla società sottomessa e sulle forze clandestine. Quattro falliti attentati compiuti contro Mussolini fecero da sfondo e giustificazione alla vasta e organica legislazione repressiva, nella cui elaborazione un ruolo primario ebbero Federzoni e Rocco.
Allora il fascismo si propose come il padrone d'Italia e divenne tale.

LUCIANO CANFORA ANALIZZA IL DISCORSO DEL '25 LA RETORICA DI UN DESPOTA
parole Il fulcro della costruzione oratoria va cercato in alcune iperboli e nel gioco del rovesciamento: sembrare vittima e non carnefice
SIMONETTA FIORI


«Un discorso esemplare», lo definisce Luciano Canfora, antichista sensibile al genere oratorio e incline a frequenti incursioni nell'età contemporanea. «Quel 3 gennaio del 1925 Mussolini dà prova di straordinaria abilità nel dosare lusinga e minaccia, ammiccamento e chiamata di correo, ragionamento pacato e aggressione ruvida. La sua retorica fonde due stili differenti: il primo ricavato dall'antica esperienza di tribuno socialista, altalenante tra tonalità energiche e passaggi pensosi; il secondo legittimato dalla condizione del despota, che brandisce il manganello impunemente».
Colpisce, fin dalle prime battute, il suo collocarsi fuori dalle istituzioni. Pronunciato in Parlamento, il discorso si presenta subito come un intervento "non parlamentare".
«Ma non è certo più aggressivo dell'altro storico discorso, il 16 novembre 1922, cui apertamente si richiama ("Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, ma non l'ho fatto almeno per ora"). Anzi: l'intonazione complessiva, seppure ricalcata sugli stessi stilemi, risulta più moderata».
Però minaccia violenze e vessazioni, che poi puntualmente attuerà.
«Non c'è dubbio: è il discorso d'un despota. Ma il fulcro della costruzione oratoria va cercato altrove, precisamente nella celebre iperbole, giocata sul filo del paradosso: "Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione suprema della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un´associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere". Si tratta evidentemente di una provocazione, indirizzata agli ex alleati liberali e popolari, divenuti tiepidi dopo il delitto Matteotti».
Una chiamata di correo?
«Proprio così. Non a caso il discorso s'apre con un atto di suprema sfida, quando Mussolini evoca l'articolo 47 dello Statuto secondo cui "La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del Re" ed aggiunge: "Domando formalmente se qualcuno voglia valersi di quest'articolo...". Poi spiega meglio: "Dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio, è necessaria una sosta per vedere se possiamo proseguire la stessa strada". Più chiaro di così».
A chi si rivolge?
«Mi viene in mente Benedetto Croce, che in Senato il 26 giugno del 1924 - immediatamente dopo il sequestro di Matteotti - aveva rinnovato il proprio appoggio a Mussolini con un voto "prudente e patriottico". Il filosofo motivò: "Il fascismo non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono come ogni animo equo riconosce". Mussolini si rivolge a questo ceto liberale: ma come, vi siete serviti di me per soffocare il sovversivismo rosso e ora fate tante storie per un cadavere».
Però respinge tutti gli addebiti.
«La bugia fa parte dell'oratoria politica universale. La difesa di Mussolini appare magistrale, specie là dove evoca la Ceka russa: le cifre del terrore comunista servono a ricordare agli ex alleati la terribile minaccia da cui egli li ha liberati».
Rende anche omaggio all´avversario.
«Sì, riconosce a Matteotti "una certa crânerie, un certo coraggio", che assomigliavano al suo coraggio e alla sua ostinazione: è un modo gaglioffo di rendere l'onore delle armi, tipico del vincitore che si presenta come eticamente superiore».
Accenna alle proprie virtù militari, in un incalzare quasi romanzesco.
«Direi comico: si presenta come un eroe che ha sgominato insidiose sedizioni e condotto una divisione di fanteria a Corfù. In realtà la sua partecipazione alla Grande Guerra fu piuttosto modesta. Ma questo è un luogo topico della retorica del capo: la reinvenzione del passato».
Con illustri antecedenti.
«Penso al Bellum hispaniense del corpo cesariano: vi si racconta che durante la battaglia di Munda, nel 45 a. C., è Cesare a salvare le sorti del suo esercito prendendo le insegne dalle mani d'un centurione. Da Plutarco in avanti, nella tradizione a base classica, la figura dell'eroe è irrinunciabile. Dobbiamo aspettare Tolstoj per imbatterci nell'antieroe. Mussolini vuol ricalcare un topos che fu di tutti i condottieri, da Napoleone a Garibaldi».
Colpisce, poi, il rovesciamento quasi paradossale della realtà: oggi chi è fascista, dice Mussolini, rischia ancora la vita.
«Tutta la costruzione oratoria di Mussolini è fondata sul rovesciamento: da una parte la violenza rossa, fomentata dall'Aventino anticostituzionale e sedizioso; dall'altra il Duce, soggetto normalizzatore e desideroso di pace. Ma non trascuriamo le velenose allusioni lanciate alla Corona, quando fa cenno alla "triste storia delle questioni morali in Italia": Matteotti, tra l'altro, aveva scoperto uno scandalo che coinvolgeva la famiglia reale, e il duce velatamente ne fa cenno a Vittorio Emanuele. Che è poi la figura occulta che sta dietro questo discorso del 3 gennaio».
Ma il Re non ne era stato informato. Anzi, racconta De Felice, se ne dolse poi non poco.
«Sappiamo però che Mussolini aveva tentato di procurarsi un decreto di scioglimento della Camera in bianco. E da un appunto di Suardo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, apprendiamo che la sera del 2 gennaio il Duce aveva incontrato Vittorio Emanuele. Il quale non firmò il decreto il bianco, ma lasciò intendere al capo del fascismo che, dopo il processo per l'uccisione di Matteotti, gli avrebbe permesso di sciogliere anticipatamente la Camera».
Non era quel che voleva Mussolini.
«Era però abbastanza per aggredire la Camera e mettere il Re davanti al fatto compiuto. Usando tutta la vasta tastiera di cui può essere capace un tribuno divenuto despota: violenza e seduzione, ricatto e ammiccamento. Una prova bel calibrata di retorica autoritaria».

CARL SCHMITT
Se la costituzione di uno Stato è democratica, può essere definita come dittatura ogni sospensione eccezionale dei princìpi democratici, ogni esercizio del potere statuale che prescinda dal consenso della maggioranza dei cittadini. Se questo esercizio democratico del potere assurge a ideale politico valido in generale, è dittatura allora ogni Stato che non rispetti tali princìpi democratici. Se poi viene assunto come norma il principio liberale dei diritti inalienabili dell'uomo e della libertà, rientrerà nella categoria di "dittatura" qualsiasi violazione di tali diritti, fosse pure con il consenso della maggioranza. In tale senso dittatura può significare una eccezione rispetto a princìpi democratici o liberali, non necessariamente rispetto ad entrambi. Viene perciò chiamato dittatura lo stato d'assedio perché comporta la sospensione di prescrizioni positive della costituzione; se ci poniamo in un'ottica rivoluzionaria, il termine dittatura può essere applicato allordine esistente nel suo complesso, operando così una trasposizione del concetto dal terreno del diritto pubblico a quello politico.

Dopo il delitto Matteotti la sinistra diede per imminente la fine di Mussolini
COSÌ L'ANTIFASCISMO SOTTOVALUTÒ IL PERICOLO
EMILIO GENTILE


Potrebbe accadere di leggere, fra le rievocazioni del discorso che Mussolini tenne alla Camera il 3 gennaio 1925, che la costruzione del regime totalitario non fu la conseguenza di un proposito di trasformazione dello Stato, messo in atto dal partito fascista fin dalla "marcia su Roma", ma fu il prodotto di circostanze ed eventi in gran parte indipendenti dalle intenzioni originarie del fascismo e del suo duce.
Una simile tesi non sarebbe nuova. Circa venti anni fa, l'organo del Movimento sociale italiano scriveva: «Alla dittatura il fascismo pervenne per forza di cose, più che per vocazione». Una tesi analoga, ma diversamente motivata, era stata già proposta nel 1935 da Palmiro Togliatti nelle Lezioni sul fascismo. Anche storici autorevoli sostengono che il partito fascista, quando conquistò il potere, non aveva un progetto di Stato fascista, e che la svolta del 3 gennaio fu un'operazione compiuta da Mussolini per sbaragliare l'opposizione antifascista e per imbrigliare i fascisti intransigenti: il risultato sarebbe stato una dittatura personale, fondata sul compromesso fra il duce e le istituzioni tradizionali. Insomma, secondo questi storici, non vi sarebbe alcuna necessaria connessione, storica e politica, fra il 28 ottobre 1922 e il 3 gennaio 1925.
Questi giudizi sono storicamente molto discutibili. Essi ripetono, sul piano storiografico, un errore di sottovalutazione del fascismo, già commesso dagli antifascisti dopo la "marcia su Roma", quando la maggior parte di loro riteneva che il fascismo al potere sarebbe durato poco, perché era un movimento politico senza idee e senza autonomia. L'errore peggiorò dopo il delitto Matteotti, quando molti antifascisti diedero per imminente la morte politica di Mussolini e del fascismo. «Il fascismo si esaurisce e muore? esso è sorretto ancora dalle forze fiancheggiatrici, ma è sorretto così come la corda sostiene l´impiccato», disse Antonio Gramsci nell'agosto 1924. Negli stessi giorni Gaetano Salvemini scriveva: «Per fortuna siamo alla fine di questa disgustosa tragedia brigantesca e carnevalesca. La bestia è ferita a morte: Matteotti gli diede il primo colpo nella politica interna? Se non a novembre, a marzo sarà chiuso questo periodo vergognoso». Due settimane prima del 3 gennaio, Anna Kuliscioff sosteneva che «molti fatti nuovi confermano la putrefazione del cadavere e quindi la sua completa dissoluzione».
Il "cadavere", invece, era vivo e aggressivo, tanto che procedette energicamente alla demolizione del regime liberale, innalzando, nello stesso tempo, i muri maestri dello Stato nuovo fascista, con la definitiva soppressione di qualsiasi opposizione, come Mussolini stesso aveva annunciato alla vigilia della "marcia su Roma", quando era stato esplicito sulla differenza fra lo Stato liberale e il futuro Stato fascista: «Qui è la stoltezza dello Stato liberale: che dà la libertà a tutti, anche a coloro che se ne servono per abbatterlo. Noi non daremo questa libertà? Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani "indifferenti", che rimarranno nelle loro case ad attendere; i "simpatizzanti", che potranno circolare; e finalmente gli italiani "nemici", e questi non circoleranno».
È plausibile sostenere che la "marcia su Roma" non conduceva inevitabilmente alla nascita del regime totalitario. Tuttavia, da un punto di vista storico, appare più convincente, perché più corrispondente alla realtà, l´interpretazione di quei pochi antifascisti i quali, molto prima del 3 gennaio, compresero che l´avvento del fascismo al potere era inevitabilmente incompatibile con la sopravvivenza dello Stato liberale. Qualche antifascista seppe intuire, ancor prima della "marcia su Roma", quale sarebbe stato il tipo di regime che il partito fascista avrebbe realizzato se fosse giunto al potere. «Il fascismo - aveva scritto La Stampa il 18 luglio 1922 - è un movimento che tende con tutti i mezzi a impadronirsi dello Stato e di tutta la vita nazionale per stabilire la sua dittatura assoluta ed unica». Tuttavia, furono pochi gli antifascisti che, riflettendo sulle idee e sulle azioni del duce e dei fascisti dopo la conquista del potere, condivisero questa interpretazione. Il fascismo, scriveva Luigi Salvatorelli. nell'aprile 1923, mira ad attuare la «sua totale dittatura di partito - si vuole la dittatura di partito e il partito unico, cioè la soppressione dei partiti, cioè la fine della vita politica, come la si concepisce in Europa da 100 anni a questa parte». Va ricordato che i termini "totalitario" e "totalitarismo" furono coniati dagli antifascisti prima del 3 gennaio, proprio per definire la congenita vocazione dittatoriale del partito fascista. «Sistema totalitario» definì Giovanni Amendola, nel maggio 1923, i metodi fascisti «del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa». Il 2 gennaio 1925 il sostantivo "totalitarismo" fu usato da Lelio Basso per descrivere i caratteri del nuovo Stato fascista, che il "partito milizia" stava costruendo fin dal suo avvento al potere.
La matrice del regime fascista non fu solo l'ambizione personale di Mussolini ma la cultura antidemocratica, la mentalità squadrista, l'organizzazione militaristica, la vocazione dittatoriale, che furono i caratteri originari e originali del fascismo come "partito milizia". «Il Partito armato, conduce al Regime totalitario», affermò Mussolini due anni dopo il discorso del 3 gennaio. Almeno questa volta, il duce aveva senz'altro ragione.

COME DISTINGUERE LE VARIE FORME DI TOTALITARISMO
Dittatura: che fine fanno il consenso e la legittimità
A differenza della tirannia antica, il fascismo non preparava un ritorno alla normalità
PAOLO VIOLA


La dittatura elimina o ridicolizza le elezioni. I ludi cartacei, dicevano i fascisti. Ma soprattutto cancella i controlli incrociati e i riconoscimenti reciproci che caratterizzano i sistemi politici moderni e danno voce ed equilibrio alle istanze plurali della società. La dittatura sospende dunque, ma in realtà durevolmente sopprime, quello che all'inglese chiamiamo il governo della legge, o alla tedesca lo stato di diritto. Non è tanto che non voglia verificare il consenso, anzi lo costruisce e lo corteggia, ma con altri sistemi rispetto alle elezioni: le adunate oceaniche, la comunicazione di massa; non con regole che istituiscono e legittimano poteri pluralistici.
Tanto amano il consenso, che le dittature nascono di solito vincendo le elezioni; e il fascismo non fa eccezione. Le ripudiano poi perché da subito proclamano che quel consenso non è costituzionalmente rilevante, e che sono legittimate dalla "salute pubblica", come diceva la rivoluzione francese o più chiaramente Robespierre dalla «più inesorabile delle leggi, la necessità». Le dittature si presentano a loro modo come democratiche: non legali, ma istituite dalla parte e in nome del popolo. Tiranniche perché usurpano la sovranità, dispotiche perché non ammettono ostacoli né limiti, totalitarie perché trasformano ciascuno in un ingranaggio di una macchina.
Il fascismo è stato insieme figlio dell'antiparlamentarismo conservatore, secondo il quale i sistemi rappresentativi selezionano i peggiori e favoriscono la corruzione; e della volontà di riportare l'ordine e imporre la concordia nazionale ad un paese devastato dalla guerra e lacerato dalla lotta di classe. Spazzava via la politica corrotta, si legittimava con la necessità, si sostituiva ad ogni altra sovranità, non riconosceva regole né freni e costruiva un sistema politico forte che si sarebbe presto autodefinito "regime".
A differenza della dittatura antica o garibaldina, il fascismo non preparava un ritorno alla normalità. Contrariamente alla rivoluzione francese, o ancora alla "dittatura del proletariato", non prefigurava l'avvento di una società migliore senza più oppressione o conflitti. Infatti non aveva una concezione ottimista, ma pessimista. Non dava luogo a qualcosa di meglio: era lui il meglio, rispetto ad una società egoista e smidollata. Non rispondeva a un temporaneo stato di necessità, ma fin dall'inizio si proclamò durevole: una risposta stabile alla necessità di governare un popolo di cui Mussolini aveva un'opinione bassissima, bisognoso di una lunga rieducazione. Voleva essere il sistema forte, necessario a dare agli italiani quel posto nel mondo che la gloria degli antichi aveva conquistato ma poi era stato irrimediabilmente perso. Non ci riuscì, e per questo gli venne meno la legittimazione che aveva proclamato.

micromega è una rivista di sinistra?
filosofia della negazione: ci serve ben altro..!

Repubblica 4.1.05
L'unità tra psiche e corpo ovvero l'uomo è ciò che mangia un'anticipazione da "micromega"

Dal pensiero di Aristotele Pitagora ed Epicuro a Feuerbach, Nietzsche ed Hegel
Come i filosofi si sono accostati alla tavola e al suo rapporto con l'essenza umana
In Hegel il processo della fame è alquanto complesso e diviso per fasi diverse
Epicuro teorizzava che solo i piaceri necessari possono e debbono essere soddisfatti
Pitagora con le sue proibizioni alimentari voleva sintonizzarsi con il "divino"
MASSIMO DONÀ

Nel 1850 uno dei più irrequieti allievi del grande Hegel recensiva assai favorevolmente uno scritto di Moleshott sull'alimentazione, interpretata come ciò che avrebbe reso possibile il costituirsi e perfezionarsi della cultura umana. In base a tale prospettiva sembrava che il progresso di ogni popolo dipendesse in primis da un imprescindibile miglioramento dell'alimentazione.
Significativo è in questo senso anche il titolo di un interessante scritto del filosofo in questione: Il mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia (1862). Secondo il quale si trattava appunto di rinvenire e sperimentare l'unità inscindibile fra psiche e corpo.
Infatti, era proprio per pensare meglio che sembrava necessario migliorare l'umana alimentazione.
Il filosofo in questione mal sopportava la pretesa ultimatività del sistema hegeliano, e soprattutto riteneva quanto mai necessario sottoporre a dura critica ogni forma di illusione religiosa.
Un vero e proprio capovolgimento della prospettiva idealistica fu insomma quello cui venne data vita da parte di Ludwig Feuerbach (è di lui che stiamo parlando!) - il quale, nato nel 1804 a Landshut, in Baviera, avrebbe poi studiato teologia a Heidelberg. Anche se, sotto la decisa influenza dell'hegelismo, avrebbe ben presto abbandonato la teologia per la filosofia.
Abbiamo voluto riferirci subito a Feuerbach per introdurre un tema quanto mai spinoso e delicato: quello dei rapporti tra cibo e filosofia. Con chi, altrimenti, avremmo potuto iniziare? Con chi, se non con colui il quale ebbe il coraggio di affermare che l´uomo non è pensiero, linguaggio, coscienza, anima, o qualche altra determinazione metafisica. bensì, innanzitutto e soprattutto, ciò che ingerisce, magari mosso da un istinto animale come quello della fame?
Beh, la posta in gioco non è da poco; è evidente. Si tratta infatti di tornare a fare i conti con l'antichissima questione dell'essenza dell'uomo. Una questione molto controversa, cui sono state date risposte di volta in volta molto diverse tra loro - ma mai così radicali, e soprattutto così «spiazzanti». Certo, perché a mangiare non è solo l'uomo. Anzi. tutti gli esseri animati mangiano. Tutti gli animali, sicuramente - anche certe piante tropicali «mangiano», in qualche modo.
L'affermazione di Feuerbach, dunque, sembra implicare la volontà di caratterizzare la natura umana non per distinzione (non, cioè, distinguendola da quella degli altri animali), ma per identificazione (riconducendola a ciò che vi sarebbe di comune tra l'uomo e gli animali).
Ma è davvero così?
Davvero l'uomo mangia come qualsiasi altro animale?
Certo, Aristotele definiva l'essere umano «animale dotato di logos».
Ma non va neppure dimenticato che, a definirsi animale, è, in Aristotele, un uomo che è tale solo «nel» e «per» il logos da cui è originariamente costituito. D'altronde, è proprio «nel» e «dal» logos che viene riconosciuta la sua originaria animalità. La duplicità costituente la natura umana non si dà cioè come semplice risultato di un'addizione. Mai l'animalità è nell'uomo realmente separabile dalla sua co-originaria logicità. (...)
Il fatto è che quello del cibarsi è sempre e comunque un atto «logico». Anzi, si costituisce come un vero e proprio concetto. Come negarlo? Ossia, un concetto che, solo in quanto esprimente la vita di un vivente privo di logos, può alludere ad un atto in sé ripetitivo, sempre uguale a sé, e privo di caratterizzazioni distinguenti - se non altro all'interno di una medesima specie animale.
Là dove, nell'essere umano, invece, il medesimo atto mancherebbe in toto di tale prevedibile monotonia. E dunque esprimerebbe già in se stesso quella logicità che siamo soliti vedere giustapposta o comunque astrattamente distinta da esso. (...)
Perciò il mangiare è nell'uomo tutt'altro che una funzione puramente animale. Anche il mangiare, nell'uomo, è elemento logico e distinguente. Perciò in Cina non si mangia come in Inghilterra, e neppure in Messico ci si sfama come in Romania. Perciò gli uomini «si distinguono» anche per il modo in cui mangiano. Perciò l'uomo può essere sempre anche «in ciò che mangia». O meglio, può essere definito nella propria essenza specifica come il sempre diversamente mangiante.
Come quel mangiante che, nell'atto del cibarsi, non si ripete affatto.
Perciò l'uomo può distinguersi come mangiante, e, nel mangiare, può distinguersi anche rispetto agli altri esseri viventi.
Perciò, rilevare che, al contrario dei pitagorici - che non mangiavano carne - Nietzsche amava alquanto la trippa e i salami piemontesi (da lui assaporati durante la nota permanenza a Torino), significa non solo offrire qualche curiosa notizia sui gusti culinari dei filosofi, ma, assai più radicalmente, determinare una caratteristica peculiare di quelle determinate esistenze.
Se proibiva di mangiare il gallo bianco, animale sacro per la cadenza perfettamente sincronizzata del proprio canto, e quindi i pesci, allo stesso modo il grande matematico Pitagora proibiva di danneggiare qualsivoglia animale nella misura in cui quest'ultimo non avesse arrecato danno all'uomo. Ed è evidente: tale divieto corrispondeva, più che ad un costume puramente naturale, ad una generale volontà di sintonizzarsi con un «divino» vissuto come permeante di sé l'intero universo. Lo racconta molto bene Giamblico: all'ora di pranzo i pitagorici consumavano in prevalenza pane, miele o miele misto a cera; mentre a cena focaccia, pane, vino, companatico, verdura cotta e cruda. Talvolta poteva esservi della carne - sempre, però, di un animale che fosse lecito sacrificare. Pesce, invece, mai.
Il misuratissimo Leibniz, poi, tentava di non eccedere mai né nel cibarsi né nel bere; proprio come Campanella, il quale invitava sì alla temperanza nel mangiare e nel bere, ma sempre anche nelle altre attitudini etico-morali. Comunque, per il filosofo-teologo calabrese si trattava di tener bene a mente che cibo e bevande vanno concepite innanzitutto come «medicine». Da cui l'idea di un cibarsi inteso come un vero e proprio modo per curarsi.
Ma, già al tempo della scuola pitagorica, molti sarebbero stati i filosofi capaci di proiettare sul cibo e sulla sua assunzione un vero e proprio orizzonte di «senso»; rinviante a un modo d'essere mai scollegabile o astrattamente distinguibile dalla pura meccanica dell'apparato fisiologico. E in numero forse non minore sarebbero stati poi quelli capaci di individuare nel cibo una vera e propria fonte di piena felicità. Paragonabile a quella già riservata a Zeus.
Epicuro - tanto per fare un nome - avrebbe sicuramente fatto carte false pur di poter corrispondere al grido della carne, ossia al monito di una carne risolutamente urlante. Ma, se per un verso, sempre ai suoi occhi, la carne grida, è anche vero che solo i piaceri necessari possono e debbono essere soddisfatti. Insomma, l'epicureismo non è mai stato un semplice fautore dei piaceri smodati; tanto meno di quelli connessi al cibo e al vino assunti in quantità particolarmente esagerate. In tale prospettiva, il cibo e la sua assunzione alludevano a qualcosa che, solo ad un certo punto e per una fase ben delimitata dell'esistenza, avrebbe potuto aver a che fare con la mera sussistenza fisica (da cui la considerazione di tutto il resto come «mero supplemento»). Piaceri necessari erano infatti tutti quelli originariamente corrispondenti alla verità del «piacere». Perciò, la necessità atta a legittimare un determinato piacere è in Epicuro perfetta espressione di una sostanziale idea dell´esistenza. In base alla quale, ad esempio, solo quelli connessi alla mera sussistenza possono dirsi piaceri «naturali» - e per ciò stesso mai superflui o in qualche modo astrattamente voluttuari.
D'altro canto, anche per un filosofo come Spinoza il desiderio smodato di buona carne e di buon vino sarebbe stato da condannare non in quanto tale, ma solo perché animato da astratte e dunque incontrollabili passioni. E dunque non «regolato» da una misura originariamente logica. Buono e conveniente era per lui, infatti, sempre e innanzitutto il semplice conformarsi alla potenza di un´azione regolatrice e mediatrice che mai il puro appetito avrebbe potuto consentire o in qualche modo rendere possibile.
Ma soprattutto il teorico della dialettica, ossia il grande Hegel, pur lasciandosi non di rado andare a veri e propri resoconti culinari, estranei in quanto tali a qualsivoglia giustificazione filosofico - teoretica (si ricordino a questo proposito le suggestive pagine del suo Diario di viaggio sulle Alpi bernesi), avrebbe rigorosamente evitato di soffermarsi a giudicare le pietanze. Certo, egli annota di aver assaggiato vino italiano, carne d'agnello e di vitello, nonché carne di marmotta; ma anche pane bianco vallese, burro e miele.
Eppure, nessuna considerazione di gusto gli sfugge mai, se non in senso negativo - come accade a proposito della carne di marmotta. Come la natura tutta, insomma, neppure il cibo sembra interessarlo davvero.
E neppure l'atto del mangiare sembra rivestire per lui un qualche significato, se non in relazione alla funzione dal medesimo rivestita nel contesto di una ben più generale architettonica spirituale.
Eppure vi sono pagine straordinarie, dedicate, sempre dal teorico della dialettica, al rapporto originario con il cibo da parte dell'animalità; ci stiamo riferendo alla Enciclopedia delle scienze filosofiche - in cui, quello che potrebbe apparire come puro meccanismo fisiologico, sostanzialmente estrinseco rispetto alla soggettività del vivente, si rivela custode di una complessità concettuale-filosofica assolutamente stupefacente. dal medesimo peraltro sempre e comunque implicata, e valevole appunto quale momento essenziale di un'articolazione universale e originariamente spirituale - dove, lo Spirito è tale, per l'appunto, solo dopo essersi fatto logica, e quindi natura. E quindi anche «animalità» - ossia istinto.
D'altro canto, la fame, per Hegel, è innanzitutto un istinto; un istinto che isola le cose inorganiche e le assimila consumandole.