sabato 25 ottobre 2003

un articolo di Peter Schneider su "L'espresso":
Bellocchio e la storia del terrorismo

(segnalato da Sergio Grom)

L'Espesso
UOMINI DI PIOMBO
Libri, mostre, film. Dall'Italia alla Germania si torna a discutere di terrorismo. E si riaprono antiche ferite. Un grande scrittore tedesco spiega perché. Con una tesi provocatoria

È la "banalità del terrorismo.
I sedicenti eroi della liberazione erano dei piccoli borghesi dilettanti non all'altezza delle loro vittime

In Germania alcuni ex sessantottini radicali sono diventati ministri e sottosegretari


di Peter Schneider


Ogni generazione scrive di nuovo la storia e se ne conquista gli orrori, così come i momenti magici; e a volte, gli uni e glì altri appartengono alla storia che quella stessa generazione ha inscenato e vissuto. Avendo assìstito alla nascita della contestazione del 1968, tanto in Germania (a Berlino) quanto in Italia (a Trento), ho avuto modo di conoscere i capi storici di quei gruppi, che in Italia presero il nome di Brigate rosse e in Germania quello di Raf, Rote Armee Fraktion, quand'erano ancora, per così dire, «semplicí compagni». Perciò ho seguito con partecipazione, e anche con una certa inquietudine, il rinnovato dibattito sugli anni del terrore. Non è la prima volta che nella mia generazione si rícompone daccapo, attraverso opere letterarie e cinematografiche, il puzzle degli anni di piombo. E non sarà certo neppure l'ultima volta che nel corso di un'operazione del genere emerge un nuovo aspetto. finora ignorato o rimosso dall'opinione pubblica, e che sembra poter spiegare l'inconcepibile.
Si potrà comprendere, credo, il fastidio profondo che uno come me prova nell'osservare come il movimento del '68 sia sempre più messo in ombra dalle sue escrescenze omicide, la Raf e le Brigate rosse, tanto che alcuni idioti estremìsti finiscono per rimanere incisi nella memoria collettiva come i soli rappresentanti di quel movimento di ribellione.
Diamo uno sguardo al modo in cui si stanno rivisitando oggi i sequestri di persona e gli omicidi commessi trent'anni fa: eventi che ci appaiono, a distanza di tempo, come un incubo incomprensíbile, quasi una favola dell'orrore giunta fino a noi da epoche immemorabili. Su questi eventi si è riacceso, quasi contemporaneamente in Germania e in Italia, un aspro dibattito. A scaldare gli animi sono state, in Italia, due opere cinematografiche: il film in due parti "La meglio gioventù" di Marco Tullio, Giordana e "Buongiorno notte" di Marco Bellocchio. In Germania, il progetto di una mostra intitolata "Mythos Raf" (Il mito Raf) ha suscitato reazioni violente, tanto da determinare la sospensione dell'iniziativa, che pure era stata promossa con un contributo pubblico di 100 mila euro. I responsabili del finanziamento hanno dichiarato che avrebbero continuato a sostenere il progetto soltanto a condizione che lo spirito della mostra «si contrapponga nel modo più rigoroso a qualsiasi glorificazione o creazione di leggende». Gli organizzatori della mostra sono stati indotti a modificarne l'impostazione soprattutto dalle proteste dei familiari delle vittime. Secondo le voci che circolano in proposito, a questo punto l'intento non sarà più quello di documentare la storia della Raf attraverso immagini e documenti dell'epoca, bensì di adottare un punto di vista artìstico, analizzando il modo in cui questi eventi sono stati circondati da un'aura estetica e mitica. A mio parere un'operazione assurda, che otterrà esattamente ciò che i critici dei progetto volevano evitare.
A gettare altro olio sul fuoco è uscito poche settimane fa un libro dell'ex sessantottino Gerd Koenen, dal titolo: " Vesper, Ensslin, Baader" (Bernward Vesper era il primo marito di Gudrun Ensslin, assieme ad Andreas Baader e Ulrike Meinhof, fondatrice dalla Raf). L'autore può rivendicare il merito di aver fatto luce per la prima volta, con il distacco di un contemporaneo che vuole comprendere ma non perdonare, sul mondo dì tre "disperati": mentre i due ultimi si conquistarono fama mondiale con una serie di omicidi politici, Vesper (padre del figlio della Ensslin) cercò la sua propria "liberazione" dapprima nella letteratura, e infine nel suicidio.
In che cosa consiste la persistente inquietudine e il fascino suscitato dai "disperati" (tedeschi e italiani) di quegli anni? Perché si continua a riscrivere sempre di nuovo la loro storia? Credo che la risposta sia di una semplicità sbalorditiva. Il fatto è che i vari Curcio, Moretti, Gallinari, Maccari, Baader, Meinhof, Ensslin non erano "delinquenti comuni" come i governi cercavano allora di far credere ai loro cittadini traumatizzati. La tendenza degli interpreti ufficiali, dettata dal panico, di accreditare una versione semplicistica di quei crimini a sfondo politico si è rivelata addirittura controproducente. I cittadini sapevano, o intuivano che se questi criminali si erano resi responsabili di rapine, sequestri di persona, torture e omicidi, non lo avevano fatto perché spinti da "bassi motivi", bensì in nome di un fine più elevato. Tutte le loro azioni, comprese le più infami e le più inaudite, erano intese come un servizio ai diseredati di tutto il mondo, e segnatamente di quello che allora si chiamava Terzo mondo. Con la protezione di questa specie di scudo morale fai-da-te, portato sul petto e sul cuore, all'improvviso tutto sembrava permesso. Anche far fuori la guardia dei corpo di un "obiettivo da centrare". E persino le bassezze perpetrate all'interno dei gruppo, fino all'esecuzione dei «traditori». Gli autori di questi sedicenti delitti "morali" o "altruistici" ne traevano un guadagno soggettivo, sotto forma di un'immane sbornia di potere: sui politici, sui media, sugli intellettuali che se li contendevano; potere sul sesso, potere sulla morte. Su quella dei nemici come sulla propria. Ogni giorno poteva essere l'ultimo.
La sorprendente analogia del revival italiano e tedesco dei dibattito sul trauma degli anni '70 consiste per l'appunto nello smontaggio dell'aureola morale degli autodesignati liberatori del mondo. Parafrasando un celebre titolo di Hanna Arendt, potremmo parlare di un esame ravvicinato della "Banalità dei terrorismo". Chi guarda a quanto accadeva all'interno di questi gruppi può constatare che i sedicenti eroi delia liberazione mondiale erano in realtà nient'altro che piccoli borghesi, tossicodipendenti e dilettanti, non all'altezza delle loro vittime. Ciò non significa affatto che le loro motivazioni morali fossero fittizie.
Di fatto, non erano i "Rebels without a cause" (ribelli senza una causa) messi in scena da Elia Kazan. I loro moventi si rivelano piuttosto come il risultato di un grottesco errore di valutazione e di una spietata automanipolazione. L'analisi della realtà sottesa al culto dell'azione liberatoria era sbagliata, il loro linguaggio schematico e privo di vita. La loro prassi era criminale, la vita interna dei gruppi repressiva e squallida.
Nel suo libro, Koenen descrive come Baader si era improvvisamente trasformato, dal momento della sua entrata nella clandestinità, da comunissimo tanghero da osteria in una specie di divo. Nel mondo alla rovescia della lotta metropolitana armata, le cui formule erano fornite dalle intelligentìssime Ensslin e Meinhof, il più brutale era re: vinceva chi si diimostrava più pronto a colpire o a puntare l'arma. I più sensibili, i più intelligenti passavano in sottordine. Baader era solito apostrofare con il termine "Fotze" (fregna) le donne dei gruppo, che a loro volta si chiamavano in questo modo a vicenda. L'aspetto più straordinario dell'opera di demitizzazione sia di Bellocchio sia di Koenen sta nella rinuncia a brandire discorsi moralistici di qualunque tipo. Entrambi osservano con distacco i loro personaggi, li fanno vedere all'opera e mettono così a nudo la loro banalità, lasciando che si condannino da sé.
I paralleli, certo interessanti, tra queste due operazioni, condotte rispettivamente a nord e a sud delle Alpi, rischiano però di portare a una conclusione errata. Le radici del terrorismo italiano e di quello tedesco non sono identiche, e i due fenomeni hanno avuto dimensioni diverse. In Germania, il terrorismo di sinistra non ha mai coinvolto più di 200 o 300 militanti attivi, più qualche decina di migliaia di simpatizzanti, mentre i militanti delle Brigate rosse e di altri gruppi apparentati erano parecchie migliaia, con centinaia di migliaia di simpatizzanti. In Germania, il trauma dei fascismo e di Auschwitz e le fantasie sulla reiterazione della storia hanno costituito i motivi determinanti della decisione di intraprendere la lotta armata. In Italia, almeno secondo le mie osservazioni, a fare da detonatore sono stati invece alcuni eventi di grande attualità in quel periodo: l'attentato di Piazza Fontana, quello di Brescia e di Bologna (riconducibili al terrorismo di estrema destra), le circostanze della morte di Pinelli, precipitato da una finestra della Questura di Milano, e il pericolo (immaginario o reale?) di un colpo di Stato di destra.
In entrambi i casi, pure del tutto diversi tra loro, si è visto come un certo numero di giovani intellettuali impegnati, e inizialmente anche intelligenti, siano stati capaci di fare, per una serie di buone e condivisibili ragioni, cose tremende e assolutamente deliranti.
Trovo peraltro sorprendente che nel rinnovato dibattito sul terrorismo degli anni '70 sia mancato un raffronto con l'attuale terrorismo islamista. Come se si fosse trattato di un fenomeno folcloristico specifico dell'Europa. Forse coloro che pure hanno demistificato il terrorismo europeo, non hanno compreso fino in fondo il problema. A un esame più ravvicinato si dimostrerà che i guru dei terrorismo isiamista non si distinguono più di tanto dai loro precursori europei (vedi box sotto). Nell'uno e nell'altro caso, non sono stati i poveri del mondo a credere nel terrorismo come via verso un mondo migliore, bensì i rampolli privilegiati dei ceti borghesi: intellettuali megalomani, manipolatori e avidi di potere fino al delirio, che si propongono come liberatori con slogan del tipo: "Qualunque contribuente americano è un legittimo obiettivo militare". E il fatto che nei rispettivi contesti abbiano suscitato di volta in volta un'eco diversa rientra in un altro capitolo.
Vorrei aggiungere ancora qualche parola in merito al dibattito interno europeo. A mio parere, l'aspetto più importante sta nel diverso atteggiamento della società tedesca e di quella italiana rispetto all'eredità della contestazione del '68. In Germania, quasi tutti i terroristi a suo tempo condannati per omicidi o per altri reati sono ormai liberi, e alcuni ex sessantottini radicali sono diventati nel frattempo ministri, sottosegretari, deputati. Trent'anni fa Joschka Fischer, non contento di riempirsi la bocca di slogan violenti, era passato alle vie di fatto - com'è stato dimostrato - in uno scontro con la polizia. Oggi è di gran lunga il più popolare dei politici tedeschi. L'Italia ha invece un premier che dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell'impero sovietico, continua a predicare la lotta contro il comunismo. Chi riuscirebbe a immaginare un Adriano Sofri, che trent'anni fa ha indubbiamente giocato con l'idea della violenza rivoluzionaria, ma secondo me (anche se i tribunali italiani lo hanno condannato), non l'ha mai messa in pratica uscire dal carcere e assumere la carica di ministro degli Esteri?
(traduzione di Elisabetta Horvat)

Sfogliando l'album di famiglia
In un libro una sorprendente antologia di testi sul terrorismo


«Il terrorismo moderno è pubblicità di morte per fine di potere. (...) si fa pubblicità alla morte come ai vestiti e alle sigarette». Parole di Alberto Moravia, scritte oltre trent'anni fa su "L'espresso" del 24 settembre 1972, in un'intervista realizzata da Dacia Maraini Si era allora, all'indomani della strage di Monaco: atleti israeliani sequestrati e massacrati durante i giochi olimpici dai terroristi venuti dal mondo arabo e islamico, dai palestinesi di Settebre nero. Oggi che lo, spettro dei terrorismo è tornato di nuovo a dominare il nostro immaginario (il terrorismo internazionale come cronaca, quello interno come dibattito e soggetto di libri e film) le parole dì Moravia sona citate nel volume "Terrorismo e terroristi" a cura di Marco Fossati che sta per essere pubblicato dall'editore Bruno Mondadori.
Quella di Fossati è un'antologia di testi sorprendente. E che aiuta a capire e a conoscere la storia e la genesi del terrorismo nonché la matrice comune dei terrorismo islamico e di quello europeo. Si va da Giuseppe Flavio passando per Robespierre e Lenin, fino ad Adriano Sofri che di Giuseppe Flavio è un cultore.
Gli accostamenti tra i vari autori citati sono sbalorditivi. Così la descrizione di Giuseppe Flavio dell'operato dei sicari - «briganti che portavano pugnali nascosti nel seno» - terroristi zeloti ebrei tra il 66 e il 70, è messa in parallelo con il racconto che Marco Polo fornisce 1200 anni dopo della setta degli Assassini (analizzata recentemente da Bernard Lewis) sulla montagna del Libano. Giuseppe Mazzini nella "Guerra per bande" anticipa sia la tattica della espropriazioni proletarie praticata dal giovane rivoluzionario Stalin (di cui precursore, una volta al potere é invece il francese Saint Just citato pure nel libro, sia, quando parla dell'"apostolato armato dell'insurrezione", la strategia del Che Guevara. Leggendo il frammento del "Catechismo del rivoluzionario" di Sergei Necaev, anarchico nihilista russo dell'800, sembra ascoltare Mario Moretti, versione "Buongiorno, notte" dì Marco Bellocchio.
E ancora, Emilio Lussu spiega che il tirannicidio, quindi il terrorismo individuale, è sbagliato politicamente ma giustificato moralmente, mentre Luigi Longo loda i "vendicatori spietati" dei Gap. Lelio Basso, sempre su "L'espresso" e sempre nel settembre 1972, parla dell'ipocrisia di chi intitola le piazze a Guglielmo Oberdan e Felice Orsini, per poi condannare i palestinesi di Monaco, che comunque sono meno feroci degli americani in Vietnam e delle dittature sud-americane. Non a caso Rossana Rossanda, nel marzo 1978, ricordava come il terrorismo facesse parte dell'album dì famiglia della sinistra: anche quel testo, più attuale che mai, lo troverete nel libro curato da Fossati.
W.G.