sabato 4 ottobre 2003

Inaugurata a Siena la mostra su Duccio di Buoninsegna

Corriere della Sera 4.10.03
L’uomo che trasformò la Madonna nell’orgoglio della città
di Omar Calabrese


Duccio di Buoninsegna è molto più di un grande artista per Siena e per i senesi. Lo testimonia il fatto che ancora oggi molti cittadini del capoluogo toscano hanno il suo stesso nome di battesimo. Il quale - fatto curioso - è il diminutivo di Guido, nobiliare germanico da Wido, «colui che viene da lontano», e si trasforma in nome popolare. Duccio, insomma, è un vero e proprio simbolo della città, alla pari, forse, soltanto con Ambrogio Lorenzetti e con Simone Martini. La ragione è molto semplice: proprio questi tre hanno realizzato i tre massimi segni di riconoscimento della «senesità» storica, e cioè la «Maestà» che fu nel Duomo (Duccio), la «Maestà» affrescata nel Palazzo Pubblico (Simone), il ciclo del «Buono e cattivo governo» (Ambrogio). Vale la pena segnalare, allora, come mai si tratti di simboli, e non, «banalmente», di capolavori artistici. La Maestà di Duccio fu eseguita con molta probabilità per celebrare il cinquantesimo anniversario della battaglia di Montaperti, che decretò la grande e liberatoria sconfitta dei nemici fiorentini, che pure erano superiori per forze. I senesi, prima di quello scontro, offrirono alla Madonna le chiavi della città con una cerimonia rimasta famosa addirittura un secolo e mezzo dopo, almeno a stare agli scritti dei cronisti, e legarono per sempre la Repubblica al culto della Vergine. Non a caso, i due Palii di luglio e di agosto sono a lei dedicati, sia pure nelle versioni della Madonna di Provenzano (a cui è offerta la seconda basilica senese e che è la protettrice dei derelitti) e della Madonna dell’Assunta (cioè proprio quella del Duomo). Si pensi che, quando Duccio ebbe terminato la sua opera, fu organizzata addirittura una processione notturna per accompagnarla nella cattedrale e vi parteciparono migliaia di persone. Il Comune, quasi imbarazzato per non essere committente della grande pala, offrì un numero gigantesco di candele alla cittadinanza per illuminare l’evento. Oggi, nel resto del mondo occidentale, è più facile che ciò accada per un concerto rock. La «Maestà» di Simone viene eseguita subito dopo l’altra e questa volta è il Comune a ordinarla, probabilmente con il medesimo intento celebrativo, e magari con un pizzico di rivalità con la Chiesa rispetto alla precedente iniziativa e l’accentuazione di qualche tema più «civile». Quanto al Buono e cattivo governo, leggermente più tardo, siamo invece giunti alla sanzione totale dei valori della pubblica amministrazione. La fama popolare di Duccio risiede, dunque, nella sua capacità di risvegliare l’orgoglio dell’appartenenza alla città e attraversa classi sociali e differenze culturali. Non a caso, sono numerosi i Comuni del circondario che rivendicano di essere stati il suo «vero» luogo di nascita (un po’ come è accaduto per Dante e per Colombo). E molto spesso gli artisti moderni che hanno eseguito il Palio a partire dal 1969 hanno sentito il legame di cui si diceva e hanno inserito citazioni duccesche nelle loro opere (da Valerio Adami a Joe Tilson, per arrivare all’ultima, quella di Andrea Rauch in agosto, che però era stata ufficialmente dedicata al pittore medievale). Chissà, magari si tratta un sentimento reciproco, visto che proprio Duccio sulla sua pala volle scrivere
«Madre santa di Dio, sii origine di pace per Siena e sii vita per Duccio, che così ti ha dipinto».

L’ETÀ DI DUCCIO DOPO LA VITTORIA CONTRO I FIORENTINI A MONTAPERTI, L’UMILIAZIONE A COLLE VALDELSA
Siena fastosa anche sul viale del tramonto
di Franco Cardini


Abbiamo chiesto allo storico Franco Cardini un intervento sulla Siena all’epoca di Duccio

Le mostre, anche le belle mostre, in Toscana non sono una novità. Anzi, sono più la regola che l’eccezione. «Il sogno della Regione genera Mostre», si dice da noi parafrasando una celebre massima che il grande Goya ha reso davvero immortale: e lo si dice scherzosamente, ma per onorare la sensibilità del nostro governo regionale, che avrà mille difetti ma a questo particolare aspetto della cultura toscana è molto attento. Anche della «produzione» culturale, dell’«industria» culturale (e quindi turistica), del business, d’accordo. Insieme col vino e l’olio, il panorama e le bellezze artistiche sono il nostro petrolio. Lo dico da toscano orgoglioso d’esserlo, e in particolare orgoglioso delle origini senesi della famiglia di mia madre e del mio cuore di vecchio «ocaiolo», discendente da contradaioli sfegatati della Nobile contrada dell’Oca. Perché questa mostra dedicata a Duccio di Buoninsegna, e non solo all’arte di Duccio, ma anche alla sua Siena, mi ha davvero riempito di commozione.
Ma le cose belle son come le belle donne: spesso tradiscono. Nella fattispecie, il visitatore anche colto, abbagliato dagli ori e dagli azzurri di Duccio (nato a Siena nel 1255, morto fra 1318 e 1319), potrebbe fraintendere qualcosa, forse molto, a proposito della storia dell’ambiente in cui il nostro pittore fu chiamato a produrre le sue opere più celebri e più mirabili.

Quel che in Duccio colpisce, oltre alla finezza del disegno e allo splendore cromatico, sono cose: la capacità di sintesi tra classicismo appena ritrovato, l’accoglimento e l’elaborazione della tradizione sacra d’origine bizantina e orientale, l’attenzione alle nuove voci gotiche in parte provenienti d’Oltralpe, in parte autoctonamente elaborate. Il pittore è, in altri termini, testimone straordinario d’un’epoca e di una città non meno straordinarie, un autentico quadrivio di culture diverse che qui si confrontavano e si fondevano. Forse, a quel tempo, solo Venezia, Napoli e Parigi potevano starle alla pari nel mondo occidentale: non più Palermo, non ancora Firenze. Eppure - e ciò conferisce un senso speciale a un certo velo di malinconia che sembra ombreggiare talora le Madonne e i santi di Duccio - la minaccia era in agguato e già se ne scorgevano i segni.
«Cor tibi magis Sena pandit», Siena ti apre ancor più il suo cuore. Questa superba e generosa iscrizione latina saluta ancora i forestieri che, arrivando da nord, passano sotto Porta Camollia. La città si espandeva ancora di più, proprio al tempo di Duccio e si dotava di nuove, poderose mura in quell’inimitabile rosso che solo il mattone senese possiede e che tanto ben si armonizza con il bianco-bigio del travertino. La città di allora portava il sigillo indelebile dei suoi governanti espressione della grande «borghesia» mercantile, i magistrati uniti sotto la denominazione di «Monte dei Nove». Il governo dei «noveschi» si era avviato nel 1292 e sarebbe continuato fino al 1355: in quel lungo periodo si realizzarono Palazzo Pubblico e alta Torre del Mangia, si sistemò la Piazza del Campo, si razionalizzò la rete degli acquedotti e delle splendide fontane (l’acqua, croce e delizia di Siena...), si avviò la costruzione del nuovo duomo che non sarebbe mai stato portato a termine, si lastricarono alcune strade, si costruirono o si abbellirono anche taluni palazzi privati delle grandi famiglie come i Tolomei e i Piccolomini.
Tuttavia, il destino di Siena era già segnato: solo il ceto dirigente senese, opulento e amante del lusso (perfino dello spreco) fingeva di non accorgersene. «Gente vana» definisce Dante i senesi. Gente che sprecava autentiche fortune in feste e giochi, che immaginava ciclopiche realizzazioni urbane, che - poverissima d’acqua: e ciò le impedì sempre di sviluppare una manifattura laniera fiorente - spendeva capitali nel vicino porto di Talamone sfidando la calura estiva e i miasmi della Maremma e figurandosi già, per questo, futura signora del mare com’era stata Pisa, ormai in decadenza.

La gloria di Montaperti, nel 1260, aveva abbagliato i senesi. Era venuta nove anni dopo, nel ’69, l’umiliazione di Colle Valdelsa; e, puntuale, la crescita dell’egemonia fiorentina alla quale Siena si era dovuta adattare. Ghibellina orgogliosa e ostinata, come i senesi d’oggi amano ancora immaginarla («Montaperti c’ero anch’io» proclamano gli adesivi da auto e da motorino), aveva dovuto accettare di darsi un governo guelfo moderato. L’alleanza di ferro tra Firenze, il papato e la dinastia angioina di Napoli l’aveva messa in ginocchio. I mercanti-banchieri senesi s’erano fatti ricchi, tra XII e XIII secolo, commerciando una delle merci più ambite nel Mediterraneo del tempo: il danaro. Ma la loro pur buona moneta d’argento era stata surclassata, nella seconda metà del Duecento, dal fiorino di Firenze e poi dal ducato di Venezia, rispettivamente coniati nel 1252 e nel 1282: monete d’oro che aveano rivoluzionato il mercato internazionale affiancandosi al «dollaro del medioevo» (come lo ha chiamato Roberto S. Lopez), il bisante di Costantinopoli ormai in crisi (e imitato dalle potenze musulmane). I banchieri fiorentini si erano sostituiti ai senesi come collettori delle «decime» pontificie, le tasse pagate alla Chiesa e che confluivano a Roma.
Siena era perduta. Avrebbe tuttavia continuato ancora per oltre due secoli, fino al 1555, a tener alta la sua indipendenza da Firenze. Il suo tramonto era cominciato all’indomani della battaglia di Colle: ma fu un tramonto splendido, luminoso, ricco al pari dell’oro delle tavole di Duccio e dei profumi e sapori di spezie che si sprigionavano dai suoi inimitabili dolci. Di tutto questo il pittore delle più belle Madonne di tutto il medioevo - c’è un forte e misterioso feeling tra Siena e la Vergine Maria - è il mirabile testimone.

La vita di Duccio

1255 Non si conosce l’esatto anno di nascita del pittore, tuttavia gli studiosi sono concordi nel collocarlo tra il 1250 e il 1260. Secondo il Milanesi e molti altri esperti, il 1255 rappresenta una data verosimile.
1278
Il nome di Duccio si trova per la prima volta in un documento del Comune di Siena, dal quale risulta che l’artista ha raggiunto la maggiore età perché è in grado di riscuotere i pagamenti per i lavori eseguiti.
1280
Risale a questo periodo la prima delle numerose multe che il Comune infligge al pittore. I documenti non specificano quale fosse la trasgressione ma solo l’importo (100 lire) per cui si ritiene che fosse riferita a qualcosa di importante.
1285
Il 15 aprile, la compagnia dei Laudesi della chiesa di Santa Maria Novella gli commissiona una grande tavola dedicata alla Madonna, pertanto il Maestro si reca a Firenze. Una volta rientrato a Siena, nello stesso anno, esegue la «Madonna col Bambino e gli Angeli», nota come «Madonna Ruccellai» ora agli Uffizi.
1288
Esegue la vetrata dell’occhio dell’abside del Duomo di Siena.
1295
Duccio è l’unico pittore che fa parte della commissione per decidere la località in cui erigere la Fonte Nuova o Fonte Ovile.
1299
Multa di 10 soldi per «essersi rifiutato di giurare agli ordini del capitano del popolo».
1308
Jacopo de Marescotti gli commissiona la tavola per l’altare Maggiore del Duomo di Siena.
1311
La Maestà, l’opera più famosa del Maestro, viene trasferita il 9 giugno dalla bottega di Duccio in località Stalloreggi al Duomo.
1319
Duccio muore durante l’estate. Il 3 agosto, davanti al notaio ser Raniero di Bernardo i 7 figli rinunciano all’eredità, gravata da numerosi debiti.