giovedì 11 settembre 2003

dal domenicale del Sole 24ore del 7.9.03

(ricevuti da Paola D'Ettole)

Verdetto travagliato, sconfitto Bellocchio
Emanuela Martini

Un verdetto dignitoso e difendibile ma non particolarmente brillante e illuminato ha concluso la 60 Mostra del cinema di Venezia.
(...)
Il grande sconfitto, naturalmente, è Marco Bellocchio, che con Buongiorno, notte meritava di vincere e che giustamente si è rifiutato di ritirare un premio per il suo contributo alla sceneggiatura del film. Quasi una presa in giro, per l'autore, ma anche per la selezione italiana che, per la prima volta in molti anni, era complessivamente la migliore della mostra.

Mostra del cinema - Il Leone d'oro al film del russo Andrej Zvjagintsev. Un'edizione all'insegna del rimpianto
Com'è malinconica Venezia
di Emanuela Martini

(...)
Forse è necessario, in questo momento, smettere di "fotografare" e fermarsi a riflettere, a ricordare. A sognare, forse. Il sogno e il fantasma del passato, l'indicibile leggerezza di come eravamo e come saremmo potuti diventare, e di come invece ci siamo impastoiati e intristiti crescendo, avviliti da una Storia che non abbiamo saputo controllare, corrono nei due film più attesi di questa Mostra, The Dreamers di Bernardo Bertolucci (fuori concorso) e Buongiorno, notte di Marco Bellocchio (in concorso), avvinti inestricabilmente da una cultura, una generazione, una ribellione comune, e dalla necessità concomitante di guardarsi indietro. In The Dreamers, il Sessantotto agli albori e, prima, la gioia, la libertà, la scoperta, l'amicizia, il sesso, il cinema, la politica, tutti mescolati, confusi insieme, tasselli interdipendenti di un unico, entusiastico amore, per la vita che veniva avanti e, per una volta, poteva essere inventata diversamente, e che finì in una fiammata, ma, come canta Edith Piaf, Je ne regrette rien, e quel sogno resta incancellabile.
In Buongiorno, notte, il dopo, il Settantotto del sequestro e dell'omicidio Moro, la perdita di contatto con i tasselli della realtà concreta, la rincorsa verso l'autodistruzione, il crollo rovinoso dell'ideologia, la chiusura, la prigione, la sterilità, la parola che raggela il cuore, l'angoscia che monta, la malinconia consapevole di un'occasione, di una vita perduta. Ma anche qui, nell'ultima inquadratura, se ne va libero il sogno di un incantesimo spezzato, di una Storia migliore, di una possibilità, in solitudine, di non tradire se stessi. Entrambi film "privatissimi", più simili di quanto non appaia dallo stile e dall'occasione narrativa, dal calore e dal gelo, The Dreamers e Buongiorno, notte ci raccontano i nostri mondi perduti.
(...)

Rudolf Engler

Repubblica 11.9.03
E´ morto Rudolf Engler editore del grande linguista
LO STUDIOSO CHE SALVÒ I TESTI DI SAUSSURE
di TULLIO DE MAURO

Rudolf Engler, lo studioso svizzero editore dei manoscritti di Ferdinand de Saussure, è morto a Worb, presso Berna, il 5 settembre scorso. Era nato il 25 ottobre 1930 a Teufen (San Gallo). Dopo studi a Berna, Parigi e Firenze, si era specializzato in linguistica e filologia romanza, con importanti lavori sulla grammatica italiana del Rinascimento.
Dalla fine degli anni cinquanta aveva cominciato a collaborare con Robert Godel al recupero delle carte manoscritte di Saussure e dei suoi diretti uditori, un lavoro che aveva poi continuato da solo.
Come si sa, il fondamentale Corso di linguistica generale di Saussure apparve postumo, nel 1916, frutto dell´arrangiamento che i primi editori fecero dei rari appunti di Saussure e dei quaderni di appunti dei suoi allievi. A partire dagli anni cinquanta parecchi studiosi, tra cui Emile Benveniste e, in Italia, Mario Lucidi, avevano avanzato dubbi sull´attendibilità del testo vulgato, diventato intanto bibbia e corano della linguistica e antropologia moderne.
Prima Godel, poi soprattutto Engler si dedicarono a una rivisitazione delle fonti manoscritte del Corso. Al procedere dei lavori emergeva una immagine nuova e diversa di Saussure. Il lavoro certosino di Engler ha portato alla grande edizione del Corso in cui il testo tradizionale è affiancato frase per frase dall´indicazione che permette di vedere se la frase è una interpolazione dei primi editori oppure se ha un riscontro, e quale, nelle fonti manoscritte.
L´edizione di Engler e il lavoro interpretativo suo e di altri, hanno rivelato un Saussure soprattutto attento alla lingua nel suo farsi e disfarsi, alla temporalità e socialità della lingua, all´intreccio dei fatti della lingua e del significato con i fatti della vita biologica e della cultura, del pensiero, delle emozioni.

Theodor Wiesegrund Adorno 1903 - 1969

Il Mattino 11.9.03
ANNIVERSARI/ L’11 settembre 1903 nasceva a Francoforte il grande pensatore tedesco
di Corrado Ocone

Giusto cento anni fa, l’11 settembre 1903, nasceva a Francoforte uno dei pensatori più influenti del secolo scorso: Theodor Wiesegrund Adorno. Fondatore, con Max Horkheimer, del celebre Istituto per le scienze sociali della città sul Meno, in fuga dal nazismo in quanto di origine ebraica, dopo aver riparato negli Stati Uniti, Adorno ritornò in patria subito dopo la guerra e insegnò a Francoforte fino al 1968. Un anno dopo morì in Svizzera. Per ricordare Adorno, abbiamo ascoltato le parole di quattro fra i più noti filosofi italiani e, con il loro aiuto, abbiamo provato a costruire un glossario minimo dei concetti chiave del suo pensiero. I nostri interlocutori sono stati: Roberto Esposito dell’Orientale di Napoli, Sebastiano Maffettone della Luiss di Roma, Giacomo Marramao di Roma III e Gianni Vattimo dell’Università di Torino, europarlamentare.
Aforisma. È la forma in cui è scritta una delle più importanti opere di Adorno, i Minima Moralia (1951). «Ci vuole un gran coraggio a parlare filosoficamente degli aspetti minimi e quotidiani se si è uno che si è formato sulla tradizione solida della filosofia tedesca, su Kant e su Hegel. Adorno l’ha avuto: tanto di cappello!» (Maffettone).
Contestazione. «Quando arrivai a Francoforte, dopo la laurea, Adorno era morto da un anno, ma la sua presenza era viva, ingombrante. C’era un gruppo di adorniani di sinistra che utilizzava le categorie di Adorno per criticare il maestro, che in qualche modo accusava di tradimento: come poteva essere contro il movimento, se proprio le categorie di emancipazione e autoliberazione, da lui elaborate, ne davano un’efficace spiegazione teorica? Oggi, quegli adorniani non la pensano più così e hanno imparato a rivalutare le tesi diffidenti di Adorno sul movimento» (Marramao).
Critica. Adorno elaborò la cosiddetta Teoria critica, ancora oggi uno dei paradigmi filosofici più importanti, a cui si richiamano anche molti filosofi contemporanei, a cominciare da Habermas: «La teoria critica della Scuola di Francoforte nasce con Horkheimer ma si perfeziona con Adorno. E tutto il pensiero di Adorno è una critica della ragione che si è affermata in Occidente. Credo che, approdato dalla Foresta nera in quel di San Diego in California, il pensatore tedesco sia rimasto colpito da una vita completamente altra, in cui la dimensione razionale e quella del divertimento erano nettamente scisse. La razionalità americana imponeva una standardizzazione della vita che il nostro non capiva» (Maffettone).
Dialettica. «Per Adorno è negativa, nel senso che per lui, al contrario di Hegel, la conciliazione tra storia e ragione non potrà mai esserci. C’è sempre, come dire, uno scarto. Là dove non arriva la ragione, può però arrivare l’arte: che, in alcuni momenti, può catturare nel finito l’infinito» (Maffettone).
Ebraismo. «È possibile pensare dopo Auschwitz? È stato l’ebreo Adorno a porsi per primo la domanda che tiene banco in filosofia ancora oggi (basti pensare a Derrida o ad Agamben). Ma il rapporto con l’ebraismo di Adorno era laico, il suo approccio tutto sommato razionale. In questo egli, che da un lato era attratto da Benjamin, dall’altro, non poco fraintendendolo, respingeva e diffidava della sua vena messianica» (Marramao).
Estetica. «Adorno cerca nell’arte una parziale e possibile conciliazione, una ”promesse de bonheur” per dirla con Baudelaire. Il tutto non alienato a cui, sulla scia della ragione dialettica di Hegel, egli continua ad aspirare si dà solo nell’arte. Al contrario di Marcuse, l’altro autore guida del ’68 in Germania, il riscatto estetico dell’esistenza è per Adorno ”solo” estetico, non ha un valore che trascende l’ambito dell’arte» (Vattimo).
Filosofia. «Adorno è stato un vero filosofo in quanto ha pensato in modo radicale il nostro mondo occidentale, a cominciare da quelle dinamiche relative all’industria culturale che oggi hanno corso in modo esorbitante e su dimensione globale» (Esposito).
Illuminismo. «Dialettica dell’illuminismo (1947) rimane una grande opera sia perché le sue analisi sull’industria culturale sono ancora valide e illuminanti, sia perché è valido ancora, a mio avviso, l’assunto che porta a vedere come mito e lumi siano parenti e non estranei. La mia relazione al convegno che si svolgerà su Adorno (al Goethe Institut di Roma, dal 16 al 18 ottobre prossimi), si intitolerà "Sole nero": alludo proprio al lato oscuro dell’illuminismo che Adorno ha magistralmente individuato» (Esposito).
Organizzazione totale. «È l’epoca in cui la società occidentale è giunta, con la totale razionalizzazione capitalistica del lavoro e della società. Oggi non vale più la tesi di Hegel secondo cui solo il tutto è il vero. Anzi, il tutto è proprio il falso, perché esclude ormai ogni libertà e possibilità di trasformazione» (Vattimo). Anche il «trasgressivo», dice Adorno, viene presto metabolizzato e diventa parte integrante dell’ordine dominante.
Ragione. «Adorno criticava la ragione occidentale, ma un punto di vista ancora razionale. Egli rimane nonostante tutto un razionalista. La sua mira era diretta contro la ragione strumentale, contro il processo di razionalizzazione tecnico e formale» (Marramao).
Rovesciamento. «La teoria critica andava rovesciata in prassi: questa l’idea di Adorno e dei suoi allievi di sinistra. Ma Adorno non ha mai avuto il coraggio, secondo gli stessi, di prendere congedo dal congedo della filosofia» (Marramao).

il manifesto 11.9.03
ADORNO
Di fronte a eterni paradossi

L'11 settembre del 1903, a Francoforte, nasceva Theodor Wiesengrund Adorno. L'incontro con la filosofia e quello con la musica furono pressoché contemporanei. Nel 1924 scrisse la sua tesi sulla fenomenologia di Husserl, lo stesso anno - incantato dall'ascolto di frammenti del Wozzeck - avvicinò Alban Berg per seguirlo a Vienna e studiare con lui composizione. Come la musica, pensava Adorno, la filosofia non dovrebbe ridursi a categorie, ma in primo luogo, comporre
di STEFANO PETRUCCIANI
Le molte iniziative che, in questo autunno, celebreranno il centenario della nascita di Adorno (dal convegno che si tiene in questi giorni a Francoforte a quello che si svolgerà a Roma, in ottobre, presso il Goethe Institut), non bastano certo a contrastare l'impressione che, su questo grande esponente del pensiero critico del Novecento, sia caduta negli ultimi anni una cortina di pesante e pressoché totale silenzio. Al successo incontrastato del suo antagonista Heidegger, ha fatto riscontro un oblio quasi completo di colui che è stato senza dubbio l'ingegno più vivo e stimolante tra quelli che si sono raccolti attorno alla Scuola di Francoforte. Sebbene questo oblio sia per molti aspetti ben comprensibile (anche come reazione alla grande diffusione che le tematiche francofortesi avevano avuto negli anni Sessanta e Settanta), esso però ha finito per nascondere quegli elementi in forza dei quali Adorno potrebbe essere un pensatore molto utile anche nella nostra congiuntura; e quindi, forse, un pensatore molto più attuale di quanto non si creda, e di quanto lo scarso interesse di cui gode oggi non faccia sospettare. La singolare attualità di Adorno, la si può trovare proprio nell'atteggiamento intellettuale con il quale egli si pone di fronte al suo presente: la sua prospettiva, infatti, è quella di un filosofo che costruisce un punto di vista critico sul presente pur essendo fermamente convinto che non c'è a portata di mano nessuna concreta via di azione o di trasformazione, e che quindi non si può fare molto di più che attestarsi sulla intransigente forza di resistenza del pensiero critico, della teoria. Perciò si potrebbe dire che l'orizzonte in cui ragiona Adorno mostra non poche affinità con quello nel quale ci troviamo a vivere oggi: all'evidente ingiustizia e irrazionalità degli assetti di potere globalmente vigenti fa riscontro la percezione di una loro quasi fatale immodificabilità, o quantomeno della drammatica sproporzione di qualsiasi tentativo di incidere seriamente su di essi. A questa disperante antinomia Adorno risponde valorizzando al massimo la valenza anche «pratica» che ha l'esercizio critico del pensiero. E proponendo un'idea di filosofia come «critica», che si esercita tanto sui modi di pensare dominanti, quanto sugli ordinamenti sociali che con quelli inestricabilmente si intrecciano. Sul piano più schiettamente filosofico, «speculativo», la centralità della critica (o della «dialettica», che in Adorno con la critica fa tutt'uno) significa in sostanza una cosa molto semplice. Vuol dire che la filosofia fallisce sia quando si illude di cogliere un presunto principio primo, originario, fondante, sottratto alle mediazioni storiche, linguistiche e sociali (basti ricordare la costante polemica di Adorno contro l'Essere di Heidegger), sia quando, sul versante opposto, rinuncia al suo rigore e si riduce, come accadrà nel postmoderno, a mera conversazione, a puro intrattenimento senza principi. La filosofia non può abdicare alle sue esigenze di rigore, ma le può soddisfare solo nell'elemento della critica: attraverso il continuo esercizio di smontaggio delle interpretazioni del mondo ideologiche, limitate e unilaterali, un esercizio attraverso il quale essa accresce la sua e la nostra consapevolezza.

La critica filosofica, però, non è separabile in Adorno dalla critica della società. Mettersi criticamente in relazione con la società, infatti, non vuol dire commisurare le realtà sociali vigenti con un qualche principio o criterio ad esse estraneo. Significa piuttosto misurare i rapporti sociali dati con quelle idee di razionalità e di libertà che essi pretendono di incarnare, e che invece continuamente tradiscono. Decisivo in questo contesto è il concetto (che Adorno rielabora partendo dalla ricca tradizione dialettica di Hegel, Marx, Lukács) della società come «seconda natura», che consente al pensatore francofortese di mettere in risalto una contraddizione di fondo: i rapporti sociali che dovrebbero essere, secondo la filosofia politica contrattualista o nell'ottica della teoria democratica, il risultato delle libere volontà di uomini razionali, si impongono in realtà agli individui come una potenza da essi incontrollabile, che nega la libertà e la spontaneità del singolo, talvolta nei modi brutali del totalitarismo, talaltra in quelli assai più morbidi della persuasione consumistica e mediatica. Perciò, lungi dall'essere un costrutto di libera razionalità, la società rimane una «seconda natura»: i singoli restano in balìa di soverchianti potenze sociali allo stesso modo in cui, nelle epoche antecedenti alla civilizzazione, gli indifesi primitivi erano vittime delle incontrollabili potenze della natura. E' questo il singolare paradosso di una modernità scaturita dall'intreccio, per altri versi straordinariamente fecondo, di tecnica, industria e capitalismo. Da un lato è grazie a queste potenze che gli uomini, oggi, potrebbero essere tutti liberati dalla scarsità materiale e dalla paura (Adorno lo ribadisce infinite volte, e perciò hanno torto marcio coloro che lo hanno considerato un nemico della tecnica e dell'industria); ma dall'altro questa possibilità si sposta sempre più lontano perché i rapporti sociali vigenti continuano a riprodursi, dice Adorno, attraverso l'antagonismo: quasi costituissero una forma sublimata della guerra hobbesiana di tutti contro tutti, dove ognuno è consegnato alla lotta concorrenziale per l'autoconservazione e deve sacrificare al meccanismo dominante ogni spontaneità. Gli uomini restano così sotto il «sortilegio», si liberano dalla paura delle potenze naturali solo per soggiacere più duramente all'angoscia sociale; per dirla con le parole della Dialettica negativa: «La storia umana, il progressivo dominio sulla natura, prosegue quella inconsapevole della natura, mangiare ed essere mangiati».

Ma come si può infrangere il maligno incantesimo? Il pensiero di Adorno non offre risposte preconfezionate, ma non cessa di interrogarsi intorno a questa domanda. Ed è proprio su questo punto che il suo approccio sembra differenziarsi in modo abbastanza rilevante dalla tradizione marxista, nella quale per altri versi Adorno si inscrive. Il principio del dominio, la regola per cui l'uomo è lupo all'altro uomo, che si conserva sublimata nella lotta concorrenziale della società capitalistica, non è per Adorno né il semplice prodotto di un certo ordine economico, che potrebbe essere superato con esso, e neppure qualcosa di cui si possa dire che è radicato nella natura umana (infatti non abbiamo accesso diretto alla natura dell'uomo, ma a ciò che egli è divenuto storicamente). Perciò in qualche misura il sortilegio resta un enigma, quella che Adorno talvolta chiama una «catastrofe irrazionale». Importante, però, è innanzitutto che la condizione di non-libertà venga riconosciuta come tale, e chiamata per nome; così come è decisivo comprendere che nessuna ragione ci costringe a eternarla o assolutizzarla. Proprio in quanto è la critica di ogni assoluto, la dialettica ci insegna che la storia, come il pensiero, è una dimensione aperta: aperta alla minaccia della catastrofe così come all'esito della vera libertà e solidarietà.

Si potrà non essere d'accordo con le tesi che Adorno sostiene, o con le conclusioni cui giunge; gli si dovrebbe però almeno riconoscere il merito di aver posto domande molto serie, che solo una filosofia di piccolo cabotaggio può spensieratamente esorcizzare.

(altri articoli su Adorno sono reperibili su L'Eco di Bergamo, possono, eventualmente essermi richiesti[ndr])

Franco Battiato

Libertà 11.9.03
FRANCO BATTIATO
Parla il musicista e regista, a Bobbio col suo “Perduto amor”. «Presto un nuovo film»

Io, Moro mancato per Bellocchio
«La musica? Endrigo vale i migliori lieder di Schubert»
di Oliviero Marchesi
Di Buongiorno, notte, il nuovo film di Marco Bellocchio, si sta parlando e scrivendo molto. Finora, però, è circolata solo in sparuti circoli di addetti ai lavori la voce secondo cui la scelta originaria del regista piacentino per la parte di Aldo Moro (poi splendidamente interpretato dall'attore teatrale Roberto Herlitzka) sarebbe caduta - a sorpresa - sul cantante e musicista Franco Battiato. E confermare tutto è il diretto interessato: «E' vero, Bellocchio mi ha chiesto di farmi attore per lui» ci ha detto Battiato, ieri a Bobbio per incontrare gli allievi di Fare Cinema e presentare al cinema Le Grazie (nel secondo appuntamento di Incontri con gli autori, la rassegna “collaterale” al laboratorio diretto dallo stesso Bellocchio nel capoluogo dell'Alta Valtrebbia) il suo sorprendente debutto dietro la macchina da presa: Perduto amor. Cortesissimo ma in qualche modo distante, l'astemio e vegetariano Battiato si è fatto intervistare da noi su un divano dell'albergo “Piacentino” dopo un (frugale) pranzo in compagnia di Bellocchio. La sua parlata è senza accento, l'elaborata gentilezza dei suoi modi sembra uno schermo verso l'interlocutore, il segno di una riservatezza profonda. Lo sguardo, dietro gli occhiali neri che indossa anche nella penombra del salottino, è mite e sorridente. «Sinceramente non so perché Bellocchio abbia pensato a me per il ruolo di Moro - dice - forse non solo per la figura ma anche per questa mia voce fessa...(Risatina). Rimasi spiazzato ma, certo, quando un regista come Bellocchio ti propone una cosa del genere ci pensi molto prima di rispondergli no. Alla fine rifiutai, a malincuore, perché ero impegnato nel montaggio di Perduto amor e non volevo mettere a repentaglio l'uscita del mio film per recitare nel film di un altro, per bello che fosse».
(...)

Corriere della Sera: Francesco Merlo ne sa di sogni...

Corriere della Sera 11.9.03
Dopo il film di Bellocchio «Buongiorno, notte» presentato a Venezia: le ricostruzioni psicologiche e il ritorno del «doppio Stato»
I sogni finti dei brigatisti e la tragica realtà di Moro
di Francesco Merlo


Dunque di nuovo saremmo scemi, noi che già allora eravamo scemi perché antidemocristiani ma democratici. Dunque ora saremmo scemi perché non capiamo, anzi non sappiamo e neppure immaginiamo quanti bei sogni di libertà facevano, tra un omicidio e l'altro, i criminali delle Brigate rosse. E, scemi come siamo, benché pazientemente ce lo spieghino un film celebratissimo, la Braghetti, la Faranda, il Foglio , e persino l'Unità , ancora oggi non vediamo com'era bello e simbolico e candido il sogno di riscatto e di purezza che la brigatista, carceriera e assassina di Moro, fece poco prima di partecipare alla sua uccisione.
E chissà dopo la morte di Moro cosa ancora sognò, prima di commettere gli altri delitti, questa stessa signora Braghetti, che ora fa la scrittrice ed è l’ispiratrice del film di Marco Bellocchio, Buongiorno, notte , che noi a Venezia non avremmo premiato neppure se ci fosse piaciuto, perché non se ne può più dei pazzi che devono anche avere ragione, di queste anime aride che non sognano ma delirano, visto che i sogni veri sono privati e solo i mostri non hanno privato ma ambientano le loro visioni sulla panchina di Lenin o sulla locomotiva proletaria, e nel sonno vedono la faccia di Stalin e sentono il coro dell’Aida, Schubert e i Pink Floyd. Questi sono sogni? Chissà come ci resterebbero male Fellini e Buñuel... In somma non ne possiamo più di questa psicologia degli assassini, che avrebbe bisogno più di un infermiere che di un regista cinematografico. D’altra parte siamo scemi anche perché non ci convince che sarebbe bastata una scoppoletta a fermarli, e che gli assassini di Moro non erano mostri ma mostriciattoli sognatori, e che anzi c’era una delicatezza nascosta in loro, come un fiore nel corpo di una iena, e che il vero mostro stava invece altrove, nel sottofondo dello Stato, nel doppio Stato che con una mano combatteva e con l’altra proteggeva le brigate rosse, come ha raccontato Adriana Faranda al Giornale e all’ Unità : «Ancora mi chiedo perché non ci hanno mai preso. Eravamo l’anello debole, abbiamo consegnato decine di lettere, eravamo così vulnerabili e non capisco perché non ci prendevano». Insomma, erano, in fondo in fondo, tutti buoni i protagonisti di quei terribili giorni di morte. Tutti buoni, ci suggerisce questa ricostruzione psicanalitica, tranne il Papa, Andreotti e il Pci. E’ come se ci fosse una stessa tensione che corre tra la Faranda di allora e alcuni giornali di oggi, tra i quali incredibilmente l’ Unità , ovviamente di ora e non certo di allora, che fu il giornale della fermezza dello Stato (tutto intero), quello del compromesso storico, quello che fece giganteggiare sul piedistallo della democrazia e della civiltà un leader politico discutibile come Aldo Moro. E va bene che siamo in tempi di moralismo politico semplificatorio che, a testa bassa, non sopporta le mediazioni e le articolazioni complesse, ma davvero non si capisce perché i brigatisti debbano parlare così tanto, visto che l’unica cosa che san no fare in più di noi è ammazzare qualcuno, e dunque forse dovrebbero ascoltare noi piuttosto che parlare a noi. Si afferma invece una specie di sottocultura che li rende protagonisti, e che accoglie le loro foto segnaletiche non nelle stanze del Museo Pitrè, quello dei briganti siciliani, ma nei dibattiti della vita civile. Chissà dunque cosa sognò Maria Laura Braghetti prima di uccidere ancora, due anni dopo l’assassinio di Moro. Chissà come fu onirica la sua notte il 12 febbraio 1980, poche ora prima che ammazzasse come un cane il professore Vittorio Bachelet in un altro di quei vigliacchi agguati che ovviamente n on sono agguati e criminalità ma rivoluzione, lotta di classe, ideologia, religione. E chissà com’erano dolci le kapò naziste quando sognavano nel loro letto, tra una tortura e l’altra. Spiace doverlo dire con crudezza ma se fossero dignitosi, Maria Laura Braghetti, Adriana Faranda, Valerio Morucci e tutti - ma proprio tutti - gli altri brigatisti, tutti assassini in libertà, dovrebbero farsi dimenticare, piuttosto che partecipare al dibattito sull’ingegneria istituzionale, sul regime che fu e su quello che avrebbe potuto essere. E se fossimo dignitosi noi, che bene abbiamo fatto a liberarli per civiltà giuridica e per generosità sociale, ora li relegheremmo in un obitorio culturale. Non è dignitoso, non è educativo, non è giusto e non è nemmeno interessante che proprio loro ci vengano a raccontare come e perché la morte di Moro ha cambiato l’Italia. In piena sintonia con i sogni della Braghetti e con le tesi della Faranda, un fondo dell’autorevole, e solitamente ragionevole, compagno Bruno Ugolini sull’ Unità («Moro, e se lo avessero liberato?»), ci ha spiegato che «con Moro vivo, Berlusconi Previti e Bossi non sarebbero comparsi all’improvviso a fare il bello e il cattivo tempo in questo paese». L’astuzia del doppio Stato insomma ha usato la Faranda per rifilarci Berlusconi e Previti. Quale Letta e quale Ferrara!, ora finalmente sappiamo con chi prendercela: con la Faranda, con l’ingenuità della Faranda, povera donna. Anche l’ Unità di oggi avrebbe dunque voluto salvare Moro, trattare con le Br di allora, fermare il secondo Stato, lo Stato della fermezza, vale a dire il Pci? L’ Unità di oggi contro l’ Unità di ieri? Lilliput contro Berlinguer? Inutile chiedere in quale ideologia sognatrice si siano dissolti i drammi umani e familiari, reali e duraturi dei cinque proletari della scorta di Moro. In cambio di quale chiacchiera politologica e per quale aberrante ragione si potrebbe dimenticare il sangue di quella mattina? Un poco meno visionari di Ugolini, i brigatisti si sono limitati a farfugliare che se avessero restituito Moro ai suoi familiari invece di ucciderlo, non ci sarebbe stato bisogno di attendere l a caduta del muro di Berlino, le inchieste di tangentopoli, il referendum di Mario Segni e tutto il resto per liberare l’Italia. Ma liberarla da che cosa? Non è vero che in quel covo Moro e i suoi assassini erano prigionieri di una stessa miseria nazionale. Moro era un uomo che faceva politica, che non trattava la classe operaia con i cannoni di Bava Beccaris o con le milizie padronali, era un interlocutore anche dei ceti poveri, un interlocutore politico e non un sequestratore o un bombardiere. La figura di Moro, morte compresa, appartiene alla storia della politica italiana. Quella dei suoi assassini alla criminologia che, grazie a Dio, non è più razzismo lombrosiano. E infatti il presunto regime non ha fucilato i brigatisti, li ha sottratti anche all’ergastolo, e non riserva ai loro cervelli la conservazione in formalina. Ma tutti questi microfoni e cineprese, questo compiacerli, e tutto questo sdolcinarli e somministrarceli in un dibattito psicopolitico che, va detto chiaro, non interessa a nessuno, salvo a qualche allievo di Freud e di Lombroso, sono altrettanto aberranti, forse persino peggio della formalina.

Repubblica on line

Repubblica on line GIOVEDÌ, 11 SETTEMBRE 2003
Caso Moro: "Buongiorno, notte" e bentornata ferita della memoria

Per tutta una generazione che è cresciuta nella rassicurante famiglia dell´ideologia, quei 55 giorni del 1978 - la traiettoria che lega nello spazio e nel tempo l´asfalto di via Fani e la Renault rossa di via Caetani - sono una lunga linea d´ombra e la morte di Aldo Moro una cesura irrimediabile: non a caso, forse, proprio un regista simbolo della rivolta come Marco Bellocchio, l´autore dei "Pugni in tasca", ne ha elaborato il lutto e, ritrovando gli stessi accenti di genuina laicità che abbiamo amato ne "L´ora di religione", ci ha restituito la memoria di quella tragedia.
Opera claustrofobica e intimista, filtrata dal punto di vista di una giovane brigatista, "Buongiorno, notte" alterna i riti della quotidianità e l´intensità di pochi magici dialoghi; Bellocchio respinge le tentazioni dietrologiche che percorrevano "Il caso Moro" di Giuseppe Ferrara e "Piazza delle Cinque Lune" di Renzo Martinelli, ed evitando i complottismi ricostruisce il meccanismo di un delirio astratto che produce concreta violenza.
Se nel ruolo dei brigatisti Luigi Lo Cascio e Maya Sansa sono eccellenti conferme, Roberto Herlitzka interpreta lo statista, così legato nell´immaginario cinefilo alla figura di Gian Maria Volonté, con toni più sobri ma altrettanto ispirati: l´altro epilogo di questo film notturno, nella dimensione del sogno, ha il suo volto felice e luminoso.

Il film di Bellocchio
sarà premiato dalla gente
lettera di Ines Di Giacinto

digiacintoines@virgilio.it
Personalmente , non ho ancora visto "Buongiorno, notte", ma da quello che ho sentito dire e che si può percepire dagli spezzoni di film mostrati dalle numerose pubbli¬cità, non ne dubito, anzi sono sicura che sia bellissimo. Sicuramente ne è convinto anche Bellocchio, che però in questo momento dimentica la gran premiazione della critica e del pubblico scagliandosi sul mancato Leone D'Oro della Mostra del Cinema di Venezia andato a un altrettanto meritevole film russo. Forse quando la rabbia sarà passata il registra si accorgerà della massima gratificazione: essere premiato dalla gente. E poi se ci si riflette due minuti... Potrebbe accadere come a volte accade a Sanremo, no? La canzone che vince vende meno di altri.