domenica 9 gennaio 2005

Bertinotti e il Prc verso i congressi di federazione

l'Unità 9.1.05
La decisione del Leader di Rifondazione di stare a fianco di Prodi e del centrosinistra gli ha messo contro quattro mozioni che invocano solo un accordo politico - elettorale
«Bertinotti deve uscire dalla Gad»
Rc, gli oppositori affilano le armi, ma il segretario ribatte: «Per decidere mi basta il 51%»
di Simone Collini

ROMA. «Per vincere un congresso basta il 51% dei voti». Fausto Bertinotti mostra sicurezza e tranquillità, ma l'accordo stipulato con il centrosinistra prima dell'inizio di una discussione programmatica gli ha messo contro quasi metà partito, tanto che al congresso che Rifondazione comunista farà a Rimini dal 3 al 6 marzo sono state presentate per la prima volta quattro mozioni alternative a quella del segretario. E ora quanto sta avvenendo al vertice dell'Alleanza non lo aiuta nell'operazione avviata quattro mesi fa. Al punto che qualcuno, dentro il Prc, si dice convinto che nei prossimi mesi l'alleanza programmatica e di governo tra Ulivo e Rifondazione, sostenuta oggi da Bertinotti, cederà il posto a un meno vincolante ma più realisticamente praticabile patto politico - elettorale con successivo, in caso di vittoria, appoggio esterno del Prc a un esecutivo di centrosinistra.
Era settembre quando il segretario di Rifondazione comunista e l'ancora presidente della Commissione europea Romano Prodi ricucivano pubblicamente lo strappo prodotto nel '98. I due erano sul palco della festa di Liberazione: il primo parlava della necessità di non ripetere l'esperienza della desistenza sperimentata nel '96 e non escludeva la presenza di ministri del Prc in un futuro governo di centrosinistra; il secondo usava per la prima volta l'espressione «grande alleanza democratica» (Bertinotti qualche settimana prima aveva proposto «Coalizione democratica» al posto dell'indigesto (a militanti e dirigenti Prc) Ulivo. I due poi scendevano dal palco e andavano a cena insieme in uno dei ristoranti della festa, senza dar troppo peso ai fischi ricevuti da Prodi mentre criticava il referendum sulla fecondazione assistita e alla freddezza degli applausi riservati a Bertinotti mentre parlava della necessità di tenere distinto il piano del ritiro delle truppe dall'Iraq dalla richiesta di liberazione degli ostaggi.
Fischi e freddezza si sono poi tradotti in quattro mozioni alternative a quella presentata da Bertinotti per il congresso di marzo e in una perdita di consensi che ha portato la maggioranza, nell'ultima riunione del comitato politico nazionale, a fermarsi a quota 56%. Ora l'Aventino bolognese di Prodi, la tensione all'interno dell'area riformista, la discussione programmatica perennemente rinviata rischiano di far perdere al segretario di Rifondazione comunista ancora più consensi all'interno del suo partito. Anche perché le difficoltà di far decollare l'Alleanza rischiano di non essere risolte entro la prossima settimana, ovvero prima che inizino i congressi di federazione, che decideranno i rapporti di forza dentro il Prc.
La cosiddetta area dell'Ernesto, che fa capo all'ex tesoriere Claudio Grassi, può contare su oltre il 26% dei voti. All'ultimo congresso appoggiò Bertinotti, questa volta l'intesa è mancata. Spiega Grassi, primo firmatario della seconda mozione: «Noi non siamo pregiudizialmente contrari a intese con il centrosinistra. Anzi, a suo tempo abbiamo sostenuto la necessità di un accordo, ma ora c'è stato l'ingreso prima ancora di aver concordato il programma». Sia nella maggioranza che tra gli ex cossuttiani dell'Ernesto non si esclude un accordo in extremis quando si entrerà nel vivo del congresso, anche se al momento il leader del Prc si sente forte abbastanza per andare avanti da solo. «Bertinotti non fa il segretario di sintesi, è per una linea univoca e chiara», spiegano nel suo entourage. E non a caso il voto congressuale è su documenti non emendabili. Grassi una mano potrebbe tenderla, ma non in queste condizioni: «Se si ha una maggioranza risicata non è possibile non tener conto delle altre posizioni».
Le altre posizioni, però, sono tutte contrarie all'entrata di Rifondazione in un governo di centrosinistra. E sia il ritardo sulla discussione programmatica, sia le difficoltà incontrate dal giorno del suo rientro in Italia da Prodi, sulla cui leadership dell'Alleanza Bertinotti ha costruito la sua operazione, rischiano di intaccare anche quel 56% incassato a fine novembre. «Le perplessità rispetto alla svolta di Bertinotti sono in crescita», assicura il capogruppo del Prc a Palazzo Madama Luigi Malabarba. Dall'ultimo congresso il senatore si è progressivamente allontanato dalla maggioranza, fino a presentare una mozione che nelle previsioni dovrebbe ottenere tra il 7 e l'8% dei voti. «Rivendichiamo la continuità con il quinto congresso, che ha sancito la svolta su stalinismo, movimenti e conflitto sociale», spiega l'esponente dell'area Erre, che aggiunge: «Quanto deciso tre anni fa è stato messo in discussione dall'operazione politicista operata dal segretario». L'area Erre, di cui faceva parte Luigi Maitan, è la più moderata tra le anime trotzkiste, che criticano l'operazione avviata da Bertinotti. È sufficiente leggere titolo e premessa delle altre due mozioni trotzkiste per rendersene conto. «Cacciare Berlusconi dal versante dei lavoratori e non dei padroni. Rompere col centrosinistra confindustriale per un polo anticapitalistico autonomo e unitario. Costruire il Prc come partito dell'opposizione di classe», si legge in testa al documento che ha come primo firmatario Marco Ferrando. «Rompere con Prodi, preparare l'alternativa operaia» è il titolo del documento che ha come primo firmatario Claudio Bellotti e si apre definendo la Gad una «gabbia mortale per il Prc».
Malabarba si dice convinto che Bertinotti non potrà rimanere fermo sull'accordo di governo con il centrosinistra se al congresso otterrà una maggioranza più vicina al 50 che al 60%. E anche il 60 potrebbe non bastare per convincere gli iscritti dell'opportunità di far parte di «un esecutivo che non può essere effettivamente di alternativa». Spiega il presidente dei senatori del Prc: «Nel corso dei prossimi mesi, quando si entrerà nel vivo della discussione sul programma, sarà chiaro a tutti che un accordo di governo è impossibile». A quel punto, secondo Malabarba, la via d'uscita per Bertinotti per continuare a guidare saldamente Rifondazione comunista potrà essere soltanto una: «Dare vita a un accordo politico - elettorale basato su questioni che ci uniscono nella battaglia contro Berlusconi e prevedere l'appoggio esterno a un esecutivo di centrosinistra che deve avere una sua forza autosufficiente per governare».
Soluzione di cui Bertinotti, oggi, non vuole neanche sentir parlare. Così come Prodi, del resto. Le primarie, che dovrebbero vedere i due contrapposti e che si dovrebbero svolgere due mesi dopo il congresso di Rifondazione, potrebbero aiutare entrambi: perché darebbero a Prodi una legittimazione che andrebbe a tutto vantaggio di Bertinotti - per stessa ammissione del segretario Prc «un altro candidato leader farebbe saltare tutti gli equilibri fin qui costruiti» - e perché incoronerebbe lo stesso Bertinotti a leader della sinistra alternativa. Il che però potrebbe non bastare a far digerire ai militanti di Rifondazione il ricorso a un meccanismo che, come spiega Grassi, è lontano dalle posizioni del partito, «perché le primarie ono proprie del sistema maggioritario e perché alimentano una personalizzazione della politica che riteniamo sbagliata».

Liberazione 9.1.05
Se Bertinotti disturba
di Piero Sansonetti


C'è una vecchia legge della politica, semplice semplice, che dice così: quando un partito di centro (o un gruppo di partiti di centro) si allea con un partito di sinistra, la politica di questo partito (o di questi partiti) deve spostarsi a sinistra. Viceversa, se questo partito di centro si allea con un partito di destra, la sua politica sarà corretta a destra. E' una legge vecchissima, non solo la conosceva Machiavelli ma la conoscevano anche Cicerone e Pericle. Le politiche di coalizione si basano sempre su questa legge: un'alleanza tra forze diverse comporta una modifica dei programmi. Per esempio, quando nel 1963 la Democrazia cristiana di Fanfani e di Moro (insieme al Pri di La Malfa e al Psdi di Saragat) si alleò coi socialisti di Nenni, la politica del governo ebbe una brusca correzione. Si decise la nazionalizzazione dell'energia elettrica - quindi si avviò una politica opposta a quella, tipicamente conservatrice, delle privatizzazioni - e si istituì la scuola media obbligatoria gratuita e unificata, dando un colpo micidiale alle scuole private e realizzando un principio di uguaglianza di fronte all'istruzione di base, che ha retto poi per 40 anni fino alla riforma Moratti.
Viceversa quando Berlusconi, tra il 1999 e il 2000, trovò un accordo politico per fare coalizione con la Lega nord e per puntare al governo, dovette accettare uno spostamento a destra dell'asse liberale, accogliere persino alcuni elementi di xenofobia nel suo programma, costringere anche alleati moderati, come Casini e Follini, a sottoscrivere idee e piani di governo che, nell'ambito di una diversa alleanza, mai avrebbero accettato.
Tutto questo è chiaro? No. C'è un pezzo del mondo politico di centro e di centrosinistra e una parte consistente dell'intellettualità moderata che non sono disposti a prendere atto di queste elementari e facili regole. Michele Salvati e poi Angelo Panebianco, sul "Corriere della Sera", negli ultimi giorni, hanno lanciato l'allarme: se si fa il governo con Bertinotti si rischia di modificare la natura del centrosinistra. Cioè ci si potrebbe trovare nella condizione di dover accettare una politica pacifista, contraria alla flessibilità e alla precarietà sul lavoro, favorevole a una politica "liberale" per l'immigrazione. È un allarme giusto? Non c'è dubbio, sì. È impensabile che se l'Ulivo decide di allearsi con Rifondazione Comunista, questa alleanza non comporti uno spostamento a sinistra sui programmi.
Questo preoccupa molto Panebianco - ma anche Salvati e vari dirigenti centristi dell'Ulivo - pensano che l'operazione "alternanza" al vertice dello Stato sia essenzialmente un'operazione di ricambio del ceto dirigente e non delle politiche. L'idea è semplicissima: la borghesia italiana ha bisogno di un governo che le consenta di recuperare competitività sui mercati, senza modificare i meccanismi dei mercati. Per raggiungere questo obiettivo bisogna ridurre il costo del lavoro, modificare le relazioni industriali a favore delle aziende, tagliare la spesa pubblica, tenere basso il livello del conflitto sociale. Quale è la formula politica per ottenere questi risultati? Cambia. In alcuni momenti può essere più utile un governo di centrodestra, in altri momenti un governo di centrosinistra. Le politiche di questi governi però devono essere fondamentalmente simili, stabili, continuiste una rispetto all'altra.
Cos'è che fa saltare questo schema, che fin qui ha funzionato perfettamente, anche negli anni '90? L'ingresso nel governo del partito di Rifondazione. C'è un solo modo per risolvere questa contraddizione: eliminare Rifondazione dall'alleanza. Però c'è un problema: se si elimina Rifondazione dall'alleanza si perdono le elezioni, e allora non si può realizzare quel ricambio di gruppi dirigenti che la borghesia auspica, perché non si fida più dei gruppi berlusconiani, troppo egoisti, troppo faziosi,troppo rozzi, troppo chiusi nell'interesse di parte, troppo poco nazionali. A meno che...
A meno che non si fanno saltare tutti gli schemi e si punta su una soluzione centrista che scompagini i due schieramenti. Non c'è dubbio che una parte consistente dell'establishment ha in mente questo disegno. Nei giorni scorsi abbiamo anche indicato il nome di un candidato a gestire un processo politico di questo genere: il professor Mario Monti. Forse è questa la vera partita che si è aperta oggi in Italia. Tra centrosinistra e centrismo. Ed è ancora molto incerta.