il manifesto 3.1.04
GYöRGY LUKÁCS
Pubblicato un volume che raccoglie scritti inediti del filosofo ungherese
L'accusa di connivenza con lo stalinismo fu sempre rifiutata dal filosofo ungherese. Solo nel lungo saggio, scritto agli inizi degli anni Settanta e dal titolo fortemente programmatico «Testamento politico», l'autore di «Storia e coscienza di classe» ammise apertamente di aver compiuto alcuni compromessi, in nome di un margine di libertà per denunciare il carattere illiberale e autoritario del regime sovietico
di ANTONINO INFRANCA
Il libro di György Lukács (Testamento politico, Buenos Aires, Herramienta, pp. 188), pubblicato di recente in Argentina in lingua spagnola, contiene materiale in parte del tutto inedito e in parte inedito in italiano. Si tratta di documenti imprescindibili per ricostruire una vicenda esistenziale e una stagione di pensiero importanti di un filosofo del calibro di Lukács, pensatore che è un vero e proprio paradigma del rapporto tra intellettuali e stalinismo. In Italia, la condanna all'oblio decretata da alcuni intellettuali nei suoi confronti è dovuta proprio all'accusa di essere stato uno stalinista. Ma è vero piuttosto il contrario. Vale la pena a questo proposito di leggere alcuni brani tratti soprattutto dall'ultimo saggio del libro, Testamento politico, che dà titolo all'intera raccolta. Il volume contiene scritti che risalgono al periodo post-bellico, dal 1946 al 1971. Tre di essi sono stati pubblicati da tempo in italiano: La visione aristocratica e democratica del mondo, I compiti della filosofia marxista nella nuova democrazia, La responsabilità sociale del filosofo, che risalgono agli anni compresi tra il 1946 e il 1950. Pubblicata per la prima volta è una lettera a Cesare Cases dell'8 giugno 1957, cioè dopo il ritorno di Lukács dalla deportazione in Romania, dopo la Rivoluzione Ungherese del 1956. Inediti in italiano sono un'intervista del 1969, il saggio Al di là di Stalin (1969) e uno scambio espistolare con Janos Kadar, l'allora segretario del Partito comunista ungherese. Il carteggio avvenne nel 1971 in seguito all'intervento di Lukács a favore di due giovani dissidenti ungheresi, Dalos e Haraszti, accusati di maoismo e arrestati. Da questo scambio epistolare nacque l'idea di intervistare il vecchio filosofo per raccogliere le sue ultime riflessioni politiche. Ne sortì il Testamento politico apparso finora soltanto in ungherese nel 1990, cioè dopo la fine del regime, che ne aveva vietato la pubblicazione.
Per comprendere che tipo di lotta che Lukács condusse contro lo stalinismo è sufficiente limitarsi a narrare i fatti. Lukács entrò a far parte del Partito comunista ungherese nel dicembre 1918. Partecipò alla Rivoluzione ungherese dei consigli del 1919 e per questo fu condannato a morte dal governo reazionario di Horthy. Fu così costretto a rifugiarsi prima in Austria e poi in Germania. Durante questo periodo (1919-1930) i suoi rapporti con la maggioranza del partito comunista, guidata da Bela Kun, furono sempre cattivi anche perché Lukács sosteneva l'alleanza con i socialdemocratici contro la politica di Kun e di Stalin. A causa della salita al potere di Hitler, dalla Germania fu costretto a rifugiarsi in Unione Sovietica, dove rimase fino al 1946, quando fece ritorno nell'Ungheria liberata dall'Armata Rossa. In Urss i suoi rapporti con il regime stalinista furono tanto cattivi che lo stesso Lukács fu arrestato nel 1941 per un mese.
In Ungheria la posizione di Lukács rimase «tranquilla» soltanto per pochi anni, dal 1946 al 1949, quando le sue aperture politiche nei confronti dei partiti cosiddetti «borghesi» e la democrazia occidentale furono dichiarate eccessivamente eclettiche e quindi condannate. Nel 1949 si scatenò nei suoi confronti una offensiva di stampa da parte del regime comunista che portò alla sua destituzione dall'Università di Budapest. Lukács si fece «dimenticare», dedicandosi alla stesura della sua Estetica, salvo tornare all'attività politica intensa nel 1955. I suoi discorsi, tenuti presso il "Circolo Petöfi", erano diretti contro il regime stalinista ungherese, messo in crisi dalla morte di Stalin e da una forte crisi economica, ed erano talmente affollati che era necessario affittare un teatro per contenere la folla.
Nell'ottobre 1956 lo scoppio della rivoluzione permise a Lukács di entrare nel governo Nagy e nel Comitato centrale del Pcu. Particolarmente drammatica fu la riunione nella notte tra il 3 e il 4 novembre, quando il Comitato centrale doveva decidere l'uscita o meno dell'Ungheria dal Patto di Varsavia. Kádár, che diverrà poi segretario del partito, votò a favore dell'uscita per offrire ai sovietici un pretesto per giustificare l'invasione dell'Ungheria, che era stata già decisa. Lukács votò, invece, a favore della permanenza nel patto di Varsavia per non offrire questo pretesto. La decisione di uscire fu presa con 3 voti contro 2 e da lì la tragedia dell'Ungheria con la pretesa giustificazione sovietica.
A seguito della sua partecipazione al governo Nagy, Lukács fu deportato con tutto il governo in Romania. Dopo sei mesi, fu riportato a Budapest e ritornò ai suoi studi, pur non volendo una «riconciliazione con la realtà alla maniera del vecchio Hegel» e mantenendosi fedele al motto di Zola, «La verità è lentamente in marcia e alla fine nulla la fermerà», come scrive nella lettera a Cases. Nel 1967 gli fu chiesto dal Comitato centrale di rientrare nel partito e Lukács accettò, salvo uscirne nuovamente il 24 agosto 1968 a seguito dell'invasione della Cecoslovacchia. Gli ultimi anni di vita - Lukács morì il 4 giugno 1971 - il filosofo li trascorse impegnato nella stesura dell'Ontologia dell'essere sociale, ma sempre pronto a partecipare alla vita politica del paese in posizione critica, come conferma il carteggio con Kádár.
Costante fu il suo rifiuto di accettare i diktat del regime stalinista, come conferma il saggio Al di là di Stalin, che è una sorta di bilancio dei suoi rapporti con lo stalinismo. Saggio che deve essere costato tantissimo al filosofo ungherese, perché vi è anche il riconoscimento di qualche compromesso con lo stalinismo, ma sempre al fine di guadagnare posizioni per ottenere maggiori spazi di libertà. Spazi che poi furono patrimonio comune degli intellettuali ungheresi, che poterono godere delle maggiori aperture di un regime post-stalinista come quello kadarista. Conferma ne è, paradossalmente, la stessa vicenda Dalos e Haraszti, quando Lukács interviene per protestare contro la condanna a 25 giorni di prigione inflitta ai due dissidenti.
Paragoniamo la vicenda di Lukács a Ernst Bloch, altro grande pensatore marxista che fu coinvolto in vicende drammatiche di contrasti con il regime comunista tedesco-orientale e che preferì fuggire in Germania occidentale dopo la costruzione del Muro di Berlino: la posizione di Lukács invece fu quella di rimanere a lottare contro il regime ungherese perché ritenne che questa era la sua lotta per la libertà e la «democrazia socialista» nel suo paese. Una scelta che non può essere scambiata per un atto di compromesso con lo «stalinismo» e con il «socialismo reale», come i nuovi documenti di cui sopra contribuiscono a confermare.
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