(qui di seguito la lettera di Paolo Izzo al prof. Paolo Rossi pubblicata oggi, la risposta di quest'ultimo apparsa anch'essa oggi, e la recensione del 28.9 alla quale questo carteggio si riferisce)
la lettera pubblicata oggi:
Egregio Paolo Rossi,
dal momento che Lei accenna alle “timide riserve” concesse ai “non specialisti”, mi permetto di proporLe un punto di vista intorno al Suo commento del libro di Luciana Repici e non, come sarebbe più ovvio, intorno al libro stesso. Anzi, Le dirò di più: non leggerò il saggio in questione soprattutto perché è stato Lei, Suo malgrado(?), a sconsigliarmelo.
Innanzitutto per parlare di sogni non ha utilizzato mai la parola “inconscio”, ripiegando su un’anima… buona per tutte le stagioni! Delle due l’una: o questo semplice termine non è proprio presente nel testo di Repici oppure Lei non si è lasciato andare abbastanza, rimanendo su un piano tutto razionale (il che, per l’onirico, non va bene).
Secondo, non mi ha mai sedotto l’idea di Platone circa l’invio dei sogni da parte di un dio, né quella di Aristotele per cui sarebbero “demonici” gli influssi che inducono a sognare: le considerazioni a proposito degli animali essendo ancor più fuorvianti dal momento che nessun animale ha mai dichiarato di aver fatto un sogno! Non mi lascio ingannare dal Suo riferimento alla pratica dell’incubazione per colmare “la distanza che ci separa dal mondo antico”, né mi intimidisce l’accenno all’immancabile Freud e a come egli sia rimasto affascinato dall’affermazione di una sostanza demonica della natura: che cosa aspettarsi da uno che considerava il neonato come un perverso e l’inconscio come un mondo inconoscibile?
In ultimo, non riesco a concordare con chi alluda ai sogni come a qualcosa di dipendente dal caso, ossia da cause accidentali e indeterminate”, lasciando credere che causale è uguale a casuale…
Credo, piuttosto, che lo studio della psiche umana non abbia fatto e non faccia grandi passi proprio perché si porta dietro questi concetti vetusti e astrusi (che Freud in primis ha avallato e enfatizzato)!
Fino a quando si parlerà dei sogni come qualcosa che arriva dall’ultraterreno; fino a quando l’inconscio rimarrà uno strumento perverso nelle mani di una natura demonica, preda di visioni, divinazioni e cause accidentali; fino a quando si preferirà credere che i sogni siano buoni soltanto per giocare i numeri al lotto, allora la psichiatria rimarrà nelle sabbie mobili dell’impotenza.
Per contro, preferisco stare con chi considera i sogni come immagini che nascono nell’inconscio - prerogativa dell’essere umano - e che sono il frutto dei rapporti interumani.
Paolo Izzo
la risposta di oggi del prof. Paolo Rossi:
Egregio Paolo Izzo,
la ringrazio molto per il suo intervento e le dico subito che sono del tutto d’accordo con la preferenza che lei esprime al termine della sua lettera. La sua scelta finale è anche la mia. Tra la convinzione che i sogni arrivino dall’al di là e servano per giocare al lotto e, all’opposto, la convinzione che si tratti di immagini che nascono nell’inconscio, anch’io non ho dubbi e decisamente e senza tentennamenti “preferisco stare” con coloro che sostengono quest’ultima tesi. Sia detto fra parentesi: avrei qualche dubbio solo sull’espressione finale «e che sono il frutto dei rapporti interumani». Non credo infatti che allo stato attuale delle nostre conoscenze sui sogni si possa senz’altro affermare che quelle immagini siano sempre e comunque espressione o frutto di quei rapporti.
Sul resto della sua lettera cercherò di esporre il mio punto di vista. In primo luogo mi dispiace di aver distolto qualcuno dalla lettura di Aristotele. Perché il libro di cui ho parlato sul Sole-24 Ore è stato scritto da Aristotele e non da Luciana Repici che lo ha tradotto, annotato e introdotto. Lei mi critica per non aver mai usato la parola inconscio e per aver «ripiegato» sul termine anima. Quando ho usato questa parola, l’ho fatto in un contesto che diceva: «Platone pensa che nel sonno l’anima percepisce cose che non sapeva prima eccetera». Perché mai avrei dovuto usare il termine inconscio per dire che cosa pensava Platone? La nozione di inconscio si affaccia nella storia della filosofia a partire da Leibniz e diventa esplicita con Schelling e i filosofi e gli scienziati del Romanticismo. Fra Platone e Leibniz intercorrono venti secoli ovvero duemila anni. Credo che molte delle sue impressioni negative nascano da un equivoco che dipende (sono senz’altro disposto a riconoscerlo) da insufficiente chiarezza da parte mia.
Debbo tuttavia correggere un punto: non ho mai parlato della pratica dell’incubazione «per colmare la distanza che ci separa dal mondo antico». Al contrario. Ho infatti scritto che, se pensiamo a quella pratica, «giungiamo a percepire la incolmabile distanza che ci separa dal mondo antico». Tutta la prima parte della mia recensione non parlava del testo curato da Luciana Repici, ma era precisamente diretta a chiarire questo punto. Voleva servire a dare a un lettore non specialista in psicologia o in storia antica, il senso di una distanza. Chiarivo che nel nostro passato (nonché in molte altre civiltà) i sogni sono stati interpretati non come fatti privati o espressioni di una coscienza singola, ma come racconti che contengono verità o previsioni. Per questo avevo accennato a Ernesto De Martino (un autore di cui Repici non parla) e alla sua definizione della nostra civiltà come una «civiltà della veglia». Tra i padri fondatori della civiltà della veglia va annoverato proprio Freud (sul quale, probabilmente, abbiamo idee molto diverse). Freud scrisse: «Il sogno è un prodotto psichico assolutamente asociale; non ha niente da comunicare ad altri; sorto all’interno di una persona come compromesso tra le forze psichiche che vi si combattono, resta incomprensibile anche a questa persona e pertanto è privo di qualsiasi interesse per gli altri».
Un conto è leggere un nostro contemporaneo e un altro conto è leggere un testo del passato. Quando leggiamo Platone o Aristotele o un altro classico dobbiamo sapere in anticipo che vi troveremo affermazioni molto distanti dal nostro modo di pensare e anche affermazioni che ci colpiranno per la loro inattesa attualità. La storia nasce dalla curiosità di sapere da dove vengono le cose che pensiamo e di capire che molte cose pensate sono state poi abbandonate. Serve a dare, insieme, il senso della distanza e della vicinanza. Come aveva capito molto bene René Descartes assomiglia molto al viaggiare in un Paese straniero. Ma viaggiare non è obbligatorio e si può egregiamente vivere anche senza aver mai letto un testo di Platone o di Aristotele.
Paolo Rossi
la recensione del 28.9 alla quale il carteggio precedente si riferisce:
STORIA DELLE IDEE / Quando i sogni erano veri
di Paolo Rossi
“Domenica” de Il Sole 24 Ore – 28 settembre 2003
Quando, nel sogno di Penelope, l’aquila (che è il simbolo di Ulisse) piomba sulle oche (che sono il simbolo dei Proci) e le stermina, è indubbio che né l’autore di quei versi, né il lettore facevano riferimento a processi soggettivi presenti nella mente di Penelope. La nostra, diceva Ernesto De Martino, è una civiltà della veglia. Siamo così fortemente abituati a pensare al sogno come espressione di una coscienza singola, a considerare i sogni un fatto privato che facciamo fatica a renderci conto del fatto che non solo il sogno di Penelope, ma innumerevoli altri sogni, in un passato non troppo lontano e all’interno di una straordinaria pluralità di culture, furono concepiti come racconti che contengono verità o attendibili previsioni di eventi futuri. I sogni, come è scritto nel settimo dell’Eneide consentono di entrare a colloquio con gli dèi e di interrogare Acheronte nel profondo Averno.
Giungiamo a percepire la incolmabile distanza che ci separa dal mondo antico se pensiamo alla pratica della incubazione che ha remotissime origini e si diffuse in Grecia a partire dalla fine del quinto secolo. Consisteva nel sottoporsi a pratiche di purificazione per poi addormentarsi in un recinto sacro destinato a questo scopo, nell’attesa di essere visitati in sogno dal dio o dall’essere sovrannaturale legato al luogo prescelto.
Platone pensa che nel sonno l’anima percepisce cose che non sapeva prima, sia nel passato e nel presente, sia nell’avvenire. Riconduce le immagini dei sogni ad apparenze prodotte dalla divinità, crede che i sogni abbiano valore profetico e divinatorio. Come lucidamente spiega Luciana Repici nella Introduzione, Aristotele adotta invece un modello meccanico di tipo democriteo e si distacca con forza da queste posizioni. C’è un passo, nel testo intitolato La divinazione durante il sonno del quale molti hanno sottolineato la “modernità”. Dato che anche gli animali sognano, scrive Aristotele, i sogni non possono essere inviati dalla divinità. Uomini del tutto semplici sono capaci di previsioni, non perché la divinità ha inviato loro dei sogni, ma perché tutti coloro che hanno natura ciarliera e melancolica hanno una grandissima quantità di visioni. Per questo, così come capita di imbroccarla a coloro che giocano a pari e dispari, hanno, ogni tanto, visioni che corrispondono agli eventi reali. I sogni non sono mandati da un dio, ma - afferma Aristotele in quelle stesse righe (e l’affermazione piacque molto a Freud) - «sono tuttavia demonici, perché la natura è demonica, non certo divina».
Repici ritiene che “demonici” significhi «dipendenti dal caso, ossia da cause accidentali e indeterminate». Se anche ai non specialisti è concesso di avanzare timide riserve, ho l’impressione che in questo caso si vogliano troppo rapidamente eliminare ambiguità. In uno dei testi qui contenuti Aristotele afferma che sugli specchi molto lucidi si produce una macchia rossastra quando vi gettano sopra lo sguardo donne nei giorni delle mestruazioni. Ma Repici conosce molto bene i testi e conclude una delle due preziose appendici con questa affermazione: «dalla tradizione emerge un Aristotele dai molteplici volti, che pone problemi non indifferenti a chi voglia tentare di ridurne le diverse immagini a unità». In questa edizione, che ha il testo a fronte, Luciana Repici ha accuratamente tradotto e ampiamente commentato altri due testi di Aristotele: Il sonno e la veglia, I sogni. Il tutto seguito da un’ottima bibliografia. Un’impresa meritoria.
Aristotele, Il sonno e i sogni, a cura di Luciana Repici, Venezia, Marsilio, pagg. 206, € 12,00.
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dallo stesso supplemento del Sole di oggi, di qualche interesse sono anche questi altri articoli (per la disponiblità dei quali ringrazio Paola D'Ettole):
Dalle riflessioni settecentesche alla psicologia cognitiva, un fenomeno centrale della percezione
Quelle ombre illuminano il pensiero
Importante saggio di Michael Baxandall
Roberto Casati
Michael Baxandall è uno storico dell'arte che fa dell'interdisciplinarità uno stile di lavoro rigoroso. I suoi contributi interessano non solo gli storici dell'arte, ma chiunque si occupi di immagini da un punto di vista scientifico. Nella sua ricerca ha tentato da un lato di situare la produzione delle immagini in contesti sociali ed economici ampi, in cui si dà il giusto peso alla nozione di abilità pittorica e di controllo da parte della committenza, e d'altro lato ha trattato dell'ascrizione di intenzioni al pittore (che cosa voleva dire dipingendo quel quadro in quel modo?) e del metodo in cui controlliamo questa ascrizione, ovvero di che cosa permette di dire che si è interpretato correttamente un quadro. In un certo senso Baxandall ha ripreso e approfondito la lezione di Gombrich, e come accadeva per quest'ultimo, i suoi testi contengono ricchissimi spunti di riflessione filosofica.
Ombre e lumi è la traduzione di un magnifico libro del 1995, "Shadows and Enlightenment". Completa una piccola collezione di opere oggi disponibili al lettore italiano sull'ombra nella pittura, una collezione che include "Ombre" di Gombrich (sempre da Einaudi) e "Breve storia dell'ombra" di Victor Stoichita (Il Saggiatore). Si distanzia da questi due contributi soprattutto per l'approfondimento del versante cognitivo della percezione dell'ombra; tanto di quella reale che di quella raffigurata nei quadri. In effetti le ombre e le loro raffigurazioni costituiscono un caso privilegiato per lo studio dei rapporti tra arte e scienze cognitive. Si tratta di fenomeni relativamente semplici dal punto di vista fisico e geometrico e relativamente ben studiati dal punto di vista psicologico (a differenza di fenomeni più complessi, come l'espressione delle emozioni) e per i quali esistono una ricca casistica e una altrettanto ricca trattatistica.
I pittori, almeno dal Rinascimento in poi, sono stati affascinati dalle ombre. Baxandall racconta questa fascinazione seguendone delle tracce relativamente tarde: le discussioni illuministiche sulla percezione visiva - se la percezione della forma sia innata o acquisita -, e in che modo le ombre vi contribuiscano; gli studi attuali di visione artificiale; e i percorsi figurativi e teorici di pittori come Piazzetta, Tiepolo, Chardin e Leonardo.
Uno dei meriti non secondari del libro è di offrire una sintesi molto chiara di quanto è stato scritto in visione artificiale sul problema della ricostruzione di una scena visiva a partire da un semplice disegno al tratto. Il disegno al tratto di uno spigolo è ambiguo: lo spigolo potrebbe apparirci come visto indifferentemente dall'interno o dall'esterno: puntare verso di noi o aprirsi davanti ai nostri occhi. Aggiungere un'ombra e localizzare la fonte di luce risolve l'ambiguità, e per questo gli studiosi di visione artificiale hanno dedicato tanta importanza alle ombre e al loro potenziale di informazione. Baxandall mette a confronto questo tipo di studio dell'informazione con i primi incerti tentativi, da parte dei filosofi del Settecento, di render conto della complessità del contenuto visivo scomponendolo nei suoi ingredienti atomici. Come si fa a capire che una certa regione del quadro è un'ombra, se in fondo è solo una macchia di colore come ogni altra? In entrambi i casi Baxandall mostra in modo convincente come il terreno per questi studi sia stato dissodato dai pittori che hanno saputo analizzare la complessità della scena visiva riducendola a un gioco di modificazioni locali di luce. Il modello pittorico, potremmo dire, è ben presente nella mente del filosofo; con tutti i vantaggi e gli svantaggi che possono derivare dall'assimilazione della percezione visiva alla contemplazione di un'immagine.
Il capitolo più affascinante del libro è l'ultimo, che esplora l'aspetto paradossale delle ombre, da sempre condannate a un ruolo subalterno per l'attenzione visiva a dispetto del fatto che sembrano essere così importanti per la percezione della forma. In pratica il sistema visivo, una volta utilizzate le ombre per risolvere le ambiguità di forma, le abbandona a se stesse, e solo dirigendo l'attenzione su di esse riesce a farle affiorare alla coscienza. É anche qui che si mostrano i limiti dell'analisi di Baxandall, che peraltro sono solo i limiti temporali della sua ricerca. Negli ultimissimi anni gli psicologi della percezione hanno mostrato che, nonostante vi sia la possibilità di utilizzare le ombre per ricostruire le forme, non è questa la strada che il sistema visivo segue di preferenza; a volte percepisce le forme a dispetto di quanto suggerito dalle ombre. In questo senso l'insistenza sul modello della visione artificiale è fuorviante. Il sistema visivo umano non funziona come un sistema artificiale, e le soluzioni ottimali di un problema cognitivo dal punto di vista ingegneristico possono non trovar riscontro nel relativo disordine della macchina che abbiamo ereditato dai nostri antenati biologici.
Questo appunto non toglie nulla alla ricchezza del testo di Baxandall, che in alcuni passaggi, non solo quando descrive con maestria le opere d'arte, si fa latore di una tradizione di analisi fenomenologica oggi dimenticata, in cui la resa accurata di ogni dettaglio è un'arte prima ancora che un imperativo scientifico.
Michael Baxandall, «Ombre e lumi», traduzione di Michele Dantini, Einaudi, Torino 2003, pagg. 218, 28,00.
Evoluzionismi - Il saggio di uno dei maggiori esperti mondiali sulle origini degli esseri viventi sulla Terra
La vita (forse) è nata così
Il ritrovamento delle tracce di organismi cellulari microscopici antichi di più di 3 miliardi di anni permette di formulare nuove ipotesi affascinanti
di Gilberto Corbellini
Nell'edizione del 1859 dell'Origine delle specie, Charles Darwin riconosceva che la principale sfida alla sua teoria dell'evoluzione era rappresentata dal fatto che i resti fossili più antichi erano forme di vita marina già piuttosto complesse. Darwin non era in grado di spiegare l'assenza di fossili precedenti a questi organismi, ma aveva ben chiaro che quella non era la vita nelle sue forme originarie. Quali caratteristiche avesse la vita sulla terra durante il cosiddetto Precambriano, cioè negli oltre tre miliardi e mezzo di anni precedenti il Fanerozoico, l'età della vita animale visibile compresa negli ultimi 550 milioni di anni, è stato a lungo considerato un problema insolubile.
Ne La culla della vita Schopf racconta in modo coinvolgente i tre decenni di ricerche che hanno consentito a lui e ad altri ricercatori di risolvere il dilemma di Darwin e portare alla luce forme di vita risalenti a circa tre miliardi di anni fa. E fornisce un quadro davvero ricco e soprattutto facilmente comprensibile dell'evoluzione della vita sulla terra. Più che sulle origini della vita, di cui Schopf comunque presenta le principali teorie, il libro si concentra su come la vita è cambiata e ha cambiato la terra nel tempo. Per la maggior parte del primo 85% della sua storia la terra fu popolata da microbi del tipo delle schiume che si vedono sugli stagni (pond scum). I fossili di questi antichi batteri erano ovviamente presenti nelle rocce, ma non si potevano osservare con gli strumenti convenzionali. Schopf e altri hanno trovato le tracce di organismi cellulari microscopici antichi di circa 3,5 miliardi di anni, aprendo la strada a una nuova fase della ricerca, in grado di riempire i vuoti per quanto riguarda diversi aspetti del come la vita si è evoluta sulla terra. Nel marzo del 2002 Schopf ha ulteriormente confermato, utilizzando una tecnica combinata del tutto innovativa che consente mediante un particolare laser allo stesso di visualizzare e analizzare chimicamente il contenuto delle rocce, la natura biologica di questi fossili microscopici.
Professore di paleobiologia e direttore dell'Igpp (Institute of geophysics and planetary physics) Center for the Study of Evolution and the Origin of Life, Schopf è diventato un punto di riferimento internazionale per le ricerche sull'origine della vita. Le sue competenze spaziano tra l'altro dalla geologia alla microbiologia alla chimica alle paleontologia e ha accumulato una quantità impressionante di cariche, onorificenze e premi.
La scoperta di queste prime forme organiche, per Schopf, dimostra che la vita non si è sempre evoluta come si è pensato e che l'evoluzione stessa è andata incontro a un'evoluzione. Il punto di svolta nell'evoluzione dell'evoluzione sarebbe stato l'arrivo del sesso, circa un miliardo e 100mila anni fa. Il primo organismo che intraprese un'attività sessuale era una cellula flottante di plancton che, diversamente dagli organismi che si riproducevano per divisione asessuale, come le cellule del nostro corpo, aveva un meccanismo in grado di rilasciare cellule sessuali nell'ambiente. I dati dei reperti fossili mostrano chiaramente che intorno allo stesso periodo comparvero nuovi generi e specie. Il sesso aumentò la variazione all'interno delle specie, la diversità tra le specie e rese più veloce l'evoluzione e la genesi di nuove specie, realizzando non solo l'emergere di organismi adattati in modo speciale a particolari contesti ma anche la prima apparizione di estinzioni di massa. Il mondo prima del sesso era più monotono, noioso e statico, secondo Schopf, mentre ogni organismo nato dalla riproduzione sessuale conteneva un mix che non era mai esistito prima.
La tesi che l'evoluzione sia stata estremamente più lenta nel Precambriano è in realtà un'ipotesi per nulla dimostrata e al momento non confutabile, dato che di quelle prime forme di vita restano solo tracce di forme e non siamo quindi in grado di misurarne il tasso di cambiamento evolutivo. Né possiamo assumere con troppa disinvoltura, come fa Schopf, alcune forme di vita esistenti e apparentemente primitive, come i cianobatteri, quali modelli di quelle più arcaiche. Cosa ci garantisce infatti che non esistessero organismi estinti e di cui non abbiamo tracce che evolvevano a ritmi simili a quelli del Fanerozoico?
Schopf cerca di mostrare anche il lato umano della scienza, dedicando in particolare due capitoli a due famose "stecche". Nel 1725 il medico e naturalista svizzero Johann Jacob Scheuchzer scopriva lo scheletro parziale di un grande animale vertebrato nella pietra calcarea, che secondo lui era la prova di un uomo affogato nel diluvio di Noè. La scoperta fu considerata la prova irrefutabile che la Bibbia aveva ragione fino a che, quasi un secolo dopo, ci si rese conto che si era scambiato per umano il fossile di una salamandra gigante. L'altra "bufala" riguarda la recente controversia, esplosa nel 1996, circa la pretesa prova dell'esistenza della vita su Marte in un meteorite caduto nell'Antartide 13mila anni fa. Schopf contribuì a smascherare il falso scoop.
Schopf ritorna spesso sul concetto che gli scienziati hanno le stesse debolezze di chiunque altro e le stesse capacità di fare errori. E nel libro lo dimostra in prima persona. Per esempio, quando giudica un fiasco la prima scoperta dei più antichi fossili che lui stesso effettuò in Australia nel 1983, insieme a due colleghi, per accreditare invece il suo articolo del 1993 come la vera scoperta. Sarebbe come affermare che la scoperta del Dna nel 1869 fu un fiasco perché solo nel 1944 si è potuto dimostrare a cosa serve! L'edizione italiana riproduce inoltre alcuni errori presenti nell'originale. Nella figura a pagina 63 la Nova Scotia e New Brunswick sono disegnate come se appartenessero agli Stati Uniti, mentre sono regioni canadesi. Inoltre, egli afferma che l'anidride carbonica funziona come i vetri di una serra, trattenendo il calore e immagazzinandolo nei legami chimici che saldano tra loro i suoi atomi: in realtà l'anidride carbonica assorbe la radiazione infrarossa e la converte in calore nell'atmosfera, mentre le finestre di una serra mantengono semplicemente l'aria calda all'interno.
J. William Schopf, «La culla della vita», Adelphi, Milano 2003, pagg. 500, 32,00.
Arti e scienze - Semir Zeki rilegge le principali correnti pittoriche alla luce degli studi sul cervello umano
Henri Matisse e altri neurologi
Vermeer, Leonardo, Michelangelo, i cubisti e i
di Armando Massarenti
Quando Leonardo scriveva, nel suo "Trattato di pittura", che, tra tutti i colori, i più gradevoli sono quelli in contrasto tra loro, non sapeva di aver enunciato in questo modo una verità fisiologica. Egli, a dire il vero, non avrebbe saputo dire bene quali colori erano da considerarsi opposti tra loro. Ma l'intuizione era giusta. Nel 1956 infatti due studiosi (Svaetichin e Jonasson) scoprirono che le cellule cerebrali eccitate dal rosso sono inibite dal verde, quelle eccitate dal giallo sono inibite dal blu e quelle eccitate dal bianco sono inibite dal nero (e viceversa). Altre intuizioni generalissime, e condivise nella pratica dai pittori di ogni tempo, come quella per cui la percezione dei colori è influenzata dal contesto in cui si trovano, hanno avuto recentemente delle conferme empiriche. Così oggi è possibile vedere che le cellule sensibili ai colori modificano radicalmente le loro reazioni a seconda dello sfondo su cui è collocato un colore.
Un libro come quello di Semir Zeki sarebbe stato inconcepibile se negli ultimi decenni non si fosse assistito al moltiplicarsi degli esperimenti, molti dei quali condotti dallo stesso autore, volti alla scoperta dei meccanismi del cervello. Se fosse uscito vent'anni fa, La visione dell'interno, che si propone di abbozzare una neuroestetica, cioè una scienza dei rapporti tra arte e cervello, sarebbe stato salutato con un misto di sconcerto, di irrisione e di irritazione. Dato il clima "culturalista" e "relativista" di allora - ma che sopravvive ancora tra molti esponenti della cultura umanistica - l'idea di cercare delle vere e proprie leggi di natura capaci di spiegare su base biologica i meccanismi universali dell'apprezzamento estetico sarebbe stata vista come una folle ripresa di un positivismo ormai screditato da tempo. Ma, per fortuna, i tempi stanno cambiando.
Il libro di Zeki comunque non è che un «abbozzo», un tentativo di ordinare tutto ciò che si sa sul rapporto tra arte e cervello all'interno di una teoria aggiornata dei meccanismi della visione. Negli ultimi anni è stato dimostrato che la visione è un processo attivo e dinamico. Come del resto aveva intuito Matisse, «vedere è già un'operazione creativa che richiede uno sforzo». Questo sforzo è volto a identificare le caratteristiche specifiche e stabili del mondo, che sono le uniche che vale la pena di conoscere. «Il cervello - scrive Zeki - è interessato solo alle proprietà costanti, immutabili, permanenti e specifiche degli oggetti e delle superfici del mondo esterno, perché sono queste proprietà che gli permettono di ordinare gli oggetti per categorie. Ma l'informazione che arriva dal mondo esterno non è mai costante, anzi è in continua fluttuazione. Vediamo oggetti e superfici da distanze e angoli diversi e in differenti condizioni di luce»: il verde di una foglia cambia continuamente a seconda che la vediamo di mattina di pomeriggio o di sera, quando c'è il sole o quando piove, eppure riconosciamo che si tratta sempre dello stesso verde. La visione è un processo neurale "attivo" che
Il quale è un neurologo senza saperlo, come Zeki cerca di mostrare analizzando, con esperimenti ingegnosi, le reazioni delle cellule cerebrali a diversi episodi della storia dell'arte, spaziando dalle interpretazioni neurobiologiche di Vermeer e Michelangelo alla critica del cubismo, dalla «neurofisiologia della linee orientate» e «dei quadrati e dei rettangoli» in Mondrian e Malevic a distinzioni quali quella tra arte astratta e figurativa, passando per l'analisi della capacità di riconoscere i volti e di percepire correttamente i colori, e degli effetti dell'arte cinetica e dei rapporti tra forma e colore.
Gli artisti sono dei neurologi tendenzialmente "platonici, come secondo Zeki è di fatto il nostro stesso cervello, ma talvolta si impegnano in progetti in contrasto con i normali meccanismi della visione. Come nel caso dei fauves, che hanno cercato di «liberare» il colore dalla «schiavitù della forma». Nella vita quotidiana il nostro cervello è abituato a vedere associati in certi oggetti un certo colore e una certa forma. Quando vede un oggetto o una forma di un colore non usuale - una banana blu, per esempio - si attivano delle parti del cervello che segnalano una contraddizione (che poi viene interpretata e corretta). Non è difficile immaginare dunque cosa potrà capitare davanti a un quadro di Matisse. Il progetto di una neuroestetica in fondo è indistinguibile dallo studio dei modi in cui il nostro cervello ci aiuta a conoscere la realtà che ci circonda.
Semir Zeki, «La visione dall'interno. Arte e cervello», Bollati Boringhieri, Torino 2003, pagg. 270, 45,00.