venerdì 3 dicembre 2004

donne a Teheran

Repubblica 3.12.04
NOI DONNE DI TEHERAN
il vino nascosto dentro la borsetta
Perché si stanno svuotando le moschee
"Da bambine", si sente dire, "siamo costrette a recitare da adulte. Una volta cresciute viviamo di proibizioni"
La tentazione della modernità è molto forte, ma i richiami al vecchio ordine si fanno sentire in una contraddizione continua
di FRANCO MARCOALDI

TEHERAN. Sono in largo anticipo sull'appuntamento al ristorante Bistango e ne approfitto per fare un salto alla libreria Book-City. Sul bancone d'ingresso fanno bella mostra di sé una serie di volumi dedicati alla famiglia dello scià, con biografie di Reza Pahlavi, Soraya, Farah Diba e parentado. Molti i libri di cucina e manualistica varia, soprattutto su come raggiungere il successo in amore e conquistare la felicità. Infine, a fianco dei classici della letteratura persiana, svariate opere dei migliori scrittori occidentali tradotte in farsi; naturalmente con gli opportuni tagli approntati in anticipo sulla stessa censura, come mi racconta una traduttrice che ha espunto ex-ante da Cecità di Saramago tutte le pagine che avrebbero potuto irritare la smodata sessuofobia dei religiosi.
A Book City, insomma, di mullah e ayatollah nemmeno l'ombra: qui si oscilla tra la nostalgia del tempo che fu, la buona letteratura, e l'editoria popolare «fai da te».
Siamo nella Teheran nord, la parte più ricca e occidentalizzata della città. Il che ha sicuramente il suo peso. Nei quartieri popolari infatti tira un'altra aria, così come, a maggior ragione, nell'Iran arcaico e profondo dei villaggi. Come scrive Daryush Shayegan nel suo bellissimo Cultural schizofrenia. Islamic society confronting the West (Saqi Books), è bene non dimenticare che in quell'Iran remoto mullah e gente comune si comprendono alla perfezione, perché vivono entrambi nella stessa epoca premoderna. Se infatti l'incontro con la modernità ha in un certo senso messo all'angolo i mullah, per contro lo shock che quella modernità ha comunque inflitto a tanta gente, finisce per restituire loro un'importante funzione: «Perché garantisce una rifugio nella tradizione, dove c'è risposta per ogni domanda».
Shayegan ha il merito di aver tematizzato l'enorme difficoltà che l'Iran di oggi sperimenta, stretto com'è tra l'irruzione di un universo che invita al cambiamento, alla verifica empirica, all'uso critico della ragione, e l'obbedienza a una tradizione fissata invece in una temporalità leggendaria, tendente a una specie di oblomovismo sociale inerte e sclerotico, accompagnato però da un'ideologia del combattimento. Come può una persona convivere con due modi di pensare così diversi senza il rischio di comportamenti distorti? Da qui la schizofrenia tra nuove idee che cadono nel vuoto perché prive di contesto e tessitura emotiva, e le vecchie idee atrofizzate, fallite in partenza perché incapaci di mordere il presente. «Ed eccoci così costretti», conclude il filosofo iraniano, «a inventare continue scuse mentali: il capitalismo delle multinazionali, gli effetti catastrofici del colonialismo, il sionismo, l'imperialismo e tutti gli ismi del mondo».
Mi piacerebbe trasformare la cena che sta per cominciare in un piccolo seminario su questo fascinoso tema, così come ha fatto Azar Nafisi con la letteratura di Nabokov, James e la Austen per darne poi conto in Leggere Lolita a Teheran. Stasera, a farmi da guida nel labirinto iraniano, saranno tre giovani donne, belle e agguerrite: due giornaliste e una sociologa.
La scena ha luogo in uno dei pochi ristoranti davvero eccellenti della città: ottimo cibo, servizio impeccabile... e la solita comica dei tre bicchieri per acqua, fanta e coca-cola. Jila, al mio fianco, sorride e mi dice che nei ristoranti dove il controllo è più lasco lei si porta una bottiglia di vino dentro la borsa: l'ennesimo esempio di doppia vita cui è costretta la gente di qui. Del resto pare che l'esercizio della dissimulazione sia insito nella storia degli sciiti fin dall'inizio del loro confronto-conflitto con la maggioranza sunnita. Quanto alla classica distinzione tra spazio esterno (biruni) e interno (andaruni) - riferita all'architettura delle abitazioni, ma anche a quella della mente - a cos'altro allude se non ad una costante ambivalenza tra quel che si può fare in pubblico e quel che ci si permette in privato?
Come ho già avuto modo di dire, questo continuo esercizio di sdoppiamento impone un uso costante dell'intelligenza, ma può anche generare distorsioni mentali dalle quali poi è difficile salvarsi. Jila mi espone questa fatica nel più semplice ed efficace dei modi: «Come faccio a insegnare a mia figlia di non dire bugie se la mia vita è intrisa di bugie dalla mattina alla sera?».
Tra tutti gli iraniani, le donne sono quelle che patiscono di più questo stato di cose. Ma rappresentano anche la massima spina nel fianco del regime religioso, che a partire dalla rivoluzione del '79 aveva instaurato il matrimonio in età puberale, la disparità in ordine all'affidamento dei figli, al valore della testimonianza giudiziaria e dell´eredità. Per finire con l'imposizione del velo e la segregazione dei sessi in diverse sfere della vita.
Per effetto paradossale, però, fu proprio la segregazione a spingere molte famiglie tradizionali a mandare le proprie ragazze all'università, nella convinzione che la loro «purezza» fosse meglio «protetta». E ora sono loro, le donne, a rappresentare la maggioranza dei laureati iraniani; dunque il motore principale e inarrestabile del cambiamento.
Dice Zahra, la sociologa: «Il regime ha avuto bisogno di mobilitarci politicamente al momento della rivoluzione e successivamente, quando c'è stata la guerra contro l'Iraq, ha dovuto inserirci nel mercato del lavoro. Ma così facendo ci ha reso ancora più consapevoli dei diritti che ci spettano e che ci vengono perennemente negati».
Anche il visitatore occasionale ha modo di verificare quanto il maschilismo indigeno raggiunga spesso e volentieri livelli manicomiali di ipocrisia e doppiezza. Come nel caso dei contratti matrimoniali «temporanei», volti a consentire i rapporti sessuali occasionali, e insieme a coprire di fatto una prostituzione teoricamente bandita. Per non parlare delle molteplici manifestazioni di perversa sessuofobia, come denunciano le teste mozzate di manichini femminili nei negozi di moda; oppure, per contro, l'invito subliminale alla pedofilia di svariati giornali familiari che mettono in copertina bambine truccatissime e seducenti (le uniche che possono mostrare il loro volto imbellettato e i propri capelli sciolti senza infrangere la legge). «È l'ennesima conferma della schizofrenia in cui siamo catapultate», commenta la terza convitata, Elaheh. «Siamo considerate adulte per legge ben prima dei maschi, ma torniamo bambine quando siamo grandi per davvero, bambine che il regime costantemente «protegge»: col velo, coi matrimoni temporanei, non consentendoci di andare allo stadio perché sentiremmo parole che offenderebbero le nostre orecchie. Ma a ben guardare tutti gli iraniani, uomini e donne, sono trattati alla stregua di bambini. Ed è perciò che il movimento delle donne ha tanta importanza, perché se salta questo anello, salta l'intera catena di un regime gerarchizzato e patriarcale che pretende di sovrintendere a qualunque scelta individuale... Succederà, prima o poi, perché il comportamento di questi padroni produce sempre più spesso effetti opposti a quelli da loro auspicati. Basta pensare all'eccessiva politicizzazione della religione, che ha finito per allontanare la gente dalle moschee».
Tutti, a Teheran, mi parlano di questo nuovo fenomeno, che riguarderebbe in particolare - come è naturale - i più giovani. Anche stavolta, però, il processo è tutt'altro che lineare. Come sempre in Iran. Più che di una progressiva laicizzazione, infatti, si tratta di una nuova religiosità: una religiosità light, insofferente di ogni costrizione in materia di libertà sessuale, aborto, divorzio, che contemporaneamente rimpiange e invoca un islamismo in chiave patriottica quale unico possibile appiglio in una società priva di punti di riferimento. Dunque si torna ancora una volta all'ipotesi di Dayush Shayegan: la tensione tra nuove zone della realtà disvelate dalla modernizzazione e l´atavica compulsione ad escluderle dal campo della conoscenza, crea una ferita che la coscienza individuale non ce la fa a sanare.
Il seminario al ristorante è finito. Saluto con calore le mie nuove, generose amiche e mi tuffo nell'inestricabile traffico di Teheran, di fronte al quale, al vigile occhialuto e allampanato che lo veglia, altro non resta che ritirarsi in una postura meditabonda. Al modo del pensatore di Rodin. Lo guardo e mi tornano alla mente le parole che ieri, davanti a una tazza di tè, mi diceva lo scrittore Amir Hassan Cheheltan: «La nostra situazione è più o meno questa. Abbiamo assaggiato il boccone della modernità e quel boccone ci è rimasto sul gozzo. Non abbiamo ancora deciso se risputarlo o digerirlo una volta per tutte».