Liberazione 4 ottobre 2006, prima paginaDio solo sa quanto siamo alieni dall'anticlericalismo e dal laicismo. E tali vorremmo rimanere, non solo in nome delle più classiche ragioni del rispetto e del dialogo, ma per una persuasione ancor più radicata - quella per cui il mondo non si divide, nient'affatto, in credenti e non credenti, e le ragioni dei credenti hanno la stessa dignità, diritti e valore di quelle dei miscredenti. Purtroppo, rischiamo di non farcela più, a tenere questi sentimenti con la necessaria saldezza d'animo: tanto il cardinal Ruini quanto papa Ratzinger ci spingono, ormai quasi quotidianamente, verso approdi - ottocenteschi, podrecchiani, protopannelliani - che non ci piacciono.
Accettiamo la sfida del papa
di Rina Gagliardi
L'ultima solenne sortita di Benedetto XVIesimo - domenica scorsa, in occasione dell'apertura del Sinodo - ribadisce una posizione inaccettabile: la necessità del dominio divino nella sfera pubblica, con la conseguente denuncia, da parte del Pontefice, di ogni filosofia della tolleranza che, confinando la religione nel privato, finisce per coincidere con l'"ipocrisia". Sono affermazioni di intensa portata teologica, e anche morale, all'interno di un discorso dai toni cupi, pessimisti, apocalittici. Ma alle nostre orecchie umane esse suonano prima di tutto come la pretesa di restaurare l'obbligo della fede e della pratica religiosa, anzi di farne la "ratio" della vita civile - quindi delle leggi dello Stato, e di tutto ciò che comunemente va sotto il nome di politica. Una "proposta" che ci riporta, di colpo, ad un'epoca premoderna, quando dubitare di Dio e delle dottrine della Chiesa non era neppur concepibile e veniva ferocemente perseguito - come accadde a Giordano Bruno, a tanti spiriti liberi morti sotto le torture dell'Inquisizione, e a migliaia di donne bruciate sul rogo come streghe o fattucchiere. Una ricollocazione della Chiesa cattolica che (come questo giornale ha già scritto) che, dunque, non ha nulla da invidiare ai fondamentalismi religiosi che devastano oggi il pianeta. Se si porta alle estreme conseguenze il ragionamento di papa Ratzinger, che differenza c'è tra questa nuova arroganza allo stesso tempo politica e spirituale e i peggiori fanatismi dell'Islam, del calvinismo, dell'induismo, dell'ebraismo? Non è forse proprio la difficoltà a separare la sfera religiosa da quella politica, e quindi la coincidenza totale tra Fede e Potere, il più aspro rimprovero che la "civiltà occidentale muove ai musulmani?
In verità, il ciclo inaugurato dal successore di Wojtyla poggia sullo stesso fondamento del papa polacco - la crociata della Chiesa contro il mondo moderno - ma lo sviluppa fino in fondo, e in forme pienamente politiche. Siamo ben oltre la dimensione dell'"ingerenza": siamo alla strategia di una vera e piena riconquista di potere. Di essa, il capo della Cei è il braccio armato, per così dire, la mente organizzativa, la leadership politica. E il Papa - questo Papa privo di ogni carisma profetico - ne sostiene il lato teorico: l'affondamento definitivo di ogni spirito conciliare, e tendenzialmente di ogni libertà di pensiero prima di tutto all'interno del mondo cattolico. Si legga bene il discorso: vi si parla del "dominio", non della necessaria "presenza" di Dio nella società degli uomini.
E si citano, con fervore minaccioso, le profezie di Isaia (supponiamo il primo, non il Secondo o il Terzo) sul destino di distruzione che attende il mondo, proprio come Israele e il suo popolo furono "definitivamente" puniti dall'abbattimento del Tempio. Che cosa vuole indurre, il Pontefice, se non la paura, l'angoscia, la soggezione? Che cosa evoca se non la certezza della catastrofe e della dannazione del mondo? In questo, certo, egli dà voce agli abissi di disperazione in cui rischiano di sprofondare le società attuali. Ed esprime una sfiducia radicale nella possibilità della salvezza - della redenzione umana su questa terra - che lo accomunano, in profondità, al neoconservatorismo attuale.
Che fare, dunque? Come ci si difende da questo incombente pericolo oscurantista? Quali terapie politiche e culturali possiamo e dobbiamo mettere in atto? Se solo una parte della nostra analisi è fondata, non basta certo una qualche fervida evocazione della "coscienza laica": le nuove scelte della Chiesa, vale a dire, chiamano in causa laici e cattolici, credenti e non credenti, il vero popolo di Dio così come il popolo scettico. Ovvero, si impone a tutti - a noi laici, a noi non credenti capaci di riflettere sulla fede, a noi cristiani conciliari, a noi che di Gesù di Nazareth assumiamo fino in fondo la Croce, a noi che non rinunciamo alla virtù teologale della Speranza - la capacità di rispondere davvero alla sfida sui valori, i principi, il senso della vita. Visto in questa ottica, il discorso del Papa ci appare perfino ancor più terrificante, ma a suo modo "ragionevole": è la risposta reazionaria ad un problema che c'è, che è troppo spesso rimosso, esorcizzato, banalizzato. Questo problema è la crisi di civiltà - la crisi del capitalismo nella sua era liberista - che si va rovesciando sul pianeta in mille forme drammatiche, mille Tsunami, cento New Orleans, e si insinua nella nostra vita quotidiana, sempre più povera e spesso sempre più banale. Quando il Papa denuncia il vizio contemporaneo di "possedere il mondo e la nostra vita in modo illimitato", senza mai pagare pegno, senza mai fermarsi un attimo, senza altri valori che non la cieca immediatezza del presente, senza valori che non siano un sempre più esangue tardo-edonismo, è di questo vuoto abissale, in fondo, che ci sta parlando - e provate a sostituire il "dominio di Dio" con un diverso e più terrestre sostantivo, il "dominio dell'umanità", e allora la denuncia, e perfino la pretesa intollerante di far pesare il divino nella società umana, senza considerarlo un "intralcio" o un rito formale quanto vacuo, vi appariranno più comprensibili e motivate. No, questo Papa non ci piace - anzi ci fa paura. Come non ci piace questa Chiesa che sogna un nuovissimo dominio temporale. Però, non ci possiamo accontentare - come i tardo-azionisti - di un astratto e disincarnato sogno neo-illuminista, come se in mezzo non ci fosse stata la crisi delle certezze novecentesche, non ci fossero state troppe sconfitte e, ancor più, le tragedie della ragione progressista. Dobbiamo sapere che la forza di Ruini e di Ratzinger non sta soltanto nella risonanza mediatica, o in quel labirinto di trame, interessi e rivoli di potere in cui la Chiesa è maestra: sta nella loro capacità di proporre un pensiero forte, una terapia autoritaria contro il vuoto. Loro hanno capito che il "pensiero debole" è oggi arrivato al capolinea. E noi?
nel supplemento:
La religione e i vuoti della politica
di Lea Melandri
Invece di protestare per l'invasività della Chiesa, la cultura laica dovrebbe indagare le ragioni di un consenso che le sottrae terreno in zone insospettabili, conquistando cuori e menti
L'insistenza con cui oggi si torna a contrapporre laicità e religione è il segnale più evidente della difficoltà che abbiamo a riconoscere che tra l'una e l'altra una delimitazione netta di confini non c'è mai stata. «Se vivi nel mondo occidentale - scrive James Hillman nel suo ultimo libro, Un terribile amore per la guerra, (Adelphi, 2005) - psicologicamente sei cristiano, marchiato indelebilmente con il segno della croce nel cuore e nella mente e in ogni fibra del corpo. Il cristianesimo è dappertutto, nelle parole che usiamo, nelle bestemmie che pronunciamo, nell'eredità di assassinii religiosi della nostra storia. Siamo cristiani fino al midollo, con l'innata certezza di essere superiori a tutti, capaci di aiutare gli altri a vedere la luce».
Il paese di Romagna, dove sono cresciuta, è sempre stato amministrato da partiti di sinistra, ma l'"anima" - tutti gli interrogativi e i tormenti esistenziali che accompagnano la crescita di un individuo, soprattutto se femmina - la si dava precocemente al prete e alla cultura dell'oratorio. E in parte è ancora così.
Intrecci profondi e inconsapevoli potrebbero essere oggi l'oggetto di una ricerca capace di uscire finalmente da schemi dualistici, astratti, se a complicare le cose non fossero intervenuti contaminazioni, accorpamenti paradossali, insospettabili: gli "atei devoti", la "fede secolarizzata", il "femminismo clericale", la laicità "buona e sana", cioè intrisa di principi cristiani, auspicata dal cardinale Scola. Di fronte a una Chiesa aggressiva, che non si rivolge più alle coscienze, sapendo quanto gli individui si concedano ormai libertà di scelta, e che mira a "fecondare" direttamente le principali istituzioni della vita pubblica - lo Stato, le sue leggi, i suoi tribunali - si è portati a pensare al ritorno di un lontano passato, feudale, che si credeva sepolto. Ma se si resiste alla tentazione di vedere l'insorgere di una fede d'assalto solo come fenomeno regressivo, il rimontare di pulsioni oscure e irrazionali, nemiche della modernità, forse si può pensare, in termini meno fatalistici, che la religione sia oggi la copertura di una "preistoria" di esperienze, pensieri, sentimenti, relazioni, che chiede di essere "ripresa" e aperta a nuove soluzioni.
Il "risveglio religioso" che ha colto di sorpresa l'Occidente, ma che interessa con evidenti analogie culture e confessioni diverse, è stato da molti messo in relazione con il riproporsi in forza di un Islam arcaico, fondamentalista, ostile al mondo cristiano identificato coi vecchi e coi nuovi colonizzatori. Si è detto anche che poteva essere la risposta a sentimenti diffusi di paura, insicurezza, precarietà, perdita di appartenenze identitarie, umori inquieti che chiedono atti riparativi e il ripristino di valori tradizionali. Ma una delle ragioni principali è senza dubbio la crisi della politica che, di fronte ai cambiamenti in atto, sconta la sua "separatezza" storica dalle esperienze che sono parse più legate alla "persona", al privato, alla vita del singolo, ad aspetti dell'umano confinanti con la natura e col sacro: l'amore, la nascita, l'infanzia, le mutazioni corporee, la malattia, la morte, ecc.
Per effetto del mercato, dei media, della sperimentazione scientifica e, soprattutto, della "rivoluzione" quotidiana che ha visto le donne uscire dalle case, scostarsi dai ruoli famigliari, affrontare in modo diverso la sessualità e la maternità, oggi le "questioni della vita" irrompono sulla scena pubblica e con sorpresa della cultura "alta" conquistano i posti più in vista, influenzano la politica, diventano oggetto e soggetto di cambiamenti imprevedibili. Un sottosuolo di "vissuti", che si volevano immodificabili, rischiano, una volta venuti allo scoperto, di finire divorati da poteri, istituzioni, discipline che non a caso viaggiano ormai col prefisso "bio": biotecnologie, biomedicina, biopolitica.
Con la nascita di un'individualità femminile sempre meno adorante del sacrificio materno, meno incline alla dedizione altruistica che ne ha fatto finora il sostegno primo, materiale e psicologico, della vita pubblica, si incrina un ordine dato come "naturale", che la Chiesa si affretta a riportare in auge secondo i presupposti intoccabili della Parola rivelata. Anche se gli ammonimenti delle gerarchie ecclesiastiche si scagliano insistentemente sul "caos sessuale", sul "relativismo etico e filosofico", sul disfacimento della famiglia, bersaglio primo restano tuttavia i massimi organi dello Stato, i governi, i parlamenti, che possono legittimare o frenare il cambiamento, come si è visto a proposito della legge 40, e ora dei Pacs e della pillola abortiva RU486. Il pericolo maggiore dunque non è l'Islam. Anzi, come ha detto il nuovo Papa a Colonia, «la ferma fede in Dio dei musulmani - è - una sfida positiva» anche per il cattolicesimo. Più temibile è l'eclissarsi di un dominio e di una genealogia patriarcale che si sono retti finora su un'idea biologistica e sacralizzata di famiglia, ma soprattutto sull'apparato sacerdotale rigorosamente maschile che se ne è assunto la tutela.
La fame di spiritualità, di accorpamenti mistici, di "valori" rassicuranti, di figure carismatiche a cui affidare il destino dell'umanità, non è solo l'effetto di abili strategie clericali e conservatrici, ma nasce dal cuore dell'Occidente, dal disagio evidente di una civiltà che ha perso il rapporto ottimistico con se stessa, con le proprie mete tecnico scientifiche, con l'idea di un soggetto unico, portatore di principi universali. Non è la "secolarizzazione", come va ripetendo Papa Ratzinger, a "disumanizzare l'uomo", ma, al contrario, quella sorta di ritorno di onnipotenza divina proiettata sul mondo creato dall'uomo, sulle macchine che sembrano oggi esautorarlo, sottraendogli controllo e responsabilità. La "religione" del mercato, della tecnica, della scienza, delle mirabolanti reti comunicative, se ha potuto dare inizialmente nuovo impulso alla creatività, oggi ne svela vistosamente i rischi là dove non si vedono più limiti, differenze, alterazione del senso dell'umano. Il dio delle merci, delle tecnologie, della velocità, dell'eterna giovinezza, fa dubitare della laicità della nostra cultura tanto quanto le sue innegabili radici nelle religioni che l'hanno attraversata. Ma se le chiese avevano a loro vantaggio il sapere e la lingua dell'interiorità, del sentimento, della sofferenza, del piacere e dei patimenti del corpo, il dio macchinino e ingegneristico della ragione scientifica si lascia dietro l'ombra di un immaginario apocalittico, il sospetto della distruttività che inspiegabilmente ha sempre accompagnato le più straordinarie costruzioni dell'uomo.
Anziché attestarsi sulla vibrata protesta per l'invasività della Chiesa su questioni che appartengono esclusivamente allo Stato - smentite peraltro dal filo mai interrotto della negoziazione -, la cultura politica che si proclama laica e antitradizionalista, dovrebbe indagare le ragioni di un consenso che le sottrae terreno penetrando in zone insospettabili, conquistando cuori e menti che sembravano pulsare in tutt'altra direzione. I "predicatori d'odio" nostrani, da Oriana Fallaci a Giuliano Ferrara, da Marcello Pera ai deputati leghisti, trovano molte più orecchie disposte all'ascolto di quante un'intellettualità aristocraticamente appartata dal senso comune possa immaginare.
L'inadeguatezza ad affrontare con il patrimonio di conoscenza e di capacità critica necessaria il profondo rivolgimento in atto, nel privato come nel pubblico della nostra società, appare evidente nelle linee programmatiche con cui il centro-sinistra si presenta alla sfida elettorale.
Nelle "agende politiche" brillano per assenza proprio i temi su cui più si è dibattuto in questi mesi, le grandi trasformazioni che hanno portato allo scoperto corpi, sessualità, vita intima, legami famigliari, e mostrato l'incidenza sempre maggiore che sulle vicende esistenziali primarie vanno acquistando le istituzioni e i poteri della vita pubblica. Le analisi di sistema, le visioni più lucide sugli esiti della globalizzazione economica e del neoliberismo, con le loro implicazioni individuali e collettive, si leggono nei saggi di sociologi, antropologi, filosofi, ma, per la tradizionale separazione tra politica e cultura, tra militanza e ricerca universitaria, le semplificazioni propagandistiche si allontanano sempre più dall'elaborazione teorica. Anni fa, nel vivo di un appassionato corpo a corpo tra il movimento delle donne e la sinistra, pensai che a monte di tanta incomprensibile "afasia" su questioni che avrebbero dato una radicalità meno parolaia all'idea di "rivoluzione", ci fosse una sorta di "ascetismo rosso", di malcelato puritanesimo, di "pulizia razionale", contro l'inquinamento delle emozioni e dei drammi esistenziali. Oggi, di fronte all'evidenza che ha preso il rapporto uomo-donna sulla scena del mondo, per effetto dell'incontro-scontro tra culture diverse, ma soprattutto per il dubbio allarmante che la tradizionale dedizione femminile alla continuità della specie si stia allentando, sono portata a credere che si tratti invece dell'estrema resistenza di una maschera "virile" fatta più di passioni che di razionalità, di paure più che di certezze.
Inutile meravigliarsi se la Chiesa va a occupare il vuoto che si è aperto tra le persone, gli interrogativi, i disagi reali del vivere quotidiano, e chi dovrebbe farsene interprete e portavoce.
nel supplemento:
La scienza tra sacro e mercato
di Elena Gagliasso Luoni
Due opposti integralismi si scontrano: quello religioso e quello scientista, aumenta la distanza dalla collettività
La ricerca per progredire deve essere libera dai dogmi. Pena il suo stesso sviluppo. Oggi c'è questo rischio. Ma c'è anche un'altra sfida da affrontare: costruire un nuovo pensiero critico e autocritico. Costruire insieme un senso del limite.
Nei periodi di perdita delle progettualità ideali, si inserisce nell'immagine collettiva della scienza - così come nella politica e nel respiro esistenziale dei soggetti - l'esigenza di scorciatoie rassicuranti e di deleghe della vigilanza critica.
Due integralismi simmetricamente complementari attaccano quel pensiero aperto, che è la condizione indispensabile per fare ricerca.
Li chiameremo con nomi che possono non piacere, ma che servono ad inquadrarli su uno sfondo storico: da un lato la "regressione oscurantista", dall'altro lo "scientismo tardivo".
Nel caso della "regressione oscurantista", si rinnova oggi un esercizio di supervisione sulle coscienze e di censura che è proprio delle grandi religioni monoteiste. Fin dal ‘600, dalla nascita della scienza moderna con la rivoluzione copernicana, il mondo della ricerca scientifica ha affrontato anatemi e scomuniche. E giustamente: incarna per sua stessa necessità di metodo, per la spinta esplorativa libera e per il rapporto con la materialità del reale, la laicità dell'Occidente.
Ora, nel corso di quattro secoli i rapporti tra la conoscenza scientifica e il sapere religioso si sono snodati lungo una serie di fasi alternanti di maggiore o minore frizione. Ovviamente, nelle fasi storiche più integraliste la scienza, chiave della libertà del pensiero laico, è maggiormente sotto tiro. E oggi siamo nuovamente, come mostra la storia degli ultimi anni, dentro una di queste fasi.
Per ora il monoteismo che maggiormente ci concerne, su questo piano, è l'integralismo della chiesa cattolica e, nei Paesi anglosassoni, quello delle chiese evangeliche e protestanti. Entrambi entrano nel merito delle teorie evolutive biologiche e cosmologiche o delle possibilità di fare ricerca su embrioni. Il punto d'attacco non è quindi più la fisica astronomica di Galileo e Copernico (che è invece ancora rifiutata da alcune forme dell'integralismo islamico), ma la biologia.
Un attacco che negli Stati Uniti le chiese evangeliche e protestanti svolgono attraverso processi in tribunali per imporre nelle scuole l'insegnamento, non tanto del creazionismo, ma del "Disegno Intelligente" divino come motore dell'evoluzione della vita sul pianeta, cercando di sottrarre credibilità alla spiegazione della biologia evoluzionista.
Un'onda che dall'anno scorso è arrivata anche in Italia. Da noi però il nodo che si è stretto è stato sia teorico che pratico e politico. La società aperta, la politica partecipativa e la ricerca scientifica sono state messe in scacco, come ben sappiamo, attraverso la gestione e i risultati dell'ultimo referendum sulla procreazione assistita e l'uso delle staminali embrionali.
Ma è evidente che un referendum che fallisce su questi temi, così come la deriva antidarwiniana sui programmi scolastici ministeriali, non sono che l'ultimo temporaneo anello di una serie di passaggi di quello che possiamo indicare come il disincanto della laicità. Sono passi culturali e politici in senso lato che hanno progressivamente sovrapposto la gestione del consenso del "pubblico" (i consumatori, i fedeli) alla presa di conoscenza della comunità civile (il cittadino e la collettività).
Si tratta di capire allora come mai questo disincanto.
Dove scienza e società civile sono così fragili.
Il mondo di una fede solida non ha bisogno di entrare nel merito della scienza, come sostengono anche molti credenti e credenti scienziati. Se lo fa è anche perché trova spazio tra bisogni ed esigenze del sociale.
La delicata condizione di trapasso e compartecipazione all'alba della vita di un individuo e di distacco negli stati terminali, la ovvia inaccessibilità sperimentale delle origini della materia vivente sul pianeta, e quindi la sua ricostruzione inferenziale, l'impossibilità di esaurire ogni significato del reale con le sole teorie della scienza, sono tutti spunti agevolmente fatti propri dalla religione: temi ripresi a un nuovo livello, ma che prolungano una tradizione di legiferazione sull'essere e sul sapere millenaria. Ma se questo ritorno di parola dei grandi miti e delle autorità rivelate è possibile, se, come sembra, non trova ostacoli nel suo rinnovarsi, questo avviene anche per un vuoto, una sordità del pensiero cosiddetto "laico" nell'affrontare la polifonia dei significati della realtà, e contemporaneamente per l'eccesso di promesse "risolutive" dell'immagine prometeica che alimenta gran parte dell'immaginario scientifico. Tra questa immagine un po' trionfalistica e, diciamolo, "fideistica", divulgata e il reale quotidiano lavoro dei ricercatori c'è uno scarto notevole.
In particolare la pratica della ricerca scientifica, con le sue osticità per il senso comune e la sua scuola del dubbio, pratica la costante e necessaria messa in discussione delle teorie acquisite e funziona presupponendo una sorta di inesauribilità di ciò che è ancora incognito: il non-conosciuto, non il non-conoscibile.
Le "verità" della scienza non obbediscono quindi al principio di rassicurazione umana e sono per definizione autocorreggibili. Alcune delle rivoluzioni scientifiche più importanti, copernicana, darwiniana, freudiana, hanno minato la nostra centralità: nell'universo, tra i viventi e della nostra ragione cosciente. Se il ragionamento scientifico richiede una sofisticata preparazione e appositi codici linguistici, se ci mostra costantemente la limitatezza dei nostri sensi, la disposizione alla ricerca richiede piuttosto il coraggio della curiosità, proprio quello che abbiamo da bambini.
Invece il messaggio scientifico a livello comunicativo e mass-mediatico sembra essere complice e inversamente complementare dell'oscurantismo di ritorno religioso: si propone quasi come contro-fede, sotto forma di scientismo. Uno scientismo che è tardivo perché rispolvera oggi, dopo la complessa e ricca riflessione sociale e politica, fuori e dentro al mondo della ricerca, che ha attraversato la seconda metà del XX secolo, un modello scintillante dei destini progressivi delle conquiste della scienza.
Quello che ci siamo lasciati alle spalle, l'eredità del secolo scorso è infatti una eredità complessa: le domande politiche e filosofiche che sono comparse dopo la Seconda guerra mondiale, le domande sulla non neutralità della scienza, le domande sui rapporti e le implicazioni tra ricerca ed economia, l'attenzione critica alle ricadute delle tecnoscienze sulla società a molti di noi hanno fatto pensare alla possibilità di una scienza più matura. Il trionfalismo del positivismo proprio delle fasi della prima industrializzazione sembrava lasciasse il posto, anche a causa di esiti controversi, a una scienza più consapevole dei suoi limiti e capace di misurarsi con quello che sembrava un compito ineludibile: la messa a punto di una nuova etica della ricerca.
Come veri ostacoli alla libertà della conoscenza infatti si presentavano, non tanto le censure religiose, quanto la grave dipendenza dall'economia di mercato e dai suoi schemi. La situazione oggi è invece più intricata e compromessa.
Se infatti il libero pensiero laico è la condizione per poter fare ricerca scientifica, non si può negare che un attacco a questa "libertà" proviene dal fronte stesso della connessione sempre più stretta tra mercato e ricerca. Il ruolo dei brevetti, soprattutto quando sono applicati a prodotti biologici, farmaceutici, il peso delle grandi multinazionali all'interno degli apparati stessi dei diversi settori di ricerca, la segretezza competitiva per arrivare primi a scoperte assimilabili ad un prodotto, quella vera e propria ossessione della applicabilità e spendibilità di ogni ricerca, sembra essere il contrario della libera circolazione delle idee che alimenta la conoscenza, tanto che anche la differenza tra scienza pura e applicata sembra svanire. Queste sono solo alcune delle ragioni di massima di un'affanno nel difendere l'autorevolezza della scienza e i suoi valori di base.
Orientarsi in questo paesaggio ambiguo è ciò che ci tocca affrontare oggi e non è certo uno scherzo. Non è semplice né lineare trovare una sorta di consenso condivisibile sui diversi piani metodologico, etico, politico, tecnico che la ricerca scientifica richiede e che la conoscenza scientifica produce.
Resta, anzi cresce, la necessità di un pensiero scientifico critico - e, dove serve, autocritico - che si faccia carico di almeno tre fronti: la finalità della ricerca, le connessioni ricerca/mercato e la comunicazione. Della finalità delle scoperte, senza lasciare un vuoto in cui ritorna la sola parola del sacro, in particolare sul problema dei limiti precauzionali e della responsabilità sociale di quanto afferisce al vivente. Delle connessioni ricerca/mercato e delle ricadute economiche e sociali dei prodotti (tecnici, ma anche teorici) sull'ambiente in cui viviamo. Questo è uno stato di cose che non si rovescia certo, o perlomeno che non è compito dei soli ricercatori, ma che richiede di essere rimesso a tema con attenzione, sia da chi sta dentro al mondo della ricerca, sia da chi se ne occupa dall'esterno dei laboratori. Della comunicazione della scienza, e quindi dell'immaginario scientifico che ogni epoca costruisce tra ricercatori e comunità civile, e che oggi è nelle mani di pochi integralisti-scientisti (se mi passate il termine), che da tutti i palchi mass-mediatici ci raccontano di una scienza mirabolante, il cui futuro sembra la riproposizione del vecchio immaginario prometeico dell'Ottocento.
Lontano quindi dallo stato dei controversi problemi tecnologici, etici, sociali ed economici della ricerca di oggi, fideistico invece e così connivente con il potere del sacro, appannaggio proprio delle religioni.