La sfida della ragione alle antiche gerarchie
Il Settecento nasce tradizionale e muore moderno con il trionfo del paradigma scientifico di Newton
di Carlo Capra*
Il Settecento: secolo dei Lumi, della ragione trionfante, dell' Encyclopédie e della corrosiva ironia voltairiana; secolo dei salotti, delle damine incipriate, dei cicisbei. Immagini stereotipe, ma non prive di una loro verità, purché inquadrate nella giusta prospettiva: la diffusione di una nuova cultura in un'Europa ancora dominata dalle forze della tradizione, l'affermazione di una nuova socialità in contrasto con le antiche gerarchie e le antiche distribuzioni di ruoli (fra uomo e donna, fra ricchi e poveri, fra nobili e plebei). Soprattutto, se arretriamo al 1660 l'inizio di questa stagione della storia europea, come fa William Doyle nella sua densa e brillante ricostruzione in edicola con il Corriere , non possiamo fare a meno di collocarla sotto il segno del mutamento, della transizione alla modernità. I concetti di «età moderna», «storia moderna», legati alle nostre convenzionali partizioni accademiche e riferiti ai tre secoli abbondanti che vanno dalla fine del Quattrocento al 1815, tendono a oscurare questa realtà. Meglio sarebbe distinguere una «prima età moderna», corrispondente all' ancien régime francese, alla early modern history degli inglesi o alla frühmoderne Geschichte dei tedeschi, da una «piena modernità» che si dispiega a partire dal Settecento inoltrato e celebra i suoi trionfi nel secolo XIX; mentre la Zeitgeschichte , o «età contemporanea», non si dovrebbe far cominciare prima della fine dell'Ottocento o della grande guerra del 1914-18.
Il Settecento europeo, possiamo dire con una battuta, nasce tradizionale e muore moderno. Proviamo a delineare questo percorso in alcuni settori chiave della vita associata. Il grido d'allarme lanciato nel 1798 dal ministro anglicano Thomas Robert Malthus circa lo squilibrio tra popolazione e risorse, che sarebbe l'inevitabile risultato dell'incremento demografico, rifletteva l'esperienza storica piuttosto che le condizioni del presente, in via di rapida trasformazione per effetto dell'incipiente rivoluzione industriale. Dalla bottega artigiana al sistema di fabbrica e alla produzione di massa, dall'utilizzo della forza muscolare di uomini e animali (o al massimo dell'energia eolica e idraulica) alla macchina a vapore e quindi allo sfruttamento di fonti di energia minerali, è questa una svolta nella storia della civiltà materiale che è stata definita la più importante dopo quella dell'età neolitica. E la rivoluzione industriale è preceduta o accompagnata da non meno vistosi cambiamenti nel regime demografico (calo della mortalità e aumento della natalità), nell'agricoltura, nei trasporti, nel rapporto città-campagna.
Più indietro, agli ultimi decenni del XVII secolo, a quella che Paul Hazard ebbe a definire «la crisi della coscienza europea», dobbiamo risalire per trovare le origini delle idee e degli atteggiamenti mentali che si usano raggruppare sotto l'etichetta di Illuminismo.
I padri nobili sono Spinoza, Bayle, Locke, che posero le basi del deismo, la concezione di un Dio orologiaio, che ha dato la carica all'universo una volta per tutte e non interviene più nelle sue faccende; l'inventore o il perfezionatore del paradigma scientifico a lungo dominante fu Isaac Newton, il cui metodo, basato su osservazione spregiudicata dei fenomeni, sperimentazione e formulazione di leggi in termini matematici, scienziati e philosophes del Settecento cercheranno di estendere anche allo studio della vita e della psiche umana.
Da Londra e da Amsterdam, i centri di diffusione dei Lumi si sposteranno più tardi a Parigi, e in sottordine a Edimburgo, a Milano, a Napoli, a Ginevra, a Berlino, a San Pietroburgo. Da un lato le nuove idee si fanno strada in un pubblico più vasto di lettori di libri e giornali, sono veicolate da istituzioni ufficiali come le accademie o da nuove forme di socialità, non solo i salotti ma le logge massoniche, i caffè, i club; anche se bisogna guardarsi dall'errore di estendere la civiltà dei Lumi, patrimonio pur sempre di ristrette minoranze, alle classi subalterne ancora in gran parte immerse in un universo magico-religioso e fedeli alla visione del mondo tradizionale. Dall'altro la filosofia vola in soccorso dei governi: per riprendere la frase del nostro Filangieri, siede sul trono accanto ai despoti illuminati: Federico II, Caterina di Russia, Carlo III di Borbone, Pietro Leopoldo, Giuseppe II.
Ma il dispotismo (o assolutismo) illuminato è fenomeno tipico delle aree arretrate d'Europa, dove è lo Stato a fare premio sulla società civile. Se guardiamo all'Inghilterra e alla Francia, il quadro della vita politica cambia, coinvolge non solo i sovrani e i loro collaboratori, ma un'opinione pubblica sempre più avvertita ed esigente, propensa a giudicare secondo il metro della ragione e dell’utilità comune; e se oltre Manica essa è in grado di influire sull'azione dei governanti attraverso i canali del Parlamento e della libera stampa, sulle rive della Senna il confronto scivola fatalmente verso la contrapposizione frontale, la contestazione globale di quello che ben presto si chiamerà l'antico regime.
La convocazione degli Stati generali nel 1789, immaginata come strumento per puntellare la monarchia pericolante, si trasformerà nella levatrice di una nuova società, di cui è parte essenziale la transizione della sovranità dal monarca per diritto divino alla nazione, con tutto ciò che ne consegue (e contro cui vanamente lotterà la Santa Alleanza) in termini di eguaglianza di diritti, di rappresentanza dei cittadini e di autodeterminazione dei popoli. Non è una rivoluzione borghese secondo lo schema a lungo difeso dalla storiografia marxista, di una vittoria della borghesia e del capitalismo sul regime feudale, ma è comunque la fine (o il principio della fine) del vecchio assetto gerarchico e corporativo della società europea.
* Professore ordinario di Storia dell’età dell’illuminismo presso l’Università degli studi di Milano