domenica 20 luglio 2003

Giordano Bruno e Clemente VIII

Il Giornale Di Brescia 20.7.03
Luci e ombre nella biografia del pontefice
CLEMENTE VIII TRA GIORDANO BRUNO E LE RIFORME
di Raffaello Uboldi

All’alba del 17 febbraio del 1600 i romani videro un corteo preceduto da un uomo in catene e con la lingua bloccata da uno strumento detto «mordecchia», usato per impedire agli eretici di bestemmiare sul rogo. La processione si dirigeva verso la piazza di Campo de’ Fiori, dov’era stata allestita la pira. L’uomo in catene era Giordano Bruno, l’ex-frate domenicano arrestato nel maggio del 1592 su ordine dell’Inquisizione e condannato al rogo per eresia dopo un processo durato otto anni. Fra le accuse che gli erano state mosse c’era quella di essersi fatto portavoce del libero pensiero, anche in contrasto coi dettami della Chiesa, di aver sostenuto, in linea con la filosofia copernicana, ma addirittura superandola, la pluralità dei mondi e il dilatarsi all’infinito dell’Universo, e così via. Mentre Giordano Bruno moriva, il pontefice Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini, saliva la Scala Santa nell’ambito delle celebrazioni del Giubileo. Un Giubileo che riscosse molto successo, con un milione e duecentomila pellegrini affluiti a Roma da ogni dove, ottomila Messe celebrate in San Pietro e 200.000 fedeli presenti nel giorno di Pasqua alla benedizione papale. La morte di Bruno non aveva mutato in nulla i rapporti dei fedeli con la Chiesa. Del resto, vedere un eretico salire sul rogo era abbastanza consueto. Prima del frate domenicano, altri diciassette eretici - o presunti tali - erano stati condannati alla stessa pena durante quel pontificato. E pochi (o nessuno) erano a conoscenza delle parole gettate da Giordano Bruno in faccia ai suoi giudici: «Voi pronunciate la sentenza con maggiore paura di quella con la quale io l’ascolto». In seguito, col passare del tempo, le cose sono mutate: all’esaltazione della figura di Giordano Bruno si è unita, in parallelo, la condanna di Clemente VIII. Ma meritava davvero, quel Pontefice, un simile destino? È la domanda che si pone Rita Pomponio in un libro appassionante, dal taglio di un romanzo, anche se rigorosamente aderente ai fatti: Il Papa che bruciò Giordano Bruno (Piemme, 300 pagine, 18 €). La conclusione è che, a quasi quattrocento anni dalla sua morte - avvenuta il 5 marzo 1605 per emorragia cerebrale, - pochi conoscono appieno la figura di colui che fu «un grande pontefice», vissuto in uno dei secoli più tormentati per l’Europa e la Cristianità. Un uomo del suo tempo, certo; e questo spiega i roghi per eresia, le confessioni estratte con la tortura, i processi davanti al terribile tribunale della Santa Inquisizione, dove l’importante era arrivare a una condanna, capace di servire da monito agli spiriti ribelli, più che appurare la realtà dei fatti. Un Pontefice che era la guida della Chiesa, ma che al tempo stesso regnava su uno Stato minacciato dalle dottrine protestanti, dai Turchi alle porte e dalle rivalità tra i principi cristiani. È proprio tenendo conto di un orizzonte così burrascoso, che il pontificato di Clemente VIII viene esaltato per i traguardi raggiunti, dalla conquista del Ducato di Ferrara all’abiura - anche se per motivi certamente più politici che religiosi - di Enrico IV, convinto che Parigi, cioè il trono di Francia, valesse bene «una Messa»; dalla riforma della Chiesa, attuata sulla base dei decreti approvati dal Consiglio di Trento, all’avvio di nuove missioni in Oriente. Nel servire la Chiesa, questo Papa si avvalse spesso della collaborazione di un amico e confidente quale Filippo Neri, che molti anni prima gli aveva fatto questa predizione: «Un giorno sarai papa e ti chiamerai Clemente». Sostenne San Giuseppe Calasanzio nell’istituzione della prima scuola pubblica gratuita per i figli del popolo, l’unica allora esistente in tutta l’Europa. Un’attenzione particolare fu rivolta ai malati di mente, accolti nell’Ospedale di Santa Maria della Pietà con la raccomandazione che venissero loro prodigate «cure amorevoli al fine di recuperarli a una vita normale». Il Papa propose perfino di istituire una moneta unica in Italia. Introdusse pene severe per gli usurai, per coloro che divulgavano false notizie e per i criminali che lanciavano pietre contro le carrozze. Con eguale severità cercò di combattere il traffico dilagante di opere d’arte e i tombaroli che saccheggiavano i siti archeologici. Chiese ai giudici di accelerare i processi, per evitare agli imputati, specie quando la loro innocenza fosse ovvia in partenza, una lunga e ingiusta reclusione. Vietò ai magistrati, avvocati e carcerieri di accettare regalie dai detenuti. Stese di persona leggi molto rigorose per arginare la «cattiva abitudine», che si andava diffondendo fra i rampolli della nobiltà, di assassinare i genitori al fine di ereditarne i beni. Fu amico di letterati, fra i quali giganteggia la figura di Torquato Tasso. Preoccupato della condotta non proprio ascetica di tanti religiosi e della mancanza di disciplina nei conventi, fu il primo pontefice a compiere quelle visite che furono chiamate «pastorali». Insomma, Clemente VIII fu un pontefice che avrebbe meritato una maggiore stima fra i posteri. Se non fosse per quella morte sul rogo a cui condannò un uomo che ci ha insegnato che il diritto di pensare con la propria testa merita il sacrificio della vita.