mercoledì 8 ottobre 2003

La coerenza immobile di Emanuele Severino:

Giornale di Brescia 8.10.03
SEVERINO: SE IL DIVENIRE È UNA FOLLIA
di Alberto Ottaviano


La fede nel «divenire», nel «diventare altro», che è il tratto comune di tutta la storia occidentale, la convinzione che regge la nostra fiducia nelle possibilità di progresso, è qualcosa di fondato o è piuttosto una follia estrema, una cieca credenza che non può giustificare la storia dell’uomo? Alla fine di una conversazione tenuta su toni alti, che ha messo certamente a dura prova l’attenzione di almeno una parte del pubblico che gremiva ieri pomeriggio ogni angolo del San Barnaba, Emanuele Severino è tornato sul cavallo di battaglia del suo pensiero espresso in tanti libri di successo: la convinzione che la fiducia nel divenire sia l’errore fondamentale, una sorta di peccato di origine, che ha guastato il pensiero occidentale. Al noto filosofo bresciano era affidata la relazione introduttiva che ha aperto il nuovo ciclo dei "Pomeriggi in San Barnaba", dedicato all’«Eterno ritorno del mito» (curato anche questa volta da Antonio Sabatucci, presente sul palco assieme al sindaco Paolo Corsini). Dunque la nuova serie di incontri - a giudicare dal foltissimo pubblico di ieri, parte del quale ha dovuto restare in piedi - prende il via sotto i migliori auspici. Segno che l’indagine sulle origini dell’Occidente, avviata due anni fa con questi Pomeriggi parlando di Nuovo e di Antico Testamento, incontra la voglia di riflessione dei bresciani anche quando si rivolge alle sorgenti greco-classiche della nostra civiltà. Corsini, introducendo l’incontro, ha ricordato che il mito greco pone questioni di estrema attualità: come il conflitto tra legge della coscienza e legge della città che ha travolto Antigone (ne parlerà Gustavo Zagrebelsky il 4 novembre), o la necessaria responsabilità verso i padri assieme alla preoccupazione per i figli richiamate dalla figura di Enea (sarà il tema della conversazione di Roberto Esposito il 9 dicembre). Severino parlando di grecità classica gioca in casa: è da qui infatti che parte la sua filosofia. Passando dai miti delle origini (da quello del Caos e di Urano a quello di Prometeo) ai grandi tragediografi greci, citando le antiche religioni e le similitudini tra le diverse lingue classiche, il filosofo ha ricordato come abitualmente si pensi all’uomo come a un viandante che si muove sulla linea del tempo (sia che si tratti del tempo ciclico della primitiva sapienza mitica dove tutto ritorna, sia che si tratti del tempo lineare dell’uomo occidentale dove la storia è sempre nuova). Quest’uomo-viandante diventa «altro», si immedesima in qualcosa d’altro, diventa potente soprattutto mangiando. E mangiare, come esemplificano tutti i miti greci, è soprattutto cibarsi di Dio. Il cibo insomma è l’immedesimazione nell’altro che è Dio (così è, pur nei suoi diversi significati, anche per l’Eucaristia cristiana). Pure nella Bibbia il «mangiare la mela» viene presentato come la possibilità di diventare come Dio; il Dio dell ’Antico Testamento blocca questo tentativo cacciando Adamo, ricorda Severino; ma il Nuovo Testamento, secondo la fede cristiana, risolve il tentativo fallito perché Cristo conclude la creazione portando tutti gli uomini in Dio. Nel mito greco l’avvicinamento tra gli dèi e l’uomo trova il suo culmine in Dioniso, il dio straniero per il quale non ci sono limiti. E’ una mancanza di limiti nel divenire dell’uomo - ricorda Severino toccando un altro punto forte del suo pensiero - che può essere vista come una sorta di anticipazione dello stato in cui si trova la tecnica di oggi, un potere senza più un sapere che ne detti i confini. E’ Prometeo per i Greci colui che con il furto del fuoco (padre di tutte le tecniche) tenta di annientare gli dèi, di immedesimarsi in essi. Ma Prometeo fallisce, perché le sue tecniche cresciute nel mito sono più deboli della nuova sapienza ora necessaria all’uomo: la filosofia, che trova la propria stabilità in Dio. Dunque la Grecia, terra del mito, è anche il luogo in cui il mito muore, sottolinea Severino, del quale ci è ovviamente impossibile riferire tutti passaggi. E alla conclusione del suggestivo discorso sul divenire ritenuto dall’Occidente il motore dell’uomo, il filosofo lancia la sua provocazione cui accennavamo all’inizio, pur evitando di fare apodittiche asserzioni: questo concetto di «diventare altro» ha spalle sufficientemente larghe per reggere l’intera storia? O non è forse una folle convinzione? Se così fosse, l’essere sarebbe un «essere eternamente in compagnia di tutti gli altri eterni».

Brescia Oggi 8.10.03
Severino: «Ecco il mito che ritorna sempre»
di Nino Dolfo


(...)
I miti, nella nostra contemporaneità, continuano ad essere narrati ed elaborati, a riprova della loro duratura eredità e straordinaria modernità». «La Grecia e il mito» era il tema cui era stato invitato a conferire Emanuele Severino, una sorta di premessa propedeutica al ciclo. Sempre affascinante nel tessere il suo pensiero con chiose glottologiche e riflessioni illuminanti, il filosofo è entrato subito nel vivo. «Al di sotto del tempo ciclico o lineare - ha detto - c'è una comune identità. Il tempo è un procedere innanzi che diventa qualcosa di diverso da ciò che il viandante era prima di diventare». Il diventare altro è l'aspirazione che sta alla base del mito e della cultura occidentale. E si diventa altro, mangiando, bevendo, camminando, uccidendo. Analizzando le radici indo-europee di alcune parole (cibo, felicità, dio, festa), che hanno la stessa origine, Severino ha affermato che le antiche mitologie e alcune religioni (vedasi l'eucarestia nella tradizione cristiana) rimandano tutte al tentativo dell'uomo di «indiarsi», mangiando Dio, che viene smembrato. Ovvero l'uomo si ciba di Dio in modo da identificarsi con la sua suprema potenza. Fa eccezione l'ebraismo, in cui (la punizione di Adamo) c'è una resistenza a che l'uomo si immedesimi con Dio. Nel mito greco invece il tentativo fallito della divinità di farsi raggiungere e incorporare dall'uomo viene risolto dalla figura di Dioniso, il dio che spinge le Baccanti «al senza limite».
Severino si è poi soffermato sul mito di Prometeo, che rappresenta la morte del mito. Prometeo ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, si impossessa della radice della potenza, perché il fuoco è la matrice di tutte le tecniche. Il furto di Prometeo è il tentativo di annientamento degli dei. Lui dice di odiare gli dei, ma nel contempo ammette di avere sbagliato. Con Prometeo il «diventare altro» si perpetua all'interno di un sapere che non è più quello del mito, ma che già sta ad indicare una sapienza diversa, che è quella della filosofia.
Il divenire altro, ha concluso Severino, spinge tutta la cultura dell'Occidente, ma questa verità scontata va vista con sospetto. Doveroso porsi una domanda: forse questa è invece la follia estrema. Forse la non follia sta nell'essere in sé in compagnia degli altri. Su questo interrogativo grave come un ammonimento, che richiama in causa Eraclito e Parmenide, anche se i loro nomi non sono stati mai proferiti, il pubblico è stato invitato a meditare. Scrosciante e prolungato l'applauso, a riprova del gradimento del buon consiglio.