mercoledì 10 dicembre 2003

su Repubblica: immagini e pensiero

una segnalazione di Sergio Grom

La Repubblica 10.12.03
Se I filosofi svelano il quadro

Esce oggi il saggio di Brandt
L'enigmatico dipinto di Giorgione raffigura tre sapienti o forse addirittura i tre Magi
Un raffinato storico delle idee in una serie di illuminanti interpretazioni mostra come in alcuni grandi capolavori artistici bellezza e verità si tocchino
Sulle immagini può cadere il divieto religioso o il fraintendimento culturale: dialogare con esse può aiutare a scoprire un senso nascosto, una relazione col pensiero razionale
"Las meninas" suscita numerosi interrogativi: potrebbe essere un gioco di specchi
Il punto più alto dell'incontro tra pittura e pensiero si ha con Velázquez
Rubens raffigura Eraclito che piange e Democrito come il pensatore che ride
di ANTONIO GNOLI E FRANCO VOLPI


Dal volume di Reinhard Brandt, "Filosofia della pittura", che esce oggi nelle edizioni Bruno Mondadori (pagg. 500, € 33,00), anticipiamo parte della prefazione di Le immagini quelle visive soprattutto, ci sovrastano. Un flusso continuo e caotico inonda la società, abbatte confini, distrugge gerarchie, confonde saperi. Le immagini sono il tutto e il niente. È la ragione per cui lo sguardo è diventato opaco. Incontra solo la sua ombra. Una povertà oftalmica regola ormai la vista. Certo, noi continuiamo a vedere. Ma che cosa vediamo? L'occhio guarda, e nel sovrabbondare dell'osservabile diventa inappetente.
Walter Benjamin notava che allo straniamento del flâneur contribuisce il passo che vagabonda nei dilatati confini della metropoli. Si direbbe che quanto accade nel primo Novecento al «camminare» in questi ultimi decenni coinvolga il «guardare». Si guarda con infinita casualità. O meglio: si è guardati. Con infinito sospetto. Non resta che ritrarsi dall'immagine, come da un campo di battaglia: gli oggetti, i volti, le nuvole sostituiscono o si aggiungono ai morti. Non c'è etica o estetica che tenga a questa molle deriva circolare sulla quale si producono immagini a mezzo di immagini.
La loro invadenza, il loro eccesso, la loro sovraesposizione provocano una cecità provvisoria. Versiamo in un curioso paradosso: tutto ciò che è visibile ci è reso indifferente dal troppo vedere. Non è della qualità dell'immagine che si sta parlando. Ma della quantità.
Nella qualità le immagini mostravano un destino sottilmente predestinato. Qualcosa - un motivo iconografico, una storia, un'allusione simbolica, un'allegoria - prima o poi perdeva vigore. Come un organismo animale, cresceva, trasmettendo i suoi caratteri, e poi senza un'apparente ragione peggiorava il proprio stato di salute. Fino a diventare evanescente. Soprattutto Aby Warburg ed Erwin Panowsky; e con loro Fritz Saxl, Edgard Wind, hanno inseguito i fili invisibili che legano immagine a immagine. Hanno colto il fulgore e il tramonto della loro storia: la vita, il declino, la morte. Ci hanno consegnato, come nel caso di Warburg, uno straordinario percorso per immagini. Ciò che Mnemosyne mostra è il vertiginoso tentativo di sottrarle alla loro decadenza. Le immagini non muoiono solo se restano aperte. Uno degli impliciti significati della warburghiana Pathosformel risiede in questa idea di apertura. Che è incompiutezza e movimento. Le immagini di Mnemosyne sono tutt'altro che immobili. Rimandano alla sottile arte del montaggio cinematografico.
Nella quantità le immagini non muoiono, perché è come se fossero da sempre già morte. Non stiamo alludendo alla loro riproducibilità, ma al canone insolito che regola la loro presunta unicità. Le immagini che ci sovrastano pretendono un'esclusiva che spaventa. Mirano a produrre non già stupore, o non solo quello, ma panico. Richiedono non già attenzione ma sottomissione.
Sulle immagini può cadere il divieto religioso, il fraintendimento culturale. Negazione e rimozione sono le armi che la storia predilige per combatterle. Come pure può usarle in quanto arma di propaganda. Le immagini contano molto più di ciò che vi sta dietro o sopra o sotto.
Per questo la filosofia riscopre un ruolo che credeva perduto. Dialoga con le immagini, con oggetti muti da riportare in vita. C'è una filosofia delle immagini e ci sono le immagini della filosofia. C'è il mito della caverna e c'è un pensiero che ha ripreso a lavorare sulle immagini. A comprenderne presenza e sparizione. Non tutto quello che vediamo è davvero sotto gli occhi. Dopotutto, se la filosofia si scontra con l'ineffabile, l'immagine può lottare con l'invisibile, strapparlo alla sua intima assenza, quasi un gioco di prestigio, una mera illusione. È questa che ci avvolge davanti a un'immagine? Proviamo a formulare meglio la questione. Di fronte a un quadro, a un'opera pittorica, che cosa guardiamo? Che cosa proviamo? L'esaltazione del lavoro percettivo non usurpa il suo potere? Non lo altera? Il ricorso alla filosofia dovrebbe servire a questo: a stabilire un senso, una direzione, un legame fra ciò che è dipinto e ciò che è pensato.
È fatale che la relazione tra arte e filosofia sia stata declinata nelle forme più diverse secondo le epoche, le situazioni e le temperie culturali. Siamo in presenza di una sinergia che ha alimentato la storia dello spirito, le sue aperture di senso e le sue realizzazioni; di un intreccio su cui, da Platone ai nostri giorni, il pensiero occidentale sempre è tornato e sempre ritornerà. Se l'arte - come la religione - rappresenta una risorsa simbolica vitale, quale rapporto intrattiene con il pensiero razionale? Che cosa la lega a - e che cosa la separa da - ciò che accade nell'orizzonte della filosofia? Qual è la magica danza che il Bello conduce intorno al Vero, e il Vero intorno al Bello?
Di Reinhard Brandt, raffinato pensatore e storico delle idee, il lettore italiano già conosce La lettura del testo filosofico (Laterza, 1998), un'ineccepibile lezione di metodo «oggettivo», e D'Artagnan o il quarto escluso (Feltrinelli, 1999), un'intrigante perlustrazione del principio del Quattro, ricorrente nella storia del pensiero e della cultura europei. Con questo libro Brandt apre una nuova prospettiva da cui guardare e indagare il rapporto tra arte e filosofia. In una serie di illuminanti interpretazioni egli mostra come in alcune eminenti opere d'arte l'elemento materiale raffiguri e renda visibile un pensiero; come bellezza e verità, immagine e concetto, visione e astrazione, intuizione e ragionamento si avvicinino, si sfiorino, si tocchino.
Prendiamo la celebre Scuola di Atene dipinta da Raffaello nelle Stanze Vaticane. La lettura filosofica dell'affresco è talmente evidente e nota, che quasi non c'è bisogno di illustrarla. Eppure dietro il risaputo, molte sono le questioni che ancora attendono una risposta soddisfacente. Che cosa comunica e da quali pensieri è ispirata la raffigurazione pittorica di quel consesso filosofico? Chi sono esattamente le cinquantotto figure che vi partecipano? Perché manca un filosofo importantissimo come Plotino? E manca davvero? Molto è stato scritto per rispondere a questi e altri interrogativi. Eloquente è ciò che capitò al grande teorico dello storicismo, Wilhelm Dilthey, che racconta di avere sognato La scuola di Atene. Nel sogno ai pensatori greci si erano via via aggiunti i filosofi cristiani e poi quelli dell'età moderna: Kant, Schiller, Schelling, Hegel e, infine, a coronare il tutto, Goethe. Brandt scopre qui il denso sfondo di implicazioni e riferimenti storici, iconologici e simbolici che fanno parte del dipinto e della sua fortuna.
Prendiamo un altro celebre ed enigmatico dipinto, e chiediamoci: chi sono i personaggi ritratti da Giorgione nei Tre filosofi, che alcuni identificano con Tre sapienti, altri con I tre Magi? Quale misterioso sapere esoterico simboleggiano, così riuniti in quel luogo, di fronte a una caverna scavata nella scura terra, con la loro postura, il loro abbigliamento e i loro gesti? Anche in questo caso scopriamo con Brandt che quel quadro è in qualche modo un'opera riconducibile nell'alveo della filosofia.
Un legame così dichiaratamente esplicito tra arte e filosofia si può estendere ad altri capolavori. Perché Rubens per esempio raffigura Eraclito nell'atto di piangere e Democrito come il filosofo che ride? Che cosa si nasconde dietro questo longevo stereotipo? E Rembrandt, che cosa vuole comunicare quando dipinge Aristotele e il busto di Omero? Altro fascinoso esempio: quale arcanum filosofico contiene Et in Arcadia ego di Nicolas Poussin, intorno a cui tanto, e tanto contraddittoriamente, si è speculato?
Uno dei punti più densi nella storia del fecondo intreccio di arte e filosofia si raggiunge, come è noto, con Velàzquez. Qual è il soggetto della sua celebre tela Las meninas, ovvero La familia de Felipe IV? Apparentemente l'infanta con le damigelle di corte e la famiglia reale. Oppure il soggetto è l'evento stesso della genesi del quadro? O ancora: l'intero quadro è forse dipinto come se fosse uno specchio? In questo gioco di riflessi si rende visibile il grande problema filosofico della modernità, che nasce letteralmente dalla pittura: perché e che cos'è il subjectum?
Se poi arriviamo ai giorni nostri, constatiamo che sono numerosi i pittori che nella filosofia vedono un modo per entrare nel mondo simbolico del dipinto. Basterà ricordare De Chirico, che nel suo celebre Autoritratto, variando un detto di Schopenhauer e di Nietzsche, dipinge la frase: Et quid amabo nisi quod rerum metaphysica est? Da ultimo esempio degli esempi di pictor philosophus: Magritte, l'ideatore di provocazioni pittorico-filosofiche talmente «orecchiabili», che ci chiediamo se egli stesso non abbia una qualche responsabilità nell'abuso che ne è stato fatto.

Munch, il suo grido è un vulcano

La testa dell'uomo è ridotta ad un teschio, le narici a due fori, gli occhi sono sbarrati, la bocca è aperta e lancia un grido disperato e selvaggio, che si propaga attraverso la natura: un fiordo oleoso e un cielo infuocato riprendono il movimento serpentino della figura. È uno dei quadri più celebri al mondo: Il grido di Edvard Munch, un dipinto che ritrae uno stato mentale dell'artista. Il dramma è interno anche se il soggetto è legato alla topografia di Oslo: la vista è quella che si ammira da Nordstrand.
Ora c'è chi lega la genesi del capolavoro di Munch a un fatto reale: un'esplosione vulcanica. Il New York Times ha pubblicato la tesi di Donald Olson, astronomo dell'università del Texas, secondo cui i colori de Il grido furono ispirati da un cielo carico di rossi causati dall'eruzione del vulcano dell'isola indonesiana di Krakatoa, avvenuta nell'agosto 1883.
Una nube di polveri attraversò il mondo intero. Olson sostiene che Munch fu segnato da questa visione: gli restò così impressa nella memoria da ricordarsene dieci anni più tardi, nel 1893, quando realizzò Il grido. E una celebre annotazione nel diario dell'artista, che è del 22 gennaio 1893, sarebbe un'evocazione. Scrisse Munch: «Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò. Il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco... io tremavo ancora di paura, sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura».
Per Olson non è esistenzialismo espressionista ma il bagliore di una vera tragedia, tesi che per ora ha un solo riconoscimento: "intrigante". Un sigaro e una medaglia non si negano a nessuno.