domenica 3 luglio 2005

PAOLO CONTE:
la musica è femmina

Repubblica 03 LUGLIO 2005
L'INCONTRO
Cantanti di culto

Lo vogliono alla Carnegie Hall di Manhattan, al Kodak Theatre di Los Angeles, nei grandi casinò di Las Vegas. Ma lui è pigro, in aereo soffre di claustrofobia e preferisce restare nella campagna di Asti con il suo pianoforte a inventare canzoni, a cercarne il profumo, a inseguirle con tanto più gusto quanto più si fanno desiderare "perché la musica è femmina", a dare vita a una gabbia di suoni e di poesia
«A un certo punto della mia vita cominciai a tenermi le canzoni nel cassetto. Per un autore l´esecuzione di un interprete è un onore e insieme un tradimento»

PAOLO CONTE
di GIUSEPPE VIDETTI

BOLOGNA. Il disegnatore Bill Griffith, quello di "Zippy", che gli ha voluto fare un ritratto, ha colto perfettamente la sua maschera: le rughe, i baffi, gli occhi buoni, lo sguardo di chi ne ha viste di tutti i colori ma nasconde tutto dietro un broncio bonario. Griffith è uno dei tanti ammiratori americani di Paolo Conte. C´era anche Vincent Gallo al suo concerto a Broadway, nel prezioso Supper Club, quando «l'avvocato» tornò a Manhattan dopo il sold out al Blue Note. A questo punto, la Carnegie Hall gli spetterebbe di diritto. «Invece sono io che li faccio aspettare», borbotta Conte. Ma come? Le hanno offerto la Carnegie Hall e lei ha detto no? «Perché lei c´è stato? Di che colore è? Bianca, vero?». Un tempo, forse. Adesso è bianco sporco. «Sono due anni che mi invitano, ma non ho voglia di affrontare viaggi. Io di natura sono pigro. Soffro di claustrofobia e non mi piace stare chiuso troppo a lungo dentro un aereo. Mi vogliono a Las Vegas, ma che c'entro io coi casinò? E al Kodak Theatre di Los Angeles, dove danno gli Oscar. Magari ci andrò quando il nuovo airbus, quello spazioso con le camere da letto e l'idromassaggio, comincerà a volare. Per adesso non mi va di stare in scatola».
«Me lo fa un autografo? È per il mio moroso», la signora ha già pronte carta e penna. «Ma sì, per lei questo e altro. Meglio tenerselo buono il moroso». Nel ristorante dell'albergo si respira un'aria fin de siècle. Moquette bordeaux, lampadari a gocce (tante gocce), corrimano di velluto (bordeaux). E una habituée fatta su misura, divina, con tanto di quel rosa addosso, dalle scarpe al cappello, che neanche Barbara Cartland. «Una eccentrica miliardaria che qui a Bologna conoscono tutti», informa il cameriere azzimato. Le camere da letto sono rivestite di stoffa a fiori. Rose dappertutto, persino sugli interruttori della luce. «Io qui sto bene», dice Conte, che è a Bologna per provare alcune nuove canzoni che eseguirà nel tour estivo in giro per l´Europa; unica serata italiana all'Arena di Verona, il 26 luglio. Un evento che verrà registrato per un cd e un dvd di prossima pubblicazione. «Non mi piacciono gli alberghi della new economy, quelli dove in camera si entra con la scheda magnetica. L'alberghetto, invece, mi dà sicurezza. Scelgo quelli che hanno un gusto di casa, vecchio stile, con delle visibili vestigia del passato, come quelle due colonnine di marmo lì accanto all'ascensore, vede?». Il cartello «vietato fumare» è l'unico richiamo al presente. «Io per fortuna ho smesso da tanto tempo. Lo faccio solo di nascosto. Anzi, diciamo proprio che ho smesso di fumare, se no mia moglie si arrabbia. Niente sigarette, niente cioccolata».
Conte, all'estero, è un "cult singer". Brian Eno lo chiama «Il re del kazoo». «In realtà questa è una storia che è partita da me. Una volta mi chiesero, cosa ti piacerebbe che scrivessero sul tuo epitaffio? E io: "È stato il miglior suonatore di kazoo del mondo". A me questa etichetta va benissimo, abdico volentieri a qualunque riferimento vocale e mi sparo tutta una carriera sul kazoo. È uno strumento di origini antiche, primitive. Si costruiva facilmente anche in casa. Io e mio fratello, da bambini, lo facevamo con il pettine e la carta velina. Nel periodo in cui tenevo concerti da solo, perché l'orchestra non potevo permettermela, mio fratello Giorgio mi regalò un vero kazoo, che ho sempre conservato gelosamente, perché usandolo avevo l'impressione di avere alle spalle un'orchestra fantasma. Mi piace il fatto che sia uno strumento con una vaga parvenza umana, perché alla fine sempre di vocalismo si tratta. A proposito, ma Brian Eno quanti anni ha?». Cinquantasette. «Sa quanti ne ho io?». Se non sbaglio, è nato il 6 gennaio del 1938. «No, quello è Celentano. Io sono del 6 gennaio del ‘37. Siamo stati entrambi portati non dalla Befana, come si tende a dire, ma dai Re Magi».
Con Adriano, all'epoca in cui Conte cercava interpreti per le sue canzoni, l'intesa fu facile, immediata. Il risultato, memorabile: Azzurro. «Io, come autore, cercavo una credibilità vocale. Non mi soffermavo troppo sul personaggio. Non mi piaceva chi cantava da cantante, preferivo quelli che usavano la lingua italiana in modo credibile, naturale. Ecco perché mi è sempre piaciuto tantissimo Celentano. E Aznavour, che ha tutto quello che un cantante deve avere. Per me gli anni Sessanta furono il periodo in cui i testi si presero la rivincita sulla musica. Ci sono state delle canzoni italiane degli anni Trenta e Quaranta che erano meravigliose, ma liricamente deboli: linguaggio ampolloso, forzato, rime mal congegnate. Negli anni Sessanta ci fu una rinascita di valori poetici, che in Francia c'era ormai da tempo, Brassens, e prima ancora i testi della Piaf. Tutto questo si esaltava nella qualità interpretativa di voci non perfette, ma uniche».
Si parla delle canzoni del dopoguerra, influenzate dallo swing, con i testi un po´ appesantiti dal quel senso di disorientamento che l'Italia della ricostruzione stava attraversando. Come Perduto amore... Conte fa corna e scongiuri. «Forse lei non lo sa, ma ci sono canzoni che non vanno nominate». Perché, portano jella? «Sì, e io sono assai superstizioso». Più del gatto nero? «No, quello invece mi sta simpatico. Ma nel nostro mondo certe canzoni, certi colori (il viola, ma anche il verde) meglio tenerli alla larga. Ce n'è anche una famosa di Gershwin nella lista nera».
Nel periodo di grande euforia della canzone italiana, gli anni Sessanta, quando la Pavone arrivava al Cantagiro in Jaguar rosa, l'avvocato di Asti, dietro le quinte, scriveva successi da classifica. «Ne ho viste di tutti i colori. Mi facevano molta simpatia i cantanti di allora. Mi ricordo l'Equipe 84, Maurizio Vandelli che arrivava con la Rolls e Alfio Cantarella con la Ferrari. Era un mondo che io cercavo di capire. Sentivo che quegli artisti avevano potere e delle grandi potenzialità, anche se molti di loro erano dei bravi "ricopiatori" di cose straniere. Ma siccome io non avevo sentito gli originali, perché ascoltavo solo jazz, non avevo notizie precise di quel che avveniva in America o in Inghilterra, quindi mi sembravano tutti dei geni, degli innovatori. Poi, a un certo punto, mi accorsi che stavo scrivendo in una maniera meno esportabile, canzoni che non avrei potuto facilmente mettere in mano ad altri, più ermetiche. Non ricordo quale fu il primo brano che mi rifiutai di dare, ma a un certo punto cominciai a tenermi le canzoni nel cassetto. Temevo che non sarebbero state capite. Per un autore, l'esecuzione di un interprete è un grande onore, ma allo stesso tempo un tradimento, al contrario: sapevo che Azzurro era un gran pezzo, ma se non avessi avuto un grande interprete come Celentano, sarebbe rimasto molto più nascosto. Ancora adesso, quando scrivo una canzone, lo faccio sempre con il miraggio che la possa cantare qualcun altro, Stevie Wonder, Aznavour...».
Quando si ha la certezza di aver scritto un capolavoro? «Lo senti a peso. Ci può essere una canzone che ti è molto cara, che ha dentro qualcosa a cui tieni enormemente, però la senti che è piccola. C'è invece quell'altra che è obiettivamente più comprensibile, ti piace e può piacere agli altri. Puoi farci intorno tutte le masturbazioni estetico-intellettuali che vuoi, ma ci sono canzoni che a peso cantano, altre meno, altre per niente. Ne abbiamo sentite di tutti i colori in questi anni sul potere di una canzone. Personalmente, non ho mai condiviso la presunzione che una canzone possa cambiare il mondo. Posso capire che una canzone possa far compagnia, siglare un periodo della vita, mettere un sigillo su una storia d'amore. È un mezzo di comunicazione nella misura in cui l'arte, in ogni caso, comunica. Una canzone può segnare un'epoca, questo sì. La canzone ha un odore e può portarti il profumo di una certa situazione, di un momento. Se ascolto Ma l'amore no, sono investito immediatamente dal veleno di quegli anni di guerra».
Molto jazz, dischi e libri che spesso restano lì mesi ad aspettare di essere aperti o ascoltati. Poca televisione. «Il telegiornale, ma non sempre. I film belli purtroppo li trasmettono solo dopo mezzanotte. Ma ho alcuni vizietti, cose che la televisione italiana riesce a fare benissimo: La squadra, anzitutto. E poi, su quell'onda, me li sono fatti tutti, Distretto di polizia, Montalbano, Don Matteo, Carabinieri. Ma il top rimane La squadra con Tony Sperandeo. Istintivamente invece, ancora prima che partissero, ho rifiutato in blocco tutti i reality show. Non li reggo. Se riescono a mettere in piedi qualcosa come Music farm, la crisi del disco deve esserci davvero».
Paolo Conte ha una bella casa in città, ad Asti, «con la veranda che è il mio angolo speciale». Da qualche anno, però, preferisce la campagna, a dieci chilometri dal centro. «Per me ogni angolo è buono per inventare una canzone, basta che ci sia un pianoforte. I libri di giurisprudenza, per affetto, li ho ancora tutti, ma non li apro mai. Non ho rimpianti dal punto di vista professionale, ma a volte, nelle notti d'insonnia, mi torna in mente un caso che seguivo, e cerco di ricordarmi qualche elemento di diritto, piccole nostalgie... Ma sono contento che sull'avvocato abbia prevalso l'artista».
Strano che un autore dalla fantasia così fervida, che ha concepito un work in progress affascinante come Razmataz, non abbia ancora messo mano a un romanzo. «Ho avuto diverse richieste da persone molto simpatiche di case editrici, ma non è il mio mestiere. Io non sono forte sulla traccia lunga. Di un romanzo, riuscirei a inventare un bell'ingresso e un discreto finale, ma poi mi manca tutto il congegno centrale. Tutto quel che ho scritto, l'ho sempre scritto con l'alibi della musica, su gabbie già disegnate dai suoni. Non saprei scrivere neanche poesie sganciate dalla musica, mi sentirei esposto alle intemperie se lo facessi. La verità è che non ho niente di urgente da dire».
Che astuzie usa l'avvocato quando una buona canzone tarda ad arrivare? «Mi piace quando si fa un po' desiderare, come una bella donna. La musica è femmina». Che tipo di donna l'affascina di più? Una Gilda fatale ed esotica che balla il tango con casqué? «Come per tutti quelli della mia generazione, la più vicina è sempre la più bella».