sabato 28 maggio 2005

La Stampa Tuttolibri 28.5.05
Squillano i telefonini, tace la ricerca: l’Italia della scienza negata
Ermanno Bencivenga

ENRICO Bellone è uno storico della scienza. Uno di quelli, è importante aggiungere, che sanno di scienza quanto di storia; ed è anche una persona profondamente preoccupata del destino culturale dell'Italia. Trent'anni fa, ricorda in apertura e in chiusura del suo La scienza negata, Giuliano Toraldo Di Francia definì il nostro un Paese in via di sottosviluppo; e da allora la situazione è molto peggiorata. Siamo terzi al mondo per la diffusione dei telefoni cellulari ma quarantacinquesimi per capacità di innovazione (preceduti dalla Tunisia e dalla Giordania) e quarantottesimi per interventi pubblici in imprese coinvolte nella ricerca (stime fornite dal World Economic Forum). «Siamo così giunti al bivio», conclude Bellone: «O investiamo risorse finanziarie e umane nella ricerca di base, oppure ci trasformiamo in una appendice turistica del mondo civile». In certa misura, il problema è politico, e Bellone dedica la prima (ahimè, troppo corta) parte del libro a spiegare come governi d'ogni risma, per almeno un secolo, abbiano costantemente mortificato le aspettative di scienziati e ricercatori e anzi tentato di screditarli. Tipica la situazione degli Anni Sessanta del Novecento, con i poteri occulti di destra impegnati a «frenare quelle modernizzazioni del Paese che erano in contrasto con ben precisi interessi economici sui fronti dell'energia e dei farmaci» e legati da una «strana alleanza» con i «punti di vista che, da sinistra, raffiguravano le università come strumenti ideologici della borghesia e gli enti di ricerca come strumenti del dominio tecnologico del capitale». C'è anche, però, un aspetto intellettuale della questione - se poi «intellettuale» è il termine giusto in questo caso. Ci sono, e ci sono stati per decenni, in Italia chiacchieroni dall'aria intensa e ispirata che di scienza sanno pochino ma in compenso ne parlano a ogni piè sospinto, di solito per stigmatizzarne la disumanità, la denaturalizzazione, la crudeltà e per metterci in guardia contro i pericoli connessi a questa sciagurata attività. E, quando gli indigeni non bastano, ci facciamo in quattro per importare autorevoli giudizi dall'estero; ecco allora, per esempio, il sociologo Edgar Morin informarci che «la razionalizzazione astratta e unidimensionale» genera «catastrofi umane» e «catastrofi naturali», che si tratta di «un'intelligenza nello stesso tempo miope, presbite, daltonica, monocola, che finisce il più delle volte per essere cieca». Che fare con personaggi del genere? Scrollare le spalle sembra un atteggiamento irresponsabile: si tratta di autori che hanno un grande seguito, che straparlano davanti a folle oceaniche, che opinionano su giornali e riviste di alta tiratura, che sembrano offrire un'ancora di salvezza a un pubblico desolato dall'idiozia dominante. Come non dire a questo pubblico che spesso l'ancora gli viene appesa al collo e lo trascina a fondo? E, d'altra parte, a che pro argomentare con cogenza e precisione contro l'assurdo? Che cosa si può rispondere a Galimberti quando afferma che l'età della tecnica mette a nudo ciò che è nascosto in ogni operazione razionale: la tensione mirata a eliminare l'ignoto, «fonte originaria dell'angoscia»? O a Severino quando osserva sagace che «la previsione scientifica riesce a dominare realmente il divenire, al di fuori del sortilegio in cui l'immutabile dissolve il divenire»? O a Gargani quando critica «l'atteggiamento razioide, che è proprio della ragione sobria, economica, angusta e un po' codarda che è interessata soprattutto alla verifica, al controllo ripetitivo e inesorabile della verità e delle conoscenze»? Da che parte si comincia a controbattere «tesi» del genere? Bellone è esterrefatto, e non trova soluzione migliore che elencare una lunga serie di simili perle accompagnate da commenti sarcastici. In questa seconda parte, il suo libro ricorda i florilegi composti da alcuni insegnanti, che un po' sadicamente annotano le più sublimi scemenze prodotte dai loro allievi. È però, purtroppo, una soluzione insoddisfacente - e dico «purtroppo» in tutta onestà, perché sottoscrivo fino in fondo lo sdegno di Bellone, perché ritengo di essere dalla sua stessa parte. La soluzione è insoddisfacente per due motivi. Primo, cade facilmente nel qualunquismo. Di scemenze ne dicono tutti, anche i migliori; ma c'è una bella differenza tra Husserl e Galimberti, o tra Marcuse e Di Trocchio. Da un lato ci sono profondi ingegni che presentano conclusioni magari controverse ma fondate su una visione coerente del mondo; dall'altro ci sono appunto dei chiacchieroni. E il peggio che potrebbe capitare è che questi ultimi chiudano un libro così sentendosi tutti dei Marcuse o degli Husserl. Secondo, il sarcasmo è a ben vedere il riconoscimento di una sconfitta: avendo deciso che il convento non passa di meglio, non ci resta che farci quattro risate. Ma non bisogna considerarsi sconfitti; bisogna continuare testardamente a lottare per dare un'immagine alternativa e in positivo della scienza. La domanda chiave si ripropone, dunque: che fare? Non ho ricette o bacchette magiche; posso solo raccomandare l'ovvio. Cioè una seria e chiara opera di comunicazione scientifica, aperta e franca nei confronti dei rischi della ricerca tanto quanto informativa delle sue promesse e dei suoi vantaggi, attenta nel valutare priorità e nell'identificare possibili condizionamenti, e insieme affascinante come solo sa essere lo studio dei segreti dell'universo. Non è facile, ma quando riusciamo a spiegare bene la relatività generale o la fisiologia del cervello, la struttura di un nucleo o l'ultimo teorema di Fermat, nessuno che ci abbia seguiti saprà più che farsene dei chiacchieroni.