Unionesarda.it 2 settembre 2004
La polemica sulla legge olandese
L'eutanasia e il senso della vita
di Tonio Barracca
Di chi è la vita? Forse ha ragione chi pensa che non abbia molto senso porsi questa domanda. Da alcune migliaia di anni l'uomo nasce e muore senza aver dato mai una risposta a questo interrogativo. Chi crede in Dio ritiene che ci sia un progetto e quindi un senso soprannaturale nella vita dell'uomo e della natura; chi invece non ci crede ritiene che la vita sulla terra e quella dell'uomo siano frutto "del caso e della necessità" e che con la morte tutto finisca.
Ma la vita che comunque viviamo di chi è ? Possiamo ritenerla nostra? Possiamo spenderla come ci pare? Dobbiamo renderne conto a qualcuno ? «Di chi è la mia vita» è il titolo del film nel quale Richard Dreyfus interpreta la parte di uno scultore che una mattina di un giorno qualsiasi finisce con l'auto sotto un camion e resta paralizzato dal collo in giù; non solo, per continuare a vivere deve fare la dialisi. Questa condizione modifica radicalmente la sua esistenza, tanto da spingerlo a pensare di essere un uomo morto. L'arte, la scultura erano, infatti, tutta la sua vita. Questa nuova condizione che imprigionava il corpo e gli impediva di esprimere l'arte che aveva dentro, era la morte del suo spirito. Ma no, diceva John Cassavetes, nella parte del medico, tu sei solamente depresso. Se curiamo la depressione tu potrai vivere bene accettando anche questa nuova condizione di vita. Convinto che ormai il suo spirito sia definitivamente morto, Dreyfus chiede di poter interrompere il filo che lega il suo corpo alla vita, di sospendere cioè la dialisi. Combatte perciò una solitaria battaglia che lo porterà fino alla Corte Suprema che riconoscerà le sue ragioni.
La realtà quotidiana è molto più articolata. Fra i malati terminali e quelli affetti da gravi infermità si riscontra sia la difficoltà di accettare una vita comunque difficile, fatta di dolori e di dipendenza fino a chiederne la interruzione, che quella di voler continuare a vivere comunque e di sperare. I casi singoli non possono far legge. Ma noi abbiamo bisogno di leggi; e queste rispecchiano la cultura dei popoli, il livello del dibattito etico, l'influenza delle culture laica e religiosa. Ma il problema comunque esiste ed è maturo. La legislazione più permissiva, in quest'ambito, è quella olandese che dal 2002 autorizza l'eutanasia per i malati incurabili dai 12 anni in su, in caso di sofferenze intollerabili, e che è stata, in questi giorni, aggiornata da un protocollo fra le autorità giudiziarie olandesi e la clinica universitaria di Groningen, che stabilisce che l'eutanasia possa essere praticata sui bambini al di sotto dei 12 anni e persino sui neonati.
Vorrei però riprendere il filo del ragionamento per rispondere alla domanda iniziale, "Di chi è la vita ?". Si nasce e si muore da soli e l'unica cosa che possiamo fare è dare un senso alla vita. Non solo alla nostra vita, ma anche a quella dei nostri simili con i quali abbiamo la fortuna di percorrere assieme questa meravigliosa avventura. La sfida della vita perciò è quella di costruire un società che dia a tutti la possibilità di esprimere se stessi nella buona e nella cattiva sorte; un sistema sociale che, attraverso l'amicizia, la solidarietà, il lavoro e la sicurezza sociale dia a tutti il senso compiuto di appartenenza ad una società. Solo in questa maniera sarà possibile affrontare la vita con le sue inevitabili difficoltà e vincere così la paura dell'ignoto che ci accompagna fin dalla nostra nascita.
Yahoo!salute
Violenza carnale: dopo il trauma
mercoledì 1 settembre 2004, Il Pensiero Scientifico Editore
Le conseguenze psicopatologiche di una violenza carnale possono essere più gravi di quelle relative a qualunque altro tipo di trauma. Un breve, significativo contributo di una équipe italiana del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell'Università di Firenze, dedicato a questo tema, è pubblicato nell'ultimo numero dell'American Journal of Psychiatry.
Faravelli ed i suoi collaboratori hanno registrato i sintomi riportati da 40 donne, vittime di stupro (accertato anche in sede giudiziaria) nel corso dei 9 mesi precedenti la ricerca, confrontandoli con quelli di 32 altre donne sottoposte ad altro genere di eventi stressanti, non di natura sessuale (incidenti stradali, aggressioni fisiche o scippi). Nessuna delle vittime di violenza aveva in precedenza subito abusi sessuali nel corso dell'infanzia o dell'adolescenza.
Le donne che hanno subito una violenza carnale hanno manifestato una maggiore prevalenza di disturbi post-traumatici da stress, così come disturbi della sfera sessuale, dell'alimentazione e dell'umore. In particolare, l'assenza di desiderio sessuale si è riscontrata nel 92,5 per cento delle donne vittime di violenza, mentre l'87,5 per cento mostrava sintomi di depressione. Questi dati dimostrano che le conseguenze psicopatologiche dello stupro hanno specificità proprie e devono essere considerate con particolarissima attenzione.
Bibliografia. Faravelli C, Giugni A, Salvatori S, Ricca V. Psychopathology after rape. American Journal of Psychiatry 2004; 161:1483-85.
martino dell'angelo
Yahoo!Salute
C'è depressione e depressione
giovedì 2 settembre 2004, Il Pensiero Scientifico Editore
Essere depressi significa in tutte le culture la stessa cosa? Se ne occupa Arthur Kleinman sull'ultimo numero del New England Journal of Medicine.
L'articolo si sofferma anche sulla problematica di sanità pubblica sottesa a questa domanda: per prestare ascolto ed aiuto a depressi di altre culture, i medici devono imparare a conoscere il significato della depressione anche in altri popoli. Per esempio, per i cinesi essere depressi è sconveniente ed accusarne le difficoltà psicologiche è da evitare: semmai, un cinese ne riporterà la sintomatologia fisica (noia, disagio, senso di oppressione e fatica ecc.). All'intelligenza del terapeuta sta allora comprendere a cosa fanno capo quei sintomi, il che è tanto più importante, in quanto una visita al medico su cinque, negli Stati Uniti, è motivata dalla depressione, indipendentemente dal censo e dall'appartenenza etnica.
A complicare le cose, c'è il fatto che la depressione non è solo una malattia, ma anche una condizione esistenziale. Non c'è chi non abbia sperimentato in alcuni momenti uno stato di depressione, che è cosa diversa dalla malattia depressiva. Occorre quindi intanto saper distinguere fra stati e momenti di depressione e malattia depressiva che insorge quando non si riesce più a uscirne fuori. Ma la depressione può anche esser sintomo di una malattia mentale (come il disturbo bipolare, un disturbo d'ansia o la schizofrenia), così come di altre malattie organiche, come il diabete, problemi tiroidei o sindromi postvirali. Tra i rifugiati, la sintomatologia depressiva è assai comune, legata alle esperienza di perdita ed al trauma. La somatizzazione di questi sintomi, però, varia anche all'interno della stessa etnia - come nel caso di messicani, cubani o portoricani. A complicare la relazione medico-paziente concorrono anche le differenza di età, sesso, grado di scolarizzazione, impedendo di fatto una standardizzazione delle forme depressive. Tra le donne di colore, per esempio, i tassi di depressione e suicidio sono più bassi che tra le caucasiche e tra gli immigranti sono più bassi che tra i loro discendenti.
Alcuni comportamenti, apparentemente depressivi, possono non esserlo per rappresentanti di altre culture: la durata media dei sentimenti di un lutto, secondo il DSM -IV, si aggira sui due mesi: ma per certe culture è "normale" portare il lutto per due anni. Resta il fatto che molta gente che soffre di depressione clinica - almeno il 50 per cento tra gli immigrati e le minoranze degli Stati Uniti - non riceve una diagnosi e tanto meno una terapia antidepressiva. La ragione più evidente è la mancanza di accesso ai servizi, ma contribuiscono alla mancata diagnosi anche non poche ragioni culturali. Queste non confondono soltanto la diagnosi e la terapia, ma anche la ricerca di aiuto, la comunicazione tra medico e paziente. Si è ormai appurato che esiste una sorta di "biologia locale della depressione", per cui appartenenti a gruppi etnici diversi metabolizzano addirittura in modo diverso i farmaci antidepressivi.
Attenzione però a non fossilizzare le culture e a considerarle variabili statiche: per loro natura, sono dinamiche, legate a fattori economici, sociali, ambientali, climatici, religiosi. Per alcune culture, lo stigma del depresso è una realtà con la quale occorre confrontarsi. Senza dimenticare, aggiungerebbe il filosofo norvegese Jon Elster, che una delle acquisizioni della psicologia sociale è che gli individui che formulano i giudizi migliori - nel senso di più abili a lasciarsi condurre dal principio di realtà piuttosto che da quello di piacere - sono anche leggermente depressi. Con il che Elster dimostra una certa assonanza con la freudiana "posizione depressiva": tutto sommato, diceva Freud, una personalità integrata tenderà ad essere un poco depressa, ma questo tanto di depressione testimonia proprio di una raggiunta, e sempre relativa, consapevolezza.
Bibliografia. Kleinman A. Culture and depression, NEJM 351:951-953.
martino dell'angelo
Sanihelp.it
PSICHIATRIA: L'AGGRESSIVITA' SPENTA COL TELECOMANDO
Data: 02.09.2004 - 19:24 - MILANO
(ANSA) - MILANO, 2 SET - Un telecomando, un pacemaker sottopelle e due elettrodi nel cervello per impedire all'aggressivita' di manifestarsi e permettere cosi' a pazienti psichiatrici prima costretti a essere vigilati 24 ore su 24, di ricominciare a vivere una vita quasi normale. Potrebbe essere davvero rivoluzionaria questa terapia che sta sperimentando all'Istituto Besta di Milano Angelo Franzini, il neurochirurgo che con una tecnica simile ha trattato con successo, due anni fa, la cefalea a grappolo. Franzini, che ha 53 anni, ha gia' realizzato i primi due interventi di questo tipo su pazienti psichiatrici - come riferisce egli stesso in un'intervista esclusiva al mensile 'Maxim' sul numero di settembre in edicola domani - e i lusinghieri risultati saranno pubblicati a fine anno dal Journal of Neurology, Neurosurgey e Psychiatry. A beneficiarne sono stati due pazienti ''prima condannati al letto di contenzione'' ma che oggi hanno ben altre prospettive, tanto che ''uno di essi e' stato gia' avviato al reinserimento sociale in comunita'''. ''La psicochirurgia e' stata una tragedia dell'umanita' che non ha prodotto che gravissimi problemi mentali e demenze croniche - dice Franzini nell'intervista, riferendosi agli anni bui della lobotomia e dell'elettroshock - Questa nuova tecnica, chiamata 'neuromodulazione cerebrale per i disturbi comportamentali', non produce, invece, lesioni al cervello ed e' in grado di impedire ad alcuni sintomi della malattia di manifestarsi. Il paziente non ha piu' attacchi di violenza e torna ad avere una vita sociale''. Uno dei due malati psichiatrici sottoposti all'intervento - secondo quanto racconta il neurochirurgo - non deve piu' essere scortato, legato, vigilato. E a 37 anni, dopo una vita da carcerato, potra' tornare a vedere il mondo esterno. La teoria relativa a questa cura era gia' nota: Franzini ha infatti cominciato studiando i risultati di Kay Sano, un giapponese che negli anni '50 aveva individuato i probabili punti cerebrali di attivazione dell'aggressivita', ma allora era difficile raggiungerli e posizionarvi degli elettrodi senza danneggiare le zone limitrofe del cervello. ''La differenza - spiega ora il neurochirurgo milanese - e' che noi non facciamo mai lesioni, e l'elettrodo non interferisce con gli altri comportamenti del soggetto. In piu' l'impianto e' reversibile''. Gli elettrodi sono collegati a un pacemaker sottocutaneo, che viene programmato dal medico attraverso un telecomando che fornisce le sue istruzioni con correnti che vanno da 0,1 a 2 volt: ''Se gli attacchi aumentano, si alza il voltaggio e con esso l' impulso del pacemaker agli elettrodi; se invece diminuiscono il voltaggio puo' essere abbassato. Se poi la cosa non dovesse funzionare, il sistema puo' essere disattivato senza conseguenze''. ''Il vero problema - conclude Franzini - stava nel riuscire a individuare l'esatto punto del cervello in cui inserire gli elettrodi. Ora lo abbiamo trovato, e non e' escluso che questa tecnica, domani, possa essere decisiva anche in caso di depressione (quella endogena, che e' una vera e propria patologia cerebrale) e di gravi disturbi ossessivo-compulsivi. Il rischio operatorio? Oggi e' pari a quello di un intervento di by-pass''.(ANSA).
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»