domenica 20 luglio 2003

Gramsci, Togliatti, Stalin

il Tempo domenica 20 luglio 2003
Su Gramsci Stalin e Togliatti erano d’accordo
di RAFFAELLO UBOLDI

PER capire la complessa vicenda nei rapporti fra Gramsci, Togliatti e Stalin, occorre (al di là delle arrampicature sui vetri dei vari Canfora e Macaluso — lascio fuori dal mazzo, e spiegherò perché, Pons, direttore dell’Istituto Gramsci) tener presenti i fatti. E i fatti ci dicono che Gramsci, chiuso a Milano nel carcere di San Vittore, in attesa di comparire davanti al Tribunale Speciale, imposta così la sua linea di difesa: egli è comunista, ma da che è stato eletto deputato non si è più occupato del partito. Ed ecco, a smentirlo che gli arriva la lettera di un togliattiano di provata fede, Grieco (si badi, spedita per posta ordinaria, quindi a piena disposizione della censura) che lo qualifica come l’unico, riconosciuto capo del Pci. Gramsci non ha dubbi su chi gli abbia sparato nella schiena. Tanto è vero che in una lettera alla cognata, Tania Schucht, scriverà: «Chi mi ha condannato è stato un organismo più vasto, di cui il Tribunale Speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale che ha compilato l’atto legale di condanna». E più avanti: «Devo dire che tra questi condannatori c’è stata anche mia moglie, Julca, credo, anzi, sono fermamente convinto, persuasa inconsciamente, e c’è una serie di altre persone meno inconscie». Una riprova che Togliatti fosse dietro al complotto contro il suo grande avversario nel partito la si ha del resto nel dopoguerra, allorché nella prima edizione delle «Lettere dal carcere» di Gramsci, curata dallo stesso Togliatti (in collaborazione con Felice Platone) questa lettera non figura. Verrà pubblicata solo dopo la morte di Togliatti.
Questi i fatti; che adesso trovano conferma in un’altra lettera, quella che la cognata maggiore di Gramsci, Evgenia, e la moglie Julca, spediscono a Stalin attorno al 1940, con una serie di accuse, dirette o indirette, a Togliatti, fra cui quella di non aver fatto nulla per farlo riparare in Unione Sovietica, sottraendolo ai fulmini del regime fascista. Il direttore dell’Istituto Gramsci questa lettera l’ha trovata, e bene ha fatto a pubblicarla, scatenando le reazioni dei togliattiani a tutt’oggi più fedeli. In sintesi: chi non volle Gramsci a Mosca, Togliatti o Stalin? La questione è controversa, al punto da indurre gli estimatori di Togliatti (parrà strano, ma ce ne sono ancora) a sostenere una tesi che sembra contenere una parte di verità. Non aprendogli la strada di Mosca, Togliatti ha salvato Gramsci da un destino atroce, quello di finire davanti a un plotone di esecuzione, comunque in un gulag.
Che questa a Mosca sarebbe stata la fine di Gramsci, non c’è dubbio alcuno. In più di una occasione aveva condannato i metodi con cui Stalin governava il partito sovietico e la sua politica di guerra aperta ai socialisti, bollati come eretici, e perfino tacciati di «socialfascisti». Una politica che divideva la sinistra davanti a Hitler e Mussolini. Ma proprio per questo è difficile pensare che Togliatti abbia agito indipendentemente da Stalin nel decidere del destino di Gramsci. Fu un fedelissimo di Stalin, quando nella segreteria del Comintern controfirmò la condanna dei comunisti polacchi, in Spagna nelle epurazioni a sinistra contro trozkisti e anarchici. In Italia nel tentativo di svuotare dall’interno la democrazia del dopoguerra, pur aderendovi formalmente. Fu con Mosca durante la repressione a Budapest (ricordiamo l’episodio, narrato da Ingrao, del brindisi all’intervento sovietico). Insomma: un fedele non privo di risvolti opportunistici, se la Madre Russia glielo chiedeva. Gramsci gli stava bene in galera in Italia: se non gli aprì la strada di Mosca fu solo perché Stalin non glielo chiese. Quello Stalin per cui una galera valeva l’altra, incapace perfino di concepire che da noi potessero essere diverse.
Diverse rispetto a quelle sovietiche, pur nel quadro di una dittatura. Con un carcere, quello di Turi, che carcere pur sempre era, ma per malati cronici. Con la possibilità per Gramsci di morire non in cella, ma nella clinica Quisisana di Roma; per la cognata Tania e per l’economista Sraffa, con la possibilità di salvare i suoi documenti (i «Quaderni», o le «Lettere dal carcere»), che nessuno in Italia provvide a sequestrare, come accadde nella Russia staliniana per gli scritti di Trotzky o di Bucharin. È in questo quadro che la lettera di Evgenia e di Julca a Stalin assurme soltanto un’importanza temporale. In una Russia dove ciascuno doveva piegarsi al rito dell’accusa, le due donne fecero quanto gli si chiedeva, perfino disegnando il ritratto di uno Stalin migliore di Togliatti, quando nella realtà i due filavano di comune accordo. La prova? Il fatto che Togliatti sia uscito indenne dalle purghe che pure avevano travolto tante figure in posizioni simili alla sua.