lunedì 5 gennaio 2004

Eugenio Borgna:
la psichiatria contro la dittatura delle neuroscienze

La Gazzetta del Mezzogiorno 5.1.04
La psichiatria? Non ha più il sentimento
intervista di GINO DATO


Gli orizzonti di conoscenza e di senso della psichiatria. È questo l'itinerario affascinante nel quale ci conduce Eugenio Borgna nel suo ultimo saggio, Le intermittenze del cuore (Feltrinelli ed.), scritto «nel momento in cui la vertiginosa ascesa e il dilagare delle neuroscienze - esordisce lo psichiatra e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali all'Università di Milano - sembrano svuotare la psichiatria della sua autonoma tematica e della sua ragione d'essere psicologica e umana». Un viaggio nell'anima, che è un ritorno all'umanesimo e alla ricerca dei sentimenti e delle emozioni spesso smarrita nella relazione con il «paziente». Un viaggio che apre una vista sulle ferite ma che schiude il territorio, mai abbastanza esplorato, delle interrogazioni sul mistero della vita. Prima che avanzi il deserto delle emozioni.
Lei sostiene che il discorso delle neuroscienze sta dilagando fino a divorare il senso della psichiatria. Che cosa vuol dire «divorare»?
«Significa annullarla, cancellarla, togliere alla psichiatria il suo oggetto, che è sempre stato un soggetto, cioè la vita psichica, la soggettività dell'altro. Il discorso delle neuroscienze tende a oggettivare, a rendere oggetto, cosa, disturbo neuronale quello che abbiamo sempre considerato come qualcosa di diverso, autonomo, rispetto alla funzione cerebrale».
Che cosa diventa allora la psichiatria?
«Nel discorso delle neuroscienze diventa encefaloiatria: non più psiche, emozioni, anima, ma solo il cervello come espressione unica».
Quali cose le cause di questa deriva, di questo fagocitare la psichiatria da parte delle neuroscienze?
«Dobbiamo premettere che il discorso filosofico delle neuroscienze risale all'800, quando la psichiatria è stata fondata e basata sull'assioma di alcuni grandi psichiatri del tempo, secondo cui le malattie psichiche sono malattie cerebrali. Ne consegue che i disturbi psichici non si confrontano ma sono ontologicamente qualcosa di neuronale».
Le conseguenze?
«Scompare la psichiatria come veniva considerata un tempo. Le neuroscienze hanno portato il discorso su un piano apparentemente fondato su dati empirici dimostrabili. Dall'altro si sono basate sulla scoperta degli psicofarmaci».
Sono molto affascinanti le pagine del suo libro in cui lei rimarca le ragioni del cuore e quelle di una psichiatria che definisce «etica e gentile». Quali sono gli strumenti di questa psichiatria?
«Innanzitutto diciamo che la psichiatria non rifiuta l'approccio neurologico quando i farmaci servono, poiché anche i farmaci servono. Solo che questa psichiatria è la psichiatria della relazione, mentre quella neuroscientifica è quella dell'oggettivazione, individualistica, perché considera che solo all'interno del soggetto nascono i disturbi che chiamiamo mentali-psichici».
Che significa essere in relazione?
«Accogliere quello che gli altri, gli psichiatri, dicono e ci fanno conoscere. Noi cambiamo continuamente solo nella misura in cui siamo in una relazione permanente, continua con gli altri».
Significa dialogare, instaurare il dialogo tra paziente e curante?
«Sì, significa tentare di muoversi sul piano di una asimmetria che tende, come meta ideale, ad essere sempre più una relazione simmetrica. Due persone entrano in gioco senza che la malattia crei squilibri ontologici come quelli che sono invece legati alle opzioni neuroscientifiche, secondo le quali tutto nasce all'interno di una funzionalità malata».
Prima ancora dei farmaci, allora, c'è l'ascolto, l'attenzione. Oso sperare che gli strumenti di questa psichiatria sono anche gli strumenti che aiutano a vivere le persone normali.
«Questa è la sostanza, il nocciolo profondo, di quello che ho cercato di dire. La psichiatria ha cessato di essere soltanto una disciplina manicomiale, si è invece trasformata in maestra di vita».
Perché noi oggi oscilliamo così facilmente tra banalizzazione delle emozioni e deserto dei significati?
«Le emozioni, come ogni esperienza della vita, hanno un aspetto esteriore, di superficie, e uno profondo, relazionale. La prima connotazione, insostenibile, è quella che si pone oggi al centro di infinite trasmissioni televisive».
Dall'altra impera il deserto dei significati. Perché manca quella che lei, con un termine filosofico, chiama la disposizione ermeneutica, la voglia cioè di capire il senso delle cose…
«Cogliere il nocciolo profondo della vita significa interpretare le azioni, i comportamenti, non basarsi solo, non lasciarsi suggestionare dagli aspetti esterni. E cogliere il senso profondo del nostro essere costa molta fatica».
Gli uomini del terzo millennio devono chiedersi se la farmacologia riuscirà ad annullare le emozioni?
«Se impazzisce, se diventa solo interessata a cancellare, a spegnere ogni sentimento, si estenderà il deserto delle emozioni, che, tuttavia, nonostante questo, si ribelleranno».
Perché?
«Perché si nasconderanno nei cuori delle persone creando ulteriori motivi di angoscia e di sofferenza. Il fine che si propongono le neuroscienze, magari involontariamente, è di sterminare i significati dei comportamenti, sterminare le emozioni, per condurre dentro paradigmi di indifferenza comportamentale anche gli aspetti apparentemente psicopatologici, ma invece essenziali, alla vita quali sono i sentimenti, tristezza, inquietudine, solitudine, malinconia. La posta in gioco è grande e tutti - come diceva Pascal - siamo imbarcati».