lunedì 31 ottobre 2005

Marco Bellocchio, sul Corsera di sabato 29 ottobre,
ha citato Massimo Fagioli e l'Analisi collettiva

una segnalazione di Paolo Izzo

Corriere della Sera 29.10.05

L’ex regista della rabbia giovanile critica gli eccessi ideologici: «La riscoperta della vitalità conta più della questione morale»Bellocchio: «Io, un ribelle moderato
Ma tengo i pugni sempre in tasca
di Barbara Palombelli
LA CONTESTAZIONE
Ho partecipato al Sessantotto da vecchietto: ripensandoci oggi, per la mia esperienza, mi appare un po' superficiale

LA RELIGIONE
A Roma per l'Anno Santo, vidi Pio XII sulla sedia gestatoria. Poi al liceo, dai barnabiti, smisi di credere
«La cuccagna promessa da Silvio Berlusconi non è mai arrivata. La grande promessa, il ricco premio, la tombola non li abbiamo vinti. Non mi ha stupito il suo successo: penso che se l’Italia, in maggioranza, non si fosse impoverita, avrebbe continuato a vincere. La caduta delle ideologie ha depresso tanti italiani e mi fa rabbia vedere il fronte laico che annaspa e si fa condizionare dalla religione. Mi fa rabbia dover affermare che non credo in Dio, quasi fossi un sopravvissuto di un mondo scomparso e fuori moda. Voto per i Ds, ma non ho alcun legame con i partiti, ho visto qualche volta Walter Veltroni, grande intenditore di cinema, che stimo come politico e come uomo. Un amico che non vedo mai. Da ragazzo, il mio idolo era Lenin. Ero un rivoluzionario, ero contro il revisionismo del Pci, ma personalmente non ho mai torto un capello a nessuno. L’ironia e la prudenza, innate, mi hanno salvato in più di un’occasione. Ho sempre partecipato al grande cambiamento che ha preso l’avvio, all’inizio degli anni Sessanta, anche da Piacenza, proprio da casa mia. Un cammino che continua. Era il 1962 quando mio fratello Piergiorgio, con Grazia Cherchi, Cesare Cases, Goffredo Fofi, Franco Fortini e molti altri fondò i Quaderni Piacentini, rivista marxista su cui si sono, ci siamo formati in tantissimi. Oggi sono sempre convinto che la questione morale è viva e lotta insieme a noi. Ma non è tutto. La decenza, la moralità sono importanti, ma non riguardano la vitalità. Vitale per me è la ricerca, senza fine, della più bella, più ricca, più sessuata, più affettiva identità umana, ricerca iniziata tanti anni fa (1977) nell’analisi collettiva di Massimo Fagioli. Perciò la storia della mia vita si può ben dividere in due: prima e dopo l’analisi collettiva, a cui beninteso continuo a partecipare, con una vitalità rinata proprio grazie ad essa». Marco Bellocchio ha appena finito Il regista di matrimoni, con Sergio Castellitto, «un film che uscirà l’anno prossimo, piuttosto inattuale. Non parla di Berlusconi, né di cocaina né di Iraq. Comincia dove finiva 8 e mezzo di Fellini: un regista prepara I promessi sposi, fatica, non ce la fa più e infine si allontana dal suo tavolo e parte. Va in Sicilia, incontra un regista di matrimoni, uno di quei tizi che per girare una videocassetta portano la coppia in abito da nozze sullo scoglio al tramonto, insomma il suo alter ego meno fortunato. Dall’incontro nasce una storia simile al romanzo manzoniano, c’è un principe del luogo che vuole impedire un matrimonio…». L’ufficio di Bellocchio è ordinatissimo, parquet a specchio, pareti bianche. Lui, a 66 anni, sembra ancora il ragazzo che quarant’anni fa sconvolse il cinema italiano con il suo film d’esordio, I pugni in tasca. Fu un caso internazionale, «accolto dalla sinistra con stupore ed entusiasmo, su Rinascita ne scrisse Italo Calvino con controllato interesse. Riuscii a produrlo grazie a Piergiorgio, che ottenne un finanziamento, girammo in casa di una zia a Bobbio». Un film autobiografico, si disse allora, immaginando che i ragazzi avessero una grande rabbia dentro, pronta a esplodere, improvvisa, da un momento all’altro. Come poi avvenne.
Marco nasce nel 1939: «Mio padre Francesco conservava l’autografo che il Duce consegnava alle famiglie numerose, eravamo nove, poi diventammo otto. Era un avvocato, molto tiepido verso il regime. Con la Repubblica diventò un conservatore. Parlava pochissimo di politica, si dava un gran da fare per mantenerci e creare un patrimonio per il nostro futuro. La borghesia cattolica guardava al comunismo con terrore. La Chiesa agiva scomunicando. Da bambino, ho vissuto con l’angoscia dell’arrivo dei russi. I sacerdoti mi avevano spiegato che, se avesse vinto il Pci, i comunisti mi avrebbero obbligato a rinnegare la fede. Ci parlavano in continuazione dei martiri della cristianità e noi bambini avremmo dovuto imitarli, i missionari ci raccontavano dei loro confratelli cui i cinesi avevano tagliato la lingua. Ne venne uno in classe, senza lingua. Ci preparavamo alla guerra civile, inevitabile nel caso di un’invasione sovietica». Pio XII, il cinema parrocchiale con i film di guerra e le vite dei santi, «i terribili Promessi sposi di Mario Camerini, la peste», l’Anno Santo del 1950, Bellocchio li ricorda come fosse ieri: «Ero in piazza San Pietro, i pellegrini sembravano in preda a turbe emotive, io invece guardavo senza parlare il Papa che passava in mezzo alla folla sulla sedia gestatoria, sembrava imbalsamato, e il curato notò la mia freddezza e mi rimproverò. Avevo undici anni. Ero già vaccinato contro il fanatismo, forse». Al liceo, dai barnabiti di Lodi, nonostante la messa quotidiana, «cade il terrore dell’inferno e non credo più».
Poi Roma, il Centro sperimentale di cinematografia, «era controllato da un certo potere diccì, ma aperto al mondo. Vennero Fellini e Mastroianni a mostrarci La dolce vita, Pietro Germi con Divorzio all’italiana, Antonioni con L’avventura, passarono Blasetti e Nanni Loy, era venuto a incontrare gli studenti anche Charlie Chaplin. Dopo le proiezioni seguiva il dibattito». L’aspirante regista chiede ad Antonioni, con tono rivendicativo: ma come si fa ad entrare nel vostro mondo? «Proprio la stessa domanda che fanno a me, quando vado nelle scuole e nelle università. Una domanda a cui è impossibile rispondere colle sole parole».
La distanza del tempo scolorisce i ricordi, «Ho fatto il Sessantotto da vecchietto, ripensandoci oggi mi appare tutto, per la mia vita, la mia età, un po’ superficiale. Ricordo che andai personalmente a palazzo Campana, a Torino, nel dicembre 1967, data d’inizio di quella che allora si chiamava la contestazione. Sotto accusa, il potere cattedratico. Vidi, come a teatro, i primi episodi di contestazione (verbali) e partecipai allo sgombero forzato dell’aula magna. I poliziotti furono gentilissimi. Aderii, per qualche mese, all’Unione dei marxisti-leninisti di Aldo Brandirali, una pedestre imitazione del maoismo, con coreografie e slogan che inneggiavano al libretto rosso. Ma non eravamo né bombaroli né terroristi». La sottolineatura del regista non è casuale. «Un giorno, Franco Piperno venne nel mio studio e mi propose di fare un film sul sequestro Moro, ma io non ero pronto. Penso volesse raccontare la sua verità. La stessa cosa mi capitò con il libro-intervista di Silvana Mazzocchi con Adriana Faranda: Adriana voleva controllare la sceneggiatura e la capisco. Lasciai. Andò meglio quando, molti anni dopo, la Rai mi propose un film sempre su Moro, lasciandomi carta bianca. Io sentivo che dovevo trovare a quella tragedia un finale diverso. Non ero più il ribelle che si fa giustizia spingendo la mamma nel burrone. Sentivo che potevo riimmaginare la storia, mi potevo permettere di rappresentare in quel falso storico (o piuttosto in quel doppio finale, dove c’è anche la verità storica) il mio percorso esistenziale più profondo». In Buongiorno, notte, la liberazione del prigioniero dà il senso della formazione del regista: un ex marxista che non ha mai sentito l’odio di classe. E che rivendica anche una sua «piacentinità». Un mix di rivoluzione e prudenza, riservatezza e incoscienza, educazione e nostalgia. Un ribelle moderato.