domenica 11 gennaio 2004

gli USA sono la nazione più religiosa del pianeta

Il Sole 24 ORE
DOMENICALE dell’11.1.04
Perché la Nazione leader del mondo industrializzato è anche la più religiosa? Un paradosso destinato a durare
DIO SALVI L’AMERICA

Negli Stati Uniti ci sono, per abitante, più chiese, sinagoghe, templi o moschee che in qualsiasi altro Paese. Quando Bush invoca la protzione divina nella lotta contro l’asse del male, la maggioranza dei cittadini approva. E anche nel conflitto politico domina il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa. Come ai tempi di Toqueville.
La tragedia dell’11 settembre ha dato nuovo impulso alla spiritualità. Dall’aborto alla lotta contro il terrorismo.
di EMILIO GENTILE


È il paradosso più paradossale in un Paese di paradossi: alla fine del terzo anno del terzo millennio, gli Stati Uniti sono la nazione più religiosa fra i Paesi più industrializzati e più ricchi del mondo contempotaneo, Gli stessi studiosi americani riconoscono la «natura paradossale della religione americana», come la definirono nel 1993 i sociologi Barry Khosmin a Seymour Lachman nel loro studio sulla religione nella società americana contemporanea, dove dimostravano che, invece di declinare con l'accelerata modernizzazione della società, secondo le teorie della secolarizzazione, la religione negli Stati Uniti era rimasta «dinamica, creativa, e importante, cambiando e sviluppandosi continuamente». Dieci anni dopo, un'indagine del settimanale inglese «The Economist» (8 novembre 2003), ci fa sapere che più dell'ottanta per cento degli americani dichiara di credere in Dio; il 58 per cento pensa che una persona che non crede in Dio non può essere morale; quasi il quaranta per cento degli americani, fra i quali l'ex presidente democratico Jimmy Carter e l'attuale presidente repubblicano George W. Bush, dichiara di essere “Cristiani rinati" (born-again Christian), cioé sono credenti che hanno avuto una esperienza personale di riscoperta della loro fede in Cristo, che ha cambiato la loro vita e ne guida la condotta.
La presenza attuale della religione negli Stati Uniti, nell'eterogenea molteplicità delle sue manifestazioni, che comprendono tutte le principali religioni del mondo, ha un espressione vistosamente tangibile nella diffusione dei luoghi dì culto. Da un numero speciale dedicato alla religione dal settimanale americano «US News & World Report, Mysteries of Faith», pubblicato lo scorso novembre, apprendiamo che negli Stati Uniti ci sono, per abitante, più chiese, sinagoghe, templi e moschee che in qualsiasi altra nazione del mondo: un luogo di culto per ogni 865 persone.
Dalla stessa indagine apprendiamo inoltre che più di quattro americani su cinque dichiarano di aver vissuto l'esperienza della presenza di Dio o di una forza spirituale, e il 46 per cento afferma che ciò gli è accaduto più volte. «C'è un profondo desiderio di un ancoraggio spirituale, una fame di Dio», ha spiegato il professionista dei sondaggi George Gallup jr.
Il fenomeno della religiosità degli americani fa parte dell'"eccezionalismo americano” che affascina e inquieta gli altri popoli del mondo, compreso gli europei. La religiosità americana appare ancor più "eccezionale" se la confrontiamo con i dati sulla religiosità in altri Paesi ricchi e industrializzati del continente europeo. Secondo un sondaggio condotto dal Pew Forum on Religion and Public Life, alla fine dello scorso anno in 44 Paesi di tutti i continenti, il 59 per cento degli americani afferma che la religione ha un ruolo molto importante nella loro esistenza, rispetto al 33 per cento degli inglesi, al 27 per cento degli italiani, al 21 per cento dei tedeschi e all'11 per cento dei francesi.
Certamente, i dati attuali sulla religiosità degli americani riflettono i profondi sconvolgimenti emotivi provocati dall'attacco terroristico dell'11 settembre, che hanno dato un immediato impulso al risveglio del sentimento religioso collettivo. In quei giorni, le chiese furono affollate da fedeli spaventati e disorientati in cerca di conforto, di spiegazione e, disperanza di fronte al più tragico evento della. storia americana dai tempi della Guerra civile. Tuttavia, un anno dopo, la frequenza alle funzioni religiose era tornata ai livelli precedenti l'attentato terroristico, scendendo dal 47 al 42 per cento, come dimostrava un sondaggio, pubblicato da Pameal Paul nel settembre 2002 sulla rivista «American Demographic». Nel maggio 2001, il 57 per cento degli americani aveva risposto a, un sondaggio Gallup di considerare la religione «molto importante»; questa percentuale era salita al 64 per cento due settimane dopo l'11 settembre, ma nel maggio 2002 era scesa al 56 per cento.
Questo calo è forse dovuto alla naturale attenuazione dell'impeto emotivo provocato dalla tragedia dell'11 settembre. Non per questo si può dire tuttavia che sia diminuita l'importanza della religione nella vita e nella società americane. La religione, infatti, sta godendo negli Stati Uniti una stagione di notevole rigoglio e i suoi effetti appaiono evidenti sia nel nuovo impegno pubblico delle istituzioni religiose su questioni socialì e politiche, dall'aborto alla guerra contro il terrorismo, sia nel rinnovato impiego politico della retorica religiosa da parte del presidente Geor- ge W. Bush, che si è intensificato dopo la tragedia dell'11 settembre. L'attuale. risveglio religioso è un fenomeno nuovo, ma non, del tutto inedito, perché, si inserisce in un più lungo e ampio processo in corso da alcuni decenni nella vita americana, cioè il «ritorno della religione nella sfera pubblica», secondo, l'efficace titolo (Religion Returns to the Public Square), di una raccolta di saggi sul rapporti fra fede e politica in America, pubblicata quest’anno
Centosettanta anni fa, Alexis de Tocqueville osservava che la religione era la principale istituzione politica degli Stati Uniti, e questa osservazione per molti aspetti è valida ancora oggi. La repubblica stellata è sorta da una popolazione convinta di formare una nazione scelta da Dio per rigenerare l'umanità. Duecento anni dopo, gli Stati Uniti, professano ancora la loro fede in Dio e la proclamano in tutto il mondo attraverso il motto nazionale scritto sulla moneta da un dollaro: «In God We Trust». Milioni di americani credono ancora, come i Padri Fondatori, di essere un «popolo quasi eletto da Dio», come lo definì Abraham Lincoln, per realizzare il bene su questa terra. «La politica è in larga parte una funzione della cultura e al cuore della cultura americana c'è la religione», hanno scritto Kosmin e Lachman. Dai Padri Fondatori a oggi, la grande maggioranza degli americani ritiene che una democrazia non può vivere senza un fondamento religioso. Daniel Boorstin, uno dei maggiori storici americani contemporanei, ha scritto che «nella vita americana non sono importanti le religioni, ma la religione ha un'importanza enorme». La costituzione degli Stati Uniti ha sancito il principio della separazione fra stato e chiesa, che rigorosamente vieta al governo di sostenere ufficialmente qualsiasi religione mentre garantisce la libertà per tutte le religioni. Tuttavia, la simbiosi fra politica e religione è stata sempre una costante della società americana. «La separazione fra stato e chiesa è una cosa, la separazione fra religione e politica è tutt'altra cosa. Nella società americanano, in ogni epoca, religione e politica si incontrano continuamente, così è stato, così sarà. E come potrebbe essere altrimenti?» osservava nel 2000 Jean Bethke Elshteain, docente di etica a Harvard.
Nell'Europa secolarizzata, molti si scandalizzano se George W. Bush invoca la protezione di Dio nella guerra contro l'"asse del male", ma il 62 per cento degli americani lo approva, come rileva un sondaggio del Pew Forum fatto nell'estate di quest'anno, mentre il 41 per cento di loro affermano che i leaders politici parlano poco di religione, anche se la maggioranza degli americani è egualmente contraria al diretto intervento di qualsiasi chiesa nella competizione politica. Da George Washington in poi, tutti i presidenti della repubblica americana, in pace e in guerra, hanno invocato l'aiuto dí Dio per compiere il loro mandato. Nel discorso di accettazione della candidatura a presidente, nel 1992, Bill Clinton menzionò Dio sei volte.
Durante la campagna elettorale del 2000, entrambi i candidati alla presidenza, Bush e Al Gore, si professarono pubblicamente fervidi credenti in Cristo, e favorevoli al finanziamento pubblico delle attività sociali fatte da organizzazioni religiose. Al centro del dibattito attuale sul futuro della democrazia americana, nel confronto fra conservatori e liberali, che passa attraverso le divisioni politiche e le confessioni religiose, domina tuttora il problema della religione e dei rapporti fra lo stato, e la chiesa. E questo confronto avrà probabilmente un'influenza decisiva sulla politica interna ed estera degli Stati Uniti, qualunque sia il partito al potere. Il dilemma americano all'alba del terzo millennio è stato così riassunto da A. James Reichley nel libro Faith in Politics uscito lo scorso anno: la religione può essere un serio pericolo per la democrazia, ma può una democrazia esistere senza il sostegno di valori ispirati dalla religione? La soluzione del dilemma dipenderà in gran parte dalla trasformazione del pluralismo religioso negli Stati Uniti e dall'atteggiamento che le molteplici religioni assumeranno nella vita civile e politica.
Molti studiosi prevedono, comunque, che la religione continuerà ad avere un ruolo importante nella vita americana del terzo millennio, anche se va tenuto presente che, negli Stati Uniti, essa è un mosaico in continua trasformazione, dove tuttora predomina il cristianesimo, ma che tuttavia cambia continuamente, soprattutto per l'afflusso di immigrati che professano le più diverse religioni del mondo. Sta sorgendo una «nuova America religiosa», ha affermato di recente Diana L. Eck, professore di "Comparative Religion and Indian Studies", prevedendo che nel nuovo millennio, la diversità religiosa sarà il fatto più importante della diversità di origine etnica e nazionale.

espressione delle emozioni
ma certamente l'innatismo no...

Il sole 24 0RE Domenicale 11.1.04
Paul Ekman
Emozioni senza misteri

Alcune espressioni del volto sono universali: indicano con immediatezza gioia, ira, sdegno, sorpresa. A variare da cultura a cultura soo invece le regole e le convenzioni che ci inducono a mascherare sensazioni che proviamo o a simulare stati d’animo che non abbiamo. Come quando facciamo buon viso a cattivo gioco
di ARMANDO MASSARENTI


Paul Ekman forse non si sarebbe mai occupato di emozioni e di espressioni del volto umano, e dunque non avrebbe mai scritto Emotions Revealed, definito da Oliver Sacks il più completo e profondo libro sull'argomento dopo l'uscita, nel 1872, dell'Espressíone delle emozioni nell'uomo e negli animali, di Darwin, se non fosse stato per un paio di eventi del tutto casuali. A dimostrazione che la serendipity è sempre in agguato, pronta a dispensare i suoi benefici effetti laddove si manifesti una semplice condizione: la presenza di una mente portata per la ricerca, pronta a cogliere le migliori occasioni di conoscenza.
Nel 1965 l'Advanced Research Projects Agency del dipartimento della Difesa americano gli offrì un grant per studiare il comportamento non verbale nelle diverse culture. Egli però non ne usufruì, perché proprio in quel momento, a causa di uno scandalo relativo a un altro progetto di ricerca, si liberarono fondi assai più cospicui che dovevano essere comunque spesi. Ekman capitò per caso nell'ufficio dell'uomo che doveva decideme la destinazione, il quale aveva una moglie tailandese ed era fortemente impressionato dalle differenze di espressione tra lui e lei nella comunicazione non verbale. Chiese dunque a Ekman di trovare un modo per distinguere ciò che nelle espressioni umane è universale e ciò che è variabile culturalmente.
Erano tempi in cui nelle scienze sociali dominava il paradlgma, tuttora piuttosto influente, della tabula rasa. Tutto era appreso socialmente, tutto variava da cultura a cultura. Anche Ekman era di questa idea, e gli studiosi cui si rivolse per qualche consiglio, tra cui l'antropologa Margaret Mead e lo psicologo Gregory Bateson, la confermarono. Egli conosceva anche le tesi di Darwin - secondo cui non solo vi sono espressioni delle emozioni universali tra gli umani, ma ve ne sono di condivise anche da tutto il regno animale, grazie a un apparato muscolare facciale simile in diverse specie, a dimostrazione che l'uomo è parte del medesimo processo evolutivo - ma era convinto che fossero errate. Per puro caso - ecco il secondo colpo di serendipity - accadde che un lavoro di Ekman sui movimenti del corpo venisse pubblicato sullo stesso numero di una rivista in cui appariva un saggio sui volti di Silvan Tompkins. Questi sosteneva che vi sono espressioni facciali innate e dunque universali. Ekman rimase della sua idea, ma fu colpito dal fatto che, un secolo dopo Darwin, ci fosse ancora qualcuno impegnato a dimostrarne le tesi. Con l'onestà del buon ricercatore si propose di trovare un modo per verificarle. Mostrò una serie di fotografie a persone appartenenti a cinque culture diverse - Cile, Argentina, Brasìle, Giappone, Usa - chiedendo a ognuna a quale emozione corrispondesse una certa espressione. Il risultato era sorprendentemente, omogeneo, Darwin aveva ragione. Ma se bastava così poco per dimostrare l'universalità di certe espressioni perché tanti eccellenti studiosi sostenevano il contrario? Un allievo di Margaret Mead diceva che si era convinto che Darwin avesse torto quando aveva scoperto che ci sono società nelle quali la gente sorride quando è scontenta. Ma questo, sostiene Ekman, non dimostra affatto che tutto è appreso e culturale. Dimostra solo che esistono delle regole, variabili da cultura a cultura, che impongono certi modi di gestire le emozioni, esprimendole in tutta la loro purezza o mascherandole a seconda delle convenzioni sociali. Per esempio il perdente in una gara sportiva raramente manifesta l'emozione, tra l'arrabbiato e il deluso, che davvero sta provando. Le emozioni di base però sono le stesse. Gioia e dolore, paura e ira, sono comuni a tutti gli uomini.
Ekman ha cercato di dimostrarlo prima studiando i Fore della Nuova Guinea, poi catalogando i muscoli del viso, i loro movimenti e le espressioni che ne derivano. Ne è risultato un sistema codificato capace di identificare ogni muscolo del viso, e le migliaia di combinazioni di muscoli associate alle diverse emozioni. Quando gli individui cercano di simulare emozioni che non provano o di nascondere quelle che provano o quando invece si abbandonano ad esse, entrano in azione muscoli diversi. E questo accade per tutte le espressioni di emozioni individuate come universali: gioia, ira, paura, sorpresa, disgusto, tristezza, sdegno.
Prendiamo la gioia. Ekman ha scoperto che a quella autentica corrisponde una sola espressione del viso, uno solo dei 19 tipi di sorriso che la nostra muscolatura produce. È quello che prevede non solo che gli angoli della bocca siano rivolti verso l'alto, ma che si strizzino gli occhi in maniera che gli angoli producano delle piccole rughe, mentre le guance si sollevano verso l'alto. Ekman lo ha chiamato il «sorriso di Duchenne», in onore dello studioso che analizzò, nel 1862, il muscolo che circonda l'occhio, citato da Darwin e poi da tutti dimenticato. Si può distinguere un «sorriso di Duchenne» da un sorriso di circostanza, o da quello dei politici, o di chi fa buon viso a cattivo gioco, o anche da quello di un cinese arrabbiato. E possibile anche imparare a padroneggiare le espressioni del volto, e il lìbro di Ekman fornisce molti elementi per farlo. Ma non è una cosa semplice. Persino tra gli attori più famosi alcuni non ci sono mai riusciti, o forse vi hanno rinunciato fin dall'inizio. Di Clint Eastwood per esempio si dice che si sia specializzato in due sole espressioni: "con cappello" e "senza cappello".

Paul Ekman, «Emotions ReveaIed. Understanding Faces and Feelings», Weidenfeld & Nicolson, Londra 2003, pagg. 268, € 23,00

VITTORIO FOA

una segnalazione di Licia Pastore

La Repubblica 11.1.04
La lunga amicizia con "Bindi", le violente polemiche per l'ossequio a Mussolini, le ragioni dell'ostilità verso gli azionisti
Foa: "Perché Bobbio fa paura"
"Mi stupii quando dichiarò d'essere stato fascista"
intervista di SIMONETTA FIORI


FORMIA - «Sì, è naturale, la morte di Bobbio mi procura un forte senso di commozione, ma non provo dolore perché ripenso alla sua vita, un'esistenza piena, vissuta come dono agli altri, un rapporto col mondo positivo, al di là di ogni pessimismo». Nel clima mite di Formia, Vittorio Foa ripercorre l'amicizia d'una vita con quello stile che l'ha reso celebre, la parola lieve, il pensiero acuto e mai prevedibile, il magistero morale, la curiosità, lo straordinario ancoraggio alla vita. «Lo incontrai la prima volta al liceo d'Azeglio, ma lo conobbi meglio all'Università. Mi affascinava la sua grande serietà, ma anche il senso conviviale, l'inclinazione allo humour. Era capace di mettere nella conversazione quel tanto di ironia che rende accettabile i discorsi seri».
Che rapporto c'era tra voi?
«Da ragazzi la complicità alternava gravità e leggerezza, tra amori, tè danzanti, partite a tarocchi e molto cinema francese. No, non c'era una vera confidenza, però l'uno sapeva dell'altro, come succede nelle piccole comunità. Anche se avevo un anno di meno - lui del 1909, io del 1910 - ci laureammo insieme nel 1931, ma con una preparazione differente: io avrei imparato a studiare più tardi».
Eravate molto diversi, anche nel temperamento.
«Sì, senza dubbio. Io avevo un'attività cospirativa, che era tenuta in disparte. La mia era una passione politica invasiva che avvertivo come cosa molto diversa dalla sua passione per la scienza».
Non c'era attrito per questo?
«No, né emulazione né sfida tra i due tipi di esperienza. Non ho mai tentato di fare del proselitismo politico per indurlo a essere militante. Rispettavo la missione che aveva scelto, e viceversa».
L'antifascismo combattente era un mondo separato da quello di Bobbio?
«Sì, due realtà diverse, eppure unite da qualcosa. Questo qualcosa era la cultura antifascista, che è poi la cultura tout court: ossia la difesa dei valori civili minacciati dalla dittatura di Mussolini. Ciò che differenzia "Bindi" - così noi lo chiamavamo - è questo suo arrestarsi sulla soglia della militanza, nell'antifascismo come su altri versanti della vita: ma io lo interpreto come ricchezza, una ricerca mai appagata di se stessi».
Bobbio riconosce a lei, Foa, di averlo aiutato a uscire dal filofascismo della sua famiglia.
«Mi vedeva vivere in un modo diverso rispetto ai rituali famigliari. Entrambi abbiamo imparato che nella politica lo strumento decisivo è l'esempio: bisogna dimostrare con il comportamento quali sono i valori fondanti. Se penso all'attuale centro-destra, è nell'esempio l'aspetto più degradante e pericoloso: il motto proverbiale di questo governo è pensa a te stesso, che poi vuol dire lasciami fare. Ecco, un altro tratto che mi univa a Bobbio era il bisogno di eticità, ossia non permettere che le cose vadano in modo sbagliato».
Le vostre vite sono state diverse, anche nelle scelte rispetto a Mussolini. Il carcerato Foa ha mai provato un senso di superiorità?
«Ho una memoria precisa del come vedevo dal carcere i miei amici che avevano scelto una vita quieta. Ricordavo i distintivi fascisti all'occhiello delle loro giacche, ma soltanto per affermarne l'assoluta irrilevanza dal punto di vista morale: il distintivo era solo un'adesione formale per difendere il lavoro. Mai mi sono sentito superiore».
Ma Bobbio portava il distintivo del Pnf?
«Questo non lo ricordo, ma non è importante. La sua lettera al duce non mi scandalizzò: era un atto di legittima difesa da una violenza imposta dalla dittatura».
Quando nel 1992 fu pubblicata la lettera, lei con forza lo difese.
«Io la lettera la conoscevo da tempo, ma per discrezione preferii non farne cenno con "Bindi". Poi accadde un fatto curioso. Quando la missiva riprese a circolare, lo chiamai per assicurargli pieno sostegno. Ma la mia testimonianza sul comune sentire antifascista comparve sulla Stampa a fianco della sua singolare ammissione: sì, sono stato fascista. Ci rimasi male, non capivo perché si fosse abbandonato a una confessione non veridica. Lei crede che dopo tante partite a tarocchi, sempre nella stessa bottiglieria di via San Massimo e con persone come Franco Antonicelli, non mi sarei accorto del suo filofascismo?».
Ma perché Bobbio lo disse?
«Non l'ho mai capito. So però che era molto amareggiato. Poco prima che la lettera venisse pubblicata su Panorama, mi confidò al telefono: "Sento l'ombra dei passi spietati"».
La polemica fu violenta. Alcuni sospettarono che quell'aggressione a Bobbio mirasse a delegittimare la prima Repubblica nel suo Dna costitutivo, ereditato dall'antifascismo.
«Allora non interpretai quella polemica in chiave di congiura politica, piuttosto come esibizione giornalistica spregiudicata».
Ma come spiega che Bobbio sia stato oggetto di attacchi così virulenti?
«È l'azionismo che negli anni Novanta ha fatto paura a molti. Ricordo una polemica con Galli della Loggia su una radio svizzera. Ernesto sostenne che l'azionismo era pericoloso per la politica italiana e io dovetti spiegare ai funzionari della radio che il partito d'azione era morto da quasi mezzo secolo. Questo era il clima».
Ma perché faceva paura?
«Forse perché era una sorta di metafora della ricerca. Se l'essere umano cerca, è pericoloso; se ha già trovato, si sta tranquilli. Il partito d'azione significava cercare qualcosa».
Altra accusa rivolta a Bobbio è lo strabismo: critico verso il fascismo, indulgente verso il comunismo. Lei recentemente, in un libro-intervista con Carlo Ginzburg, ha dichiarato di essere stato ambiguo verso il comunismo sovietico, nel senso che preferì rimuovere alcune critiche pur di non essere isolato dai suoi compagni socialisti. Estenderebbe questa considerazione anche a Bobbio, o la riflessione è legata soprattutto alla sua esperienza di militante nel 1950 subalterno ai comunisti?
«Vorrei chiarire una cosa. Quel libro è stato strumentalizzato, nel senso che la mia riflessione è stata letta come confessione di un'inadempienza storica, mentre io fornivo un'analisi del perché in quegli anni la sinistra si disinteressasse quasi completamente dei dissenzienti in Urss. Il mio era un tentativo di storicizzazione ed è stato letto come un pentimento. Venendo a Bobbio: abbiamo mancato entrambi, ma cosa potevamo fare di diverso? Erano anni in cui bastava una parola per essere prigionieri della Cia».
Del temperamento differente abbiamo già detto. Diverso anche il modo di intendere la vecchiaia. Lei, Foa, il "De Senectute" bobbiano non l'avrebbe mai potuto scrivere.
«Lo scriverei in modo molto diverso. I caratteri si distinguono per la propensione alla felicità o l'inclinazione alla tristezza. In "Bindi", col passare degli anni, è prevalso il ripiegamento. Le confesserò che per molti anni mi sono sentito poco intelligente perché non riuscivo a pensare né a scrivere sulla morte. La questione su cui ci si concentra solitamente è il passaggio. Ecco, a me di quel passaggio, interessa soltanto il venire meno di quella cosa straordinaria che è la vita, non il qualcosa che deve ancora arrivare, perché non arriva proprio niente. Questa è la mia idea della morte: difendere quello che c'è, quel che si può».
Bobbio, in una sorta di ultima lettera, ha dichiarato di non sentirsi né ateo né agnostico.
«Su una questione così personale scelgo il silenzio».