giovedì 1 luglio 2004

storia:
«L’Ottocento crollò come un grattacielo minato»

La Stampa 1 Luglio 2004
L’ANNIVERSARIO DELL’ATTENTATO DI SARAJEVO CHE NEL 1914 INNESCÒ IL PRIMO CONFLITTO MONDIALE
L’Ottocento crollò come un grattacielo minato
di Giovanni De Luna


«IL 12 giugno le forze dell'Europa occidentale varcarono la frontiera, e cominciò la guerra, si verificò cioè un avvenimento contrario alla ragione umana e a tutta quanta la natura dell'uomo. Milioni di uomini commisero, gli uni contro gli altri, una quantità talmente innumerevole di misfatti, di inganni, di tradimenti, di furti e di saccheggi, di incendi e di omicidi, che la cronaca di tutti i tribunali del mondo non ne avrebbe potuto assommare altrettanti nel corso di secoli interi, e che non vennero considerati crimini, durante quel periodo, da coloro che li commisero». Questa pagina di Guerra e Pace si riferisce, al 1812, all'invasione della Russia da parte delle truppe di Napoleone Bonaparte. Ma la grandezza sterminata di quel libro è racchiusa proprio nella sua capacità di scandagliare le profondità più remote del rapporto tra gli uomini e la guerra, proponendosi come una guida per leggere tutte le guerre, anche quelle del Novecento e del post-Novecento.
La Prima guerra mondiale fu esattamente «un avvenimento contrario alla ragione umana», come tutte le altre. In tre anni, dalla parte italiana caddero 16800 ufficiali e 571000 soldati (saliranno a 652000 nel 1925, contando quelli morti successivamente, in seguito alle ferite riportate); in compenso l'Italia, con la conquista di Trieste e Trento, aveva ampliato il suo territorio (passando da 287.000 a 310.000 km2), aumentando così anche la sua popolazione (da 36,1 a 38,8 milioni di abitanti). Sembrano cifre costruite apposta per legittimare lo scetticismo di Tolstoj, il suo orrore per l'insensatezza della guerra, la sua sfiducia nella capacità della storia di spiegare razionalmente quelle catastrofi. Ma lo storico è costretto dal suo mestiere a fare proprio il contrario, a cercare cause, a fornire interpretazioni, ad attribuire razionalità a quello che sembra solo un groviglio di casualità, atti arbitrari, scelte occasionali ed emotive.
Tutto questo per dire che c'è la forte tentazione di lasciare l'attentato da cui novant'anni fa scaturì la Prima guerra mondiale, negli album in cui gli storici si divertono a classificare «le cause» di un evento, senza caricarlo di significati eccessivi. Ricordiamolo: il 28 giugno 1914, a Sarajevo, lo studente serbo Gavrilo Princip, un irriducibile indipendentista, uccise l'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco. Rileggiamo ancora Tolstoj, a proposito dell'invasione napoleonica: «Quali ne erano state le cause? Gli storici, con ingenua sicurezza, dicono che le cause di questo avvenimento furono l'offesa subita dal duca di Oldenburg, le violazioni del sistema continentale, la brama di potere di Napoleone, gli errori ddiplomatici, ecc...»; dopo aver ironizzato sulla futilità di queste «cause», Tolstoj conclude: «a noi posteri che non siamo storici di professione e possiamo contemplare l'avvenimento senza che il nostro buon senso sia ottenebrato, risulta evidente che le cause di esso siano incalcolabili. Quanto più ci addentriamo nella ricerca delle cause, tante più ne scopriamo, e ogni singola causa ci appare ugualmente giusta se presa di per sé, e ugualmente falsa se si considera l'enormità dell'avvenimento, rispetto alla quale essa risulta insignificante...».
Quello che oggi si può concedere agli spari di Gavrilo Princip è un significato fortemente simbolico. Per il resto, il suo gesto si inserisce in uno scenario talmente fitto di attori e di trame diverse che, inevitabilmente, lo studente serbo è stato chiamato a retrocedere in un anonimato solo recentemente allentato dalle aspre polemiche divampate nella ex Jugoslavia sulle rispettive storie nazionali (in maniera quasi grottesca i manuali scolastici serbi lo esaltano come patriota, quelli croati lo bollano come terrorista).
Per quanto semplicistico possa sembrare, veramente nel 1914 i cannoni «cominciarono a sparare da soli» e gli spari di Sarajevo si persero in un fragore assordante. Certamente oggi si possono indicare molti motivi razionali che spinsero il mondo in una zuffa gigantesca. I manuali insistono sulla strenua competizione economica e politica scaturita dalle rivalità imperialistiche che avevano dilaniato il sistema politico internazionale. Per ognuna delle grandi potenze esistevano particolari motivi di malcontento che potevano spingerle alla guerra. La Francia voleva recuperare l'Alsazia e la Lorena, la Gran Bretagna era preoccupata per la nascita di una grande flotta tedesca, la Russia voleva il controllo di Costantinopoli e degli stretti, la Germania pretendeva un «posto al sole», l'Austria voleva bloccare il sorgere del nazionalismo nei Balcani e nel territorio stesso dell'Impero, l'Italia voleva competere con la Francia nel Mediterraneo e togliere all'impero austro-ungarico il Trentino e Trieste. Queste rivendicazioni si erano definite anche in termini di alleanze e schieramenti: Francia e Gran Bretagna (e Russia) da un lato, gli imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) dall'altro, ognuno con il suo seguito di alleati e satelliti.
E però, anche la fondatezza storica di queste cause lascia irrisolto una sorta di «mistero» storiografico. Ricordiamolo: tra il 1870 e il 1914, tra i paesi industrializzati non ci furono guerre e nessuno pensava di mettere seriamente in discussione i confini tra gli stati europei. Un concerto di grandi potenze regolava pacificamente le questioni internazionali. Fu quella (soprattutto tra il 1900 e il 1914) la belle époque, un'era pacifica e operosa, caratterizzata da una grande fiducia in un progresso che si prevedeva senza limiti. Allo sviluppo del capitalismo industriale si accompagnava l'espansione della democrazia politica, con milioni di cittadini che finalmente potevano votare, esprimere la propria opinione, pesare sulle scelte politiche dei propri paesi. Alla stabilità internazionale corrispondeva quella interna: i governi - quasi tutti costituzionali, e nella maggioranza parlamentari e democratici, o almeno tendenti alla democrazia - non erano seriamente minacciati da sovvertimenti (con la sola eccezione parziale di quello russo); il contrasto dei partiti si svolgeva per lo più nell'ambito di una libertà ordinata.
Ebbene, rivedendola oggi, questa immagine di serenità e di compostezza somiglia molto a quella di un grattacielo da demolire con l'esplosivo: un attimo prima é intatto con le sue facciate e le sue finestre, un attimo dopo crolla in un rovinìo di polvere e macerie; in quello stesso periodo si affermarono, infatti, anche le forze centrifughe che avrebbero minato dall'interno quel sistema: «l'elemento più caratteristico della nostra età, quello che la distinguerà nella maniera più incresciosa -, scrisse allora Gide nel suo Diario - è di far abitare l'idea di perfezione non più nell'equilibrio e nella misura, ma nell'estremo e nell'eccessivo».
Si trattò di una congiuntura mai prima sperimentata nella storia dell'uomo; l'impatto con la modernità scatenò una pulsione irrazionale, una sorta di cupio dissolvi in cui dare l'addio al vecchio mondo, battezzando il nuovo con gli orrori di una inedita morte di massa. Fu - come sottolineò Guglielmo Ferrero in I due mondi (1913) - il momento del passaggio «delle aspirazioni umane dal limitato all'illimitato» e fu allora che il Novecento assunse le vesti del secolo «in cui si farà abitare l'idea di perfezione non più nell'equilibrio e nella misura ma nell'estremo e nell'eccessivo...». Quello che allora finì, e finì per sempre, fu la fiducia nel mondo. Stephan Zweig, (morto suicida nel 1942) scrisse nel suo testamento spirituale, Il mondo di ieri: «una meravigliosa spensieratezza si era diffusa per il mondo, chi poteva interrompere questa ascesa, chi calcolare l'impulso che nel suo slancio rivelava sempre nuove energie? mai l'Europa fu più forte, più ricca, più bella, mai credette più profondamente in un futuro ancora migliore». Quel futuro fu azzerato di colpo da una immane carneficina.
Per la prima volta nella storia dell'umanità le operazioni belliche furono estese a tutti i continenti della terra (il Giappone, ad esempio, si impadronì subito dei possedimenti tedeschi in Cina), quasi a tradurre in termini tragicamente distruttivi quell'unificazione spaziale del mondo già avviata grazie al telegrafo e al vapore. Agli stati belligeranti e alle loro colonie direttamente coinvolte nel conflitto si aggiunsero i rispettivi fiancheggiatori, i paesi produttori di materie prime come lo zucchero (Cuba) o la carne (Argentina), che avrebbero pesato in modo significativo sulle sorti dello scontro. I fronti di guerra ripetevano la complessa geografia di questa nuova spazialità planetaria, estendendosi dalle masse continentali agli oceani.
Quando cessarono gli spari, il mondo era cambiato, definitivamente; crollarono tutti i riferimenti politici, sociali, culturali del vecchio ordine ottocentesco. Fu come se si fosse spalancato un immenso cratere in cui scomparvero imperi plurisecolari (la Russia zarista, l'Impero ottomano, la Cina, l'Austria-Ungheria), forme di organizzazione politica e statale,modi di vivere: alla fine, morirono quasi 9 milioni di soldati, con più di 21 milioni di feriti e di mutilati, mentre il totale delle spese belliche ammontò a 600.000 milioni di dollari (12 volte il reddito annuo degli Stati Uniti nel 1916). Era nato il Novecento e il nuovo secolo avrebbe introiettato nel suo patrimonio genetico il nesso con la violenza e con la guerra.