mercoledì 12 maggio 2004

il pensatoio di Repubblica
nazismo irrazionalità normalità

una segnalazione di Sergio Grom

Repubblica 12.5.04
MA NOI NON SIAMO VITTIME
Un saggio sulle radici delle atrocità della shoah
Se vogliamo dare un senso alla parola pace bisogna allargare la comunità morale ed estendere i diritti
L'autrice, Marcella Ravenna, è figlia di un deportato ad Auschwitz Gli stessi orrori si ripetono quando il gruppo dominante esclude l´"altro"
di UMBERTO GALIMBERTI


Leggo, riportato da Marcella Ravenna, autrice di Carnefici e vittime. Le radici psicologiche della Shoah e delle atrocità sociali (Il Mulino pagg. 396, euro 24) che «un numero imprecisato di prigionieri talebani nel tragitto fra Kunduz e la prigione di Sheberghan sono stati ammassati in grandi container sigillati e lasciati sotto il sole a morire asfissiati. Tutti gli operatori per i diritti umani e funzionari afgani confermano di aver ascoltato la stessa versione dei fatti», peraltro riportati da Repubblica il 19 agosto 2002 in un articolo dal titolo «Afghanistan una guerra sporca. Gli Usa lasciarono sterminare migliaia di prigionieri».
Marcella Ravenna, figlia di un deportato ad Auschwitz a cui sterminarono tutta la famiglia, accosta questo episodio ad altre atrocità analoghe, verificatesi in epoca nazista, e si domanda come mai, in contesti diversi, con motivazioni diverse, con ideologie diverse, o addirittura senza neppure bisogno di ideologie, succedono le stesse cose, ossia la sospensione delle norme che generalmente inducono le persone a non danneggiare altri esseri umani e a prestare loro aiuto in caso di bisogno e di necessità. Se avesse potuto, l´autrice avrebbe raccontato anche le torture nella prigione irachena di Abu Ghraib.
Follia collettiva? No. Esclusione, maltrattamento, atrocità ed eccidi non dipendono dall´irrazionalità o dalla psicopatologia di chi li attua, ma da una serie di processi psicologici «normali» che caratterizzano il modo in cui le persone funzionano nella vita sociale ordinaria. Così, ad esempio, nessuno può vivere se non raggiunge un adeguato concetto di sé che gli psicologi chiamano «identità». L´identità, a sua volta, si costruisce attraverso il riconoscimento che uno ottiene. Hegel arriva a dire che mentre gli animali uccidono per alimentarsi, gli uomini uccidono per essere riconosciuti. Per «onore» quindi, per salvaguardare la propria «identità», non per fame.
E come i bambini, misconosciuti in famiglia o a scuola, si associano in bande per trovare nel cerchio ristretto di appartenenza il riconoscimento della loro identità, così particolari contingenze storiche e sociali possono attivare analoghi processi sociopsicologici in grado di trasformare le condizioni di disagio vissute da una popolazione in ostilità nei confronti di altri gruppi. Se poi su tali sentimenti di ostilità intervengono ideologie o forme di propaganda il passo a considerare legittimo l´uso della forza, fino agli esiti estremi e alle atrocità più incredibili, il passo è non breve, brevissimo.
Si comincia da piccoli con l´esclusione dalla comunità morale degli animali a cui non si riconosce alcuna affinità psicologica, per cui è possibile attuare nei loro confronti quel processo di esclusione che li visualizza come esseri inferiori, quando non addirittura come oggetti d´uso da sfruttare a proprio vantaggio. Passare poi dagli animali, agli stranieri, ai barboni, ai vecchi, ai malati di mente, agli zingari, agli ebrei e non di rado anche alle donne, non è difficile quando è innescato il meccanismo che separa il gruppo di appartenenza (In Group), da cui si attende il riconoscimento della propria identità, dagli altri gruppi (Out Group) che vengono esclusi dalla comunità morale, per ragioni che vanno dall´ideologia alla religione, dall´appartenenza di genere a quella etnica, dal colore della pelle all´età, alle capacità cognitive, agli stili di vita.
Basterebbe questo per chiudere tutte le scuole private, non perché promuovono o bocciano, ma perché «separano», perché coloro che le frequentano provengono e cementano un gruppo di appartenenza che porta inevitabilmente con sé delle procedure di esclusione che, nei momenti drammatici della storia, producono effetti che, quando non sono di atrocità, sono di indifferenza, menefreghismo, egoismo, perché a suo tempo non si è avuta la possibilità di sperimentare il «diverso» come «prossimo tuo».
La scuola pubblica, ritrovo delle differenze, questa opportunità la offre. Ed educarsi alla frequentazione del diverso è la prima condizione che dispone psicologicamente a intendersi con chi non è nato nella stessa culla dove siamo nati noi. Questa disposizione psicologica eviterà in seguito di escludere dal proprio universo morale stranieri, avversari, membri di gruppi svantaggiati, e indurrà a riconoscere a loro gli stessi obblighi morali che sentiamo per i nostri familiari e amici.
Se vogliamo dare un contenuto concreto alla parola «pace», questo consiste nell´allargamento della comunità morale, in modo da considerare titolare di diritti non solo gli appartenenti al proprio gruppo con cui condividiamo alcuni orientamenti di fondo, ma tutti i «remoti» della terra da cui ci sentiamo psicologicamente distanti. Dove la distanza non è solo quella che ci separa dalla Cecenia, dall´Afghanistan o dall´Iraq, ma il pianerottolo che ci separa dal vicino di casa.
Voci nel deserto (Guerini & Associati, pagg. 262, euro 18) li chiama Pietro Kuciukian i giusti non armeni che, in occasione dei massacri del 1915, hanno salvato la vita di uomini, donne, bambini armeni che non rientravano nel loro gruppo di appartenenza, ma non erano esclusi dal loro scopo di giustizia. Tra i «giusti» rientrano anche i «testimoni» che non hanno taciuto, rincantucciandosi nel silenzio dell´indifferenza, ma hanno denunciato il genocidio, raccolte le prove che furono poi trasmesse ai figli e ai figli dei figli, fino a ottenere, alla fine del secolo scorso, il riconoscimento del genocidio armeno da parte di tutte le nazioni occidentali, con la sola esclusione della Turchia e di Israele.
Se il genocidio degli armeni e poi quello degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali, dei malati di mente avvenuto nella Seconda guerra mondiale appartengono al passato, non appartiene al passato l´atteggiamento che assumiamo di fronte alle immagini televisive che ci fanno vedere profughi in fuga dai loro paesi per fame o per ragioni politiche, bambini africani che muoiono di fame o di Aids, cadaveri nei fiumi, volti contorti nello strazio e nella disperazione.
Spesso decidiamo consciamente di evitare queste informazioni, qualche volta non sappiamo neppure quanto escludiamo e quanto accettiamo. Il più delle volte assorbiamo tutto e restiamo passivi. E se il diniego politico è cinico, calcolato ed evidente, il nostro diniego, quello che si muove tra consapevolezza e inconsapevolezza, è disastroso, perché toglie ogni speranza a una possibile reazione e inversione del corso degli eventi.
Prima dell´ideologia, prima della propaganda è il linguaggio, quello che ognuno di noi ha a disposizione, il grande alleato del diniego che può essere letterale: «non è successo niente», «non c´è stato alcun massacro», «non sarebbe potuto succedere senza che noi lo sapessimo»; interpretativo: per cui la pulizia etnica si chiama «scambio di popolazioni», un massacro civile «danno collaterale», una deportazione «trasferimento di popolazione», una tortura «pressione fisica», una guerra «missione di pace». Oppure, ed è il più diffuso, il diniego può essere implicito e ciò avviene quando non si negano i fatti, si esclude solo che questi fatti interpellino proprio noi.
I bambini che muoiono di fame in Somalia, gli stupri di massa delle donne in Bosnia, i massacri di Timor Est, i senzatetto nelle nostre strade sono fatti riconosciuti, ma non sono percepiti come un elemento di disturbo psicologico o carichi di un imperativo morale ad agire. Il diniego implicito che qui scatta è lo stesso per cui, di fronte a un incidente stradale, i testimoni si dileguano, perché «il fatto non ha niente a che fare con loro» perché «ci penserà qualcun altro».
Ogni tipo di diniego comporta una falsificazione della nostra condizione psicologica. Nel diniego letterale non si vuol sapere ciò che si sa; in quello interpretativo si vuole evitare, attraverso una riformulazione di comodo dei fatti, di essere interpellati legalmente o moralmente; in quello implicito si visualizzano i fatti come estranei alla propria competenza, in modo da sentirsi esonerati da un pronto intervento. Per arrivare a queste conclusioni è necessaria una falsificazione del nostro apparato cognitivo (non riconoscere i fatti che si conoscono), emozionale (non provare sentimenti di fronte a fatti che li sollecitano), morale (non riconoscere nei fatti alcuna valenza di ingiustizia o di responsabilità), e di azione (non agire in risposta a quanto conosciamo).
Qui scatta quella che Marcella Ravenna definisce la «morale dell´appartenenza» che tende a difendere il gruppo familiare o comunitario e a ignorare tutto il resto. Ma oggi che i mezzi d´informazione ci fanno conoscere quanto accade in tutto il mondo, il persistere della morale dell´appartenenza non ci consente di vivere all´altezza del nostro tempo, se non a colpi di diniego, che può assumere o la forma dell´indifferenza per tutte le disgrazie che accadono lontano da noi, o la forma dell´insensibilità dovuta al fatto che fondamentalmente i miei bambini non muoiono e non moriranno di fame, e che io non sono stato né sarò cacciato da casa mia dopo aver visto mia moglie uccisa a colpi di machete.
Se non allarghiamo i confini della nostra comunità morale, e non estendiamo lo scopo di giustizia oltre il nostro gruppo d´appartenenza, il ruolo di carnefici e vittime, prima o poi finisce con l´invertirsi. E, se non siamo ciechi, già se ne vedono le avvisaglie.