martedì 26 ottobre 2004

Simona Maggiorelli, su Avvenimenti adesso nelle edicole
ipermercati dell'arte

da Avvenimenti attualmente nelle edicole

Discussioni
A Siena una triplice rassegna che racconta un mondo dell’arte sempre più abitato dalle merci. Fra apologia e critica no global

IPERMERCATI DELL'ARTE
Bonito Oliva, Toscani e Calabrese in una mostra. Ed è polemica
di Simona Maggiorelli

Colori sgargianti e plastificati, scatole di Brillo in gigantografia, l’omino della Michelin che spicca dalla parete all’inseguimento di chi lo guarda. E poi zizagando fra la merda d’artista firmata Piero Manzoni, fra i resti di una maxi-colazione McDonald’s riassemblati in fantasmatica scultura, ci si imbatte nel giallo limone delle Capri batterie di Joseph Beuys, si viene presi nelle maglie meccaniche di un Pesce idraulico, soverchiati da immagini di sparate locandine che, da ogni lato, reclamano attenzione. Una girandola euforica che ti anestetizza con la rappresentazione di un mondo di soli oggetti. Una giostra disforica che ti acchiappa a sorpresa, dove meno te lo aspetti, passeggiando fra monumentali spazi del complesso medievale di Santa Maria della Scala, su per le scalette del turrito Palazzo delle Papasse. E più ancora, c’è tutta una vertigine da fumetto che ti assale, inaspettata, nelle sale del Palazzo pubblico di Siena. La città stessa, dopo aver visitato questi tentacolari e dilaganti Ipermercati dell’arte, organizzati da Achille Bonito Oliva e da Omar Calabrese, sembra apparire, direbbe Marx, come un immane accumulo di merci. In cui l’umano è latinate. E non funziona da via d’uscita dallo stordimento neanche la sezione choc - quasi una mostra nella mostra - dei ritratti di condannati a morte scattati da Oliviero Toscani per una nota campagna pubblicitaria. Alla fine della fiera, la merce - fotografata, esaltata dalla pop art, ironizzata nel cartello di macelleria di Enrico Baj, romanticamente evocata nel tessitoio di Plessi, ferocemente attaccata nei manifesti "Compro dunque sono" di Barbara Kruger - resta l’unica vera e incontrastata protagonista.

Verso la morte dell’arte? In mezzo a oggetti rappresentati, deformati, riprodotti e che portano nomi illustri (Rotella, Palladino, Zuffi, Fabre, Castagnoli), fra le macchine celibi di Panamarenko, il colosseo di tv di Nam June Paik, e le lattine Campbell’s di Warhol, ci viene in soccorso una frase di Duchamp che spicca sulla parete. Ho voluto provocare con il mio orinatoio, dice, e oggi mi sento dire che è bello. "Una frase sconsolata, amara - commenta Omar Calabrese - l’ho voluta inserire perché rende bene il senso del salto che si ebbe a partire dagli anni 50 e 60. Duchamp e i surrealisti ancora non avevano l’immagine della società di massa e di ciò che il boom dei consumi avrebbe portato". Quando Duchamp la pronunciò nel 1917, certamente non immaginava l’avvento di un “mercato globale di oggetti”, incorniciati e venduti a prezzo d’arte. E i suoi objects trouvés? Le sue ruote di bicicletta issate su rami d’albero? Oggetti sì, ma utilizzati, solo come provocazione estetica, senza nessuna critica o apologia della società dei consumi ancora di là da venire. E nemmeno ci aveva beccato troppo Majakovsky, quando diceva che la morte dell’arte sarebbe avvenuta il giorno in cui le poesie fossero finite sulle scatole di fiammiferi. "Sperava nell’avvento di un’estetica di massa - spiega Calabrese - soltanto che Majakovsky la immaginava rivoluzionaria, non omologata al ribasso".

Benvenuti nel mondo pop Il grande salto dell’arte nel magico mondo della merce si ha in America negli anni 60. A ricordarcelo è Achille Bonito Oliva, " fu l’avvento dell’american dream - dice - come sogno continuo di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce". La città americana stessa diventa il teatro dell’uomo di massa che resta "irregimentato nell’ingranaggio produttivo di una macchina che funziona senza sosta e che lo rende spettatore passivo". L’arte di quel periodo, allora comincia a restituirne la fotografia a colori forti, diventa tassonomica descrizione " fuori da questo inquadramento - aggiunge – restano solo i versi dell’Urlo di Ginsberg, il montaggio disperato di Burroughs, il cut up. Resta la sfilza di whisky che gli artisti ingurgitavano come tattica per non uscire dalla propria esperienza creativa, e non cadere sbattuti in questo tipo di quotidiano". L’iperrealismo e la pop art restano incollati alla piatta riproduzione del reale. Magari la deformano, ne fanno una cartolina. La loro onda lunga dagli anni 50 e 60 arriva fino ad oggi. Ma è così? È finita la ricerca che tenta di trasformare con fantasia la realtà percepita? Quella che lanciarono i Picasso, i Modigliani, i Matisse che rappresentavano sulla tela l’emozione di un incontro, di un volto, di un rapporto vissuto che lascia una traccia profonda? "Esiste una ricerca che riguarda la fantasia interiore, i sentimenti, la creazione di immagini nuove - ci spiega Calabrese - oggi la praticano singoli artisti. La società contemporanea è così complessa che non si riduce a un’unica tendenza. E non si può fare come per gli anni Dieci che si potevano individuare facilmente come gli anni di Picasso, dell’avanguardia storica". Ma aggiunge: "È anche vero, però, che la potenza della nostra società di massa è così forte che gli artisti è difficile non ne subiscano l’effetto. Se come artista, per esempio, mi metto a fare un’opera che rappresenta o che al contrario contesta il Grande fratello, è difficile che ci possa mettere dentro sentimenti, fantasia. Ma probabilmente quello che faccio è importante lo stesso. Viviamo in una società così brutta e insostenibile che anche questo tipo di reazione serve".

Croce, svastica e Coca Cola Con un titolo forte, Croce, svastica, Coca Cola, Olivero Toscani avrebbe voluto battezzare la mostra, prima di decidere per il più domestico Ipermercati dell’arte. " Perché - spiega - racconta bene i percorsi della storia dell’arte: una volta c’era la committenza della Chiesa, poi c’è stata quella del potere, oggi è l’economia a determinare tutto". Quali margini ci sono allora per la libertà creativa dell’artista? "È un’utopia. Non esiste un’arte che non sia asservita al mercato", provoca il fotografo di tante campagne pubblicitarie scandalo. "Bisogna lavorare in questo ambito e tentare, per come si può, di utilizzarlo. Non sono gli artisti solitari che possono abolire la pena di morte, ma possono farlo le industrie. Per una battaglia che mi interessava come fatto personale ho preso al balzo l’occasione che mi offriva la pubblicità, che è la voce della produzione". Non si nasconde Toscani. Messaggio micidiale il suo, che, a prestargli il fianco, lascia senza prospettive. Ma nel comitato scientifico di questa mostra superazionale e ipermaterialistica, non tutti, la pensano proprio come Toscani . "Oggi si registra un fenomeno particolare - dice Calabrese -. Artisti che lavorano come designer, fotografi, pubblicitari, che fanno altro per preservarsi spazi di autonomia nell’ambito dell’arte. Diversamente da quanto facevano i dadaisti e le avanguardie che si opponevano al mercato per rivendicare romanticamente una distanza dalla realtà, oggi si trovano artisti che entrano nel sociale senza contestarlo in blocco, ma cercando di rendersi autonomi". Fenomeni individuali o anche di gruppo? "Nella sezione della mostra intitolata “consumo contestato” - spiega Calabrese - ci sono molti artisti che attaccano lo stile di vita della nostra società. Si potrebbe pensare che si tratti di arte come impegno. Ma il fatto è che non sono gruppi strutturati. I movimenti organizzati a carattere ideologico sono molto meno forti nel mondo occidentale. Così l’artista tende a sostituirsi ai movimenti. È un fenomeno che ha esempi eclatanti, non solo nelle arti figurative, ma anche nella satira, nel teatro, nel cinema. Pensiamo a The terminal: lì Spielberg fa una feroce denuncia dell’isolamento che si vive nella società contemporanea. Ma non si può certo dire che il regista sia legato a un movimento o a un’organizzazione politica. Non so questo fenomeno sia un bene. A me non pare".