Fausto Bertinotti l'altra sera è rimasto basito davanti alla tv, alla notizia della morte di Nicola Calipari «ma vi rendete conto di cos'ha fatto quest'uomo?» diceva ai suoi, «talvolta ci portiamo dentro pregiudizi e dubbi, e invece sono persone di cui dobbiamo avere grande rispetto, dalle quali dobbiamo imparare» (dal Corriere della Sera)
Fausto Bertinotti nelle conclusioni al congresso di Rifondazione avverte: «Il governo di essere almeno all'altezza di Sigonella dando una dimostrazione di dignità nei confronti di una alleato soverchiante come gli Usa». Indicando la via maestra, la soluzione che non può essere che quella del ritiro immediato delle nostre truppe che è «un atto di salute pubblica, di igiene reale e politica» pur nella consapevolezza che la «exit strategy» più complessiva dall’Iraq non potrà essere che «graduale». (dall'Unità)
L'Unità 7 Marzo 2005
Bertinotti rieletto: porterò Rc al governo
Resta la spaccatura, al segretario il 62 per cento. «Contro di me attacchi violenti e volgari»
Simone Collini
Il leader ha ottenuto dalle assise una percentuale superiore di 3 punti a quella conquistata nel corso della campagna congressuale
«È una sciocchezza dirci governisti. E qui si parla spesso come se solo qualcuno di noi fosse comunista. Ma qui siamo tutti comunisti e comuniste»
IL CONGRESSO di Rifondazione comunista
VENEZIA. In rotta con una grossa fetta di partito, ma in rotta verso il governo. Fausto Bertinotti ce l’ha fatta. Né semplice accordo elettorale né desistenza come nel ‘96, alle prossime politiche Rifondazione comunista andrà insieme alle altre forze dell’Unione e poi, in caso di vittoria, entrerà nel governo guidato da Romano Prodi. Il sesto congresso del partito si chiude con l’approvazione della linea politica impressa negli ultimi mesi dal leader del Prc e con Bertinotti rieletto segretario con il 62% dei voti, quasi tre punti percentuali in più rispetto ai consensi che aveva incassato la mozione di cui era primo firmatario. La spaccatura con le minoranze interne rimane tutta, e del resto nella relazione conclusiva Bertinotti non fa niente per ricomporla, anzi.
Il suo è un intervento tutto all’attacco, in cui condanna la «violenza di linguaggio» e le «volgarità» che hanno attraversato alcune fasi del dibattito congressuale, e in cui a un certo punto la voce si fa urlo nel microfono: «Governista a chi? C’è qualcuno che si ricorda chi l’ha fatta la rottura con il governo Prodi?». Ma non è solo questa l’accusa delle minoranze che non gli va giù: «Qui si parla spesso come se solo qualcuno di noi fosse comunista. Ma qui siamo tutti comunisti e comuniste». C’era bisogno di dirlo? Evidentemente sì. E la riprova è nel fatto che soltanto i delegati della maggioranza applaudono questi passaggi della relazione. Gli altri se ne stanno con le braccia incrociate, scuotendo la testa, rimanendo in silenzio anche quando alla fine dell’intervento risuonano nel palazzo del Cinema del Lido di Venezia l’Internazionale, Bella Ciao, Bandiera Rossa, tanta poca è la voglia di unirsi alla festa per il segretario. Né l’umore delle minoranze migliora di molto quando la maggioranza, un po’ a sorpresa, si dice disponibile a nominare la propria quota di membri della direzione soltanto dopo le elezioni regionali, accogliendo così la richiesta che era stata avanzata dalle opposizioni (che alla fine potrebbero però decidere di non entrare comunque nell’organismo).
Bertinotti però non sembra minimamente preoccupato di quello che definisce lo «scontro frontale voluto dalle minoranze». Non vuole «marginalizzarle», spiega, e anzi riconosce loro «il diritto di organizzarsi». Ma se lo fa è perché è convinto di non avere molto da temere: un po’ perché ha messo al riparo da sorprese l’accordo con l’Unione attraverso una segreteria tutta di maggioranza, un esecutivo che garantisce «maggiore operatività» e un vincolo di mandato per i parlamentari; un po’ perché sa che al di là delle intenzioni espresse ultimamente, tra i trotzkisti di Ferrando, quelli di Bellotti, i più moderati trotzkisti di Malabarba (al quale Bertinotti ha chiesto di rimanere capogruppo al Senato) e i leninisti di Grassi le distanze politiche sono tali da non consentire un accordo che vada al di là del semplice «no alla svolta governista».
Per questo si è deciso a non concedere nessuna apertura e a fare una relazione di due ore il cui obiettivo non è quello di convincere, ma semmai quello di rispondere colpo su colpo alle accuse. «È una sciocchezza dirci governisti, è semplicemente insensato». Se Rifondazione andrà al governo, dice con uno dei diversi riferimenti che fa a Nenni, non è perché voglia «entrare nella stanza dei bottoni», ma perché «di fronte a una destra in crisi, di fronte a una borghesia allo sbando, bisogna assumersi le proprie responsabilità: abbiamo il compito di costruire l’alternativa di società». Ribadisce che lui non farà il ministro, ma che ci saranno ministri del Prc, perché non è più possibile interpretare la parte dei «parenti poveri». Rifondazione, dice Bertinotti in una delle poche frasi tendenti più a dare un’assicurazione che a pungolare i suoi (perché «stare fermi è la morte della politica»), non disperderà la sua identità nell’abbraccio dell’Unione e manterrà anzi una sua netta autonomia: «Il partito non deve identificarsi con il governo. Se ci fosse un governo Prodi e se ci fosse uno sciopero io lo considererei un elemento dinamico della società italiana». Per questo cita l’esempio del Brasile, «dove la ministra dell’ambiente ha scioperato contro il governo Lula, una cosa buona».
Una scena che si ripete sempre uguale per due ore: i suoi che applaudono praticamente ogni passaggio, quelli delle minoranze che rimangono silenziosi. Solo all’inizio la platea si fa sentire compatta, quando parlando dell’uccisione di Nicola Calipari Bertinotti grida al microfono «non siamo servi degli Stati Uniti, vogliamo la verità». Già qualcuno se lo perde per strada, invece, quando torna sull’adesione di Pietro Ingrao al Prc, raccontando: «Quando mi ha comunicato che avrebbe aderito a Rifondazione, mi ha detto: “Fausto, sarò un compagno disciplinato”. Ma io gli dico: Pietro, continua a disobbedire». Poi entra nel vivo della discussione, e la spaccatura si fa chiaramente visibile. Suscitando entusiasmo in alcuni e diffidenza in altri quando assicura che «non abbiamo nessun interesse a regalare il governo ai padroni», o quando dice: «Noi ci battiamo contro la legge Bossi-Fini, ma non per tornare alla Turco-Napolitano». Per due ore parla inforcando e sfilando gli occhiali, sbattendo la mano sugli appunti che ha davanti, prima togliendosi la giacca, poi allentando il nodo della cravatta.
Alla fine si ripete la scena del giorno di apertura, col segretario sul palco e i delegati in platea a cantare col pugno alzato. Con due differenze, però. La prima: dopo la relazione finale, quelli rimasti seduti e che non si uniscono al coro si notano molto di più. La seconda: il primo giorno i congressisti avevano intonato l’Internazionale, ieri è stata aggiunta una canzone mai sentita nei precedenti tre giorni di congresso, Bandiera Rossa. Forse per dare più risalto alla frase con cui Bertinotti ha chiuso la sua ultima relazione congressuale da segretario: «Domani, se qualcuno si ricorda di me, potrà dire: è un comunista».
L'Unità 7 Marzo 2005
Il comunista di governo
DALL’INVIATO
Pasquale Cascella
VENEZIA Governista no, che nessuno si permetta di definire così Fausto Bertinotti. Per lui è un insulto, un’infamia, un affronto imperdonabile: «Governista a chi? C’è qualcuno che ancora si ricorda la rottura con il governo Prodi? Chi l’ha fatta?», replica indignato all’«insensata accusa» della minoranza, dall’alto della torre congressuale concepita tutta a sua misura e immagine. Come dimenticare? È stato proprio lui, il segretario del libero partito della Rifondazione comunista, ad assumersi la tremenda responsabilità di far cadere il primo governo di centrosinistra all’avvio della democrazia dell’alternanza. Ora è lì, coerentemente, a rivendicarne il merito. Ma anche il suo opposto, ovvero che «bisogna assumersi le proprie responsabilità» nell’alleanza che si candida a dare al paese un governo alternativo a Silvio Berlusconi: «Fino in fondo». Una incoerenza, per il 40% dei delegati. Al contrario, per il segretario riconfermato a maggioranza è l’apice della costanza politica: «Io, noi siamo stati e saremo sempre dalla parte degli operai, ma non abbiamo alcuna intenzione di regalare per sempre il governo ai padroni».
Ma sì, merita Bertinotti la definizione che rivendica a futura memoria: «Comunista». Beninteso, nel senso dell’idealità da proclamare, più che della storia o, se si vuole, delle tradizione da osservare. Vero è che spaccia l’adesione di Pietro Ingrao a Rifondazione alla stregua di una riedizione, nella logica dell’«unità e competizione» a sinistra con i Ds, dello storico scontro dell’allora dirigente del Pci con Giorgio Amendola all’XI congresso. Ma è anche vero che Ingrao e Amendola hanno interpretato diversamente la stessa visione dell’evoluzione democratica del Pci e, più in generale, della sinistra italiana. Dei cui traumi lo stesso Bertinotti pure porta i segni, anche se le sue radici affondano nel vecchio Psi, quello del primo Pietro Nenni rivoluzionario. Fors’anche massimalista. Non è a caso che proprio alla «lezione» nenniana della fatidica (e non trovata, a palazzo Chigi) «stanza dei bottoni» si richiama per evitare che la «svolta» (infine proclamata) non passi per, come dire, ministeriale. Persino quel voler essere chiamato «comunista» fa il verso al Nenni che voleva essere ricordato come «socialista». Peccato, perché se la citazione fosse stata corretta, e non adottata e adattata, avrebbe potuto dare un senso più pregnante alla revisione fattuale a cui pure Bertinotti giunge.
Rifondazione socialista, perché no? No, evidentemente per un residuo ideologico: lo stesso che spinge il segretario a rendere pan per focaccia all’«aggressione, rozzezza e volgarità» che ritiene aver subito dall’opposizione interna, fin quasi ad indicare alla componente dell’«Ernesto», che aveva osato ospitare a una propria autonoma iniziativa qualche emissario di Armando Cossutta, la porta d’uscita dal partito. No, magari per un sussulto inconscio, se è vero che nello stesso Psi d’antan la cultura socialdemocratica e riformista era considerata alla stregua del tradimento. Prova ne sia quel congresso del Psi a Venezia del ‘57 che proprio Bertinotti ha richiamato, a mo’ di metafora per l’appuntamento congressuale di Rifondazione, in cui Nenni fu sconfitto anche per aver cominciato a Pralognan, con il socialdemocratico Giuseppe Saragat, la marcia di avvicinamento al governo. Quarantotto anni dopo, evita l’analoga sorte, il segretario di Rifondazione. Ma non ricorda ai delegati che la rivincita di Nenni, due anni dopo a Napoli, portò tanto al primo centro-sinistra (allora rigorosamente con il trattino) quanto all’ennesima scissione, quella del Psiup, in cui egli stesso ha militato, dell’ala poi definita «carrista» per via dell’avallo ai carri armati sovietici che soffocarono la primavera di Praga. Insomma, proprio dal «vecchio saggio» (non citato, ma era sempre Nenni) che avvertiva come ci sia «sempre qualcuno più puro di te che ti vuole epurare», Bertinotti può ben ricavare il «diritto di parola» nell’«inchiesta» evocata dal pensiero di Mao. Il segretario pensa di «cavarsela» rassicurando il partito che non sarà il Nenni che subì, nel tempo, il logoramento delle riforme di strutture che avrebbero dovuto segnare la soluzione di continuità con il centrismo. Ma resta debitore, anzitutto con se stesso, della risposta alla domanda sul come evitare che Rifondazione ricada nello stesso errore compiuto nel 1998. C’è una sorta di presunzione politica, prima ancora che intellettuale (vista la citazione di Rosa Luxembourg: «Ci sono sconfitte che valgono più di cento vittorie proclamate dal Comitato centrale), nell’evocare il «negoziato» con Prodi sulle 35 ore senza, se non addirittura contro, il sindacato, addirittura ad addebitare alle confederazioni di non aver proclamato a suo tempo uno sciopero contro Prodi evidentemente a sostegno dei suoi altrimenti fragili paletti. È con piroette dialettiche come queste, quando non arriva addirittura ad addebitare agli alleati ripudiati al tempo il cedimento al «pensiero unico dominante» («Da Clinton a D’Alema») che Bertinotti spiega la «mossa del cavallo» della conversione al governo: «Non ha senso rimanere all’angolo con la propria bandiera». Giusto. Del resto, molte delle acquisizioni ieri professate, dal rapporto che non sia «tra servi e signori» con gli Usa (sul modello di Craxi a Sigonella) al «ritiro per forza graduale dalla guerra», al disconoscimento dei sequestratori di Giuliana Sgrena come «resistenti» e quant’altro, se pure rincorse da sinistra (e, qui e là, ammantate di demagogia) giungono all’approccio della responsabilità condivisa nell’Unione di centrosinistra. Resta da capire perché Bertinotti non le qualifichi politicamente per quel che sono. E non ingaggi su questo piano la battaglia politica con i diversi pezzi della minoranza sull’identità di Rifondazione. O, forse, qualcosa dice quel lapsus sul «governo d’opposizione». Poi corretto «d’alternativa». È l’ultima sfida per Bertinotti, proprio per il Bertinotti «comunista», quello di riconoscersi nella sinistra di governo. Con vincolo di mandato.
Il suo è un intervento tutto all’attacco, in cui condanna la «violenza di linguaggio» e le «volgarità» che hanno attraversato alcune fasi del dibattito congressuale, e in cui a un certo punto la voce si fa urlo nel microfono: «Governista a chi? C’è qualcuno che si ricorda chi l’ha fatta la rottura con il governo Prodi?». Ma non è solo questa l’accusa delle minoranze che non gli va giù: «Qui si parla spesso come se solo qualcuno di noi fosse comunista. Ma qui siamo tutti comunisti e comuniste». C’era bisogno di dirlo? Evidentemente sì. E la riprova è nel fatto che soltanto i delegati della maggioranza applaudono questi passaggi della relazione. Gli altri se ne stanno con le braccia incrociate, scuotendo la testa, rimanendo in silenzio anche quando alla fine dell’intervento risuonano nel palazzo del Cinema del Lido di Venezia l’Internazionale, Bella Ciao, Bandiera Rossa, tanta poca è la voglia di unirsi alla festa per il segretario. Né l’umore delle minoranze migliora di molto quando la maggioranza, un po’ a sorpresa, si dice disponibile a nominare la propria quota di membri della direzione soltanto dopo le elezioni regionali, accogliendo così la richiesta che era stata avanzata dalle opposizioni (che alla fine potrebbero però decidere di non entrare comunque nell’organismo).
Bertinotti però non sembra minimamente preoccupato di quello che definisce lo «scontro frontale voluto dalle minoranze». Non vuole «marginalizzarle», spiega, e anzi riconosce loro «il diritto di organizzarsi». Ma se lo fa è perché è convinto di non avere molto da temere: un po’ perché ha messo al riparo da sorprese l’accordo con l’Unione attraverso una segreteria tutta di maggioranza, un esecutivo che garantisce «maggiore operatività» e un vincolo di mandato per i parlamentari; un po’ perché sa che al di là delle intenzioni espresse ultimamente, tra i trotzkisti di Ferrando, quelli di Bellotti, i più moderati trotzkisti di Malabarba (al quale Bertinotti ha chiesto di rimanere capogruppo al Senato) e i leninisti di Grassi le distanze politiche sono tali da non consentire un accordo che vada al di là del semplice «no alla svolta governista».
Per questo si è deciso a non concedere nessuna apertura e a fare una relazione di due ore il cui obiettivo non è quello di convincere, ma semmai quello di rispondere colpo su colpo alle accuse. «È una sciocchezza dirci governisti, è semplicemente insensato». Se Rifondazione andrà al governo, dice con uno dei diversi riferimenti che fa a Nenni, non è perché voglia «entrare nella stanza dei bottoni», ma perché «di fronte a una destra in crisi, di fronte a una borghesia allo sbando, bisogna assumersi le proprie responsabilità: abbiamo il compito di costruire l’alternativa di società». Ribadisce che lui non farà il ministro, ma che ci saranno ministri del Prc, perché non è più possibile interpretare la parte dei «parenti poveri». Rifondazione, dice Bertinotti in una delle poche frasi tendenti più a dare un’assicurazione che a pungolare i suoi (perché «stare fermi è la morte della politica»), non disperderà la sua identità nell’abbraccio dell’Unione e manterrà anzi una sua netta autonomia: «Il partito non deve identificarsi con il governo. Se ci fosse un governo Prodi e se ci fosse uno sciopero io lo considererei un elemento dinamico della società italiana». Per questo cita l’esempio del Brasile, «dove la ministra dell’ambiente ha scioperato contro il governo Lula, una cosa buona».
Una scena che si ripete sempre uguale per due ore: i suoi che applaudono praticamente ogni passaggio, quelli delle minoranze che rimangono silenziosi. Solo all’inizio la platea si fa sentire compatta, quando parlando dell’uccisione di Nicola Calipari Bertinotti grida al microfono «non siamo servi degli Stati Uniti, vogliamo la verità». Già qualcuno se lo perde per strada, invece, quando torna sull’adesione di Pietro Ingrao al Prc, raccontando: «Quando mi ha comunicato che avrebbe aderito a Rifondazione, mi ha detto: “Fausto, sarò un compagno disciplinato”. Ma io gli dico: Pietro, continua a disobbedire». Poi entra nel vivo della discussione, e la spaccatura si fa chiaramente visibile. Suscitando entusiasmo in alcuni e diffidenza in altri quando assicura che «non abbiamo nessun interesse a regalare il governo ai padroni», o quando dice: «Noi ci battiamo contro la legge Bossi-Fini, ma non per tornare alla Turco-Napolitano». Per due ore parla inforcando e sfilando gli occhiali, sbattendo la mano sugli appunti che ha davanti, prima togliendosi la giacca, poi allentando il nodo della cravatta.
Alla fine si ripete la scena del giorno di apertura, col segretario sul palco e i delegati in platea a cantare col pugno alzato. Con due differenze, però. La prima: dopo la relazione finale, quelli rimasti seduti e che non si uniscono al coro si notano molto di più. La seconda: il primo giorno i congressisti avevano intonato l’Internazionale, ieri è stata aggiunta una canzone mai sentita nei precedenti tre giorni di congresso, Bandiera Rossa. Forse per dare più risalto alla frase con cui Bertinotti ha chiuso la sua ultima relazione congressuale da segretario: «Domani, se qualcuno si ricorda di me, potrà dire: è un comunista».
L'Unità 7 Marzo 2005
Il comunista di governo
DALL’INVIATO
Pasquale Cascella
VENEZIA Governista no, che nessuno si permetta di definire così Fausto Bertinotti. Per lui è un insulto, un’infamia, un affronto imperdonabile: «Governista a chi? C’è qualcuno che ancora si ricorda la rottura con il governo Prodi? Chi l’ha fatta?», replica indignato all’«insensata accusa» della minoranza, dall’alto della torre congressuale concepita tutta a sua misura e immagine. Come dimenticare? È stato proprio lui, il segretario del libero partito della Rifondazione comunista, ad assumersi la tremenda responsabilità di far cadere il primo governo di centrosinistra all’avvio della democrazia dell’alternanza. Ora è lì, coerentemente, a rivendicarne il merito. Ma anche il suo opposto, ovvero che «bisogna assumersi le proprie responsabilità» nell’alleanza che si candida a dare al paese un governo alternativo a Silvio Berlusconi: «Fino in fondo». Una incoerenza, per il 40% dei delegati. Al contrario, per il segretario riconfermato a maggioranza è l’apice della costanza politica: «Io, noi siamo stati e saremo sempre dalla parte degli operai, ma non abbiamo alcuna intenzione di regalare per sempre il governo ai padroni».
Ma sì, merita Bertinotti la definizione che rivendica a futura memoria: «Comunista». Beninteso, nel senso dell’idealità da proclamare, più che della storia o, se si vuole, delle tradizione da osservare. Vero è che spaccia l’adesione di Pietro Ingrao a Rifondazione alla stregua di una riedizione, nella logica dell’«unità e competizione» a sinistra con i Ds, dello storico scontro dell’allora dirigente del Pci con Giorgio Amendola all’XI congresso. Ma è anche vero che Ingrao e Amendola hanno interpretato diversamente la stessa visione dell’evoluzione democratica del Pci e, più in generale, della sinistra italiana. Dei cui traumi lo stesso Bertinotti pure porta i segni, anche se le sue radici affondano nel vecchio Psi, quello del primo Pietro Nenni rivoluzionario. Fors’anche massimalista. Non è a caso che proprio alla «lezione» nenniana della fatidica (e non trovata, a palazzo Chigi) «stanza dei bottoni» si richiama per evitare che la «svolta» (infine proclamata) non passi per, come dire, ministeriale. Persino quel voler essere chiamato «comunista» fa il verso al Nenni che voleva essere ricordato come «socialista». Peccato, perché se la citazione fosse stata corretta, e non adottata e adattata, avrebbe potuto dare un senso più pregnante alla revisione fattuale a cui pure Bertinotti giunge.
Rifondazione socialista, perché no? No, evidentemente per un residuo ideologico: lo stesso che spinge il segretario a rendere pan per focaccia all’«aggressione, rozzezza e volgarità» che ritiene aver subito dall’opposizione interna, fin quasi ad indicare alla componente dell’«Ernesto», che aveva osato ospitare a una propria autonoma iniziativa qualche emissario di Armando Cossutta, la porta d’uscita dal partito. No, magari per un sussulto inconscio, se è vero che nello stesso Psi d’antan la cultura socialdemocratica e riformista era considerata alla stregua del tradimento. Prova ne sia quel congresso del Psi a Venezia del ‘57 che proprio Bertinotti ha richiamato, a mo’ di metafora per l’appuntamento congressuale di Rifondazione, in cui Nenni fu sconfitto anche per aver cominciato a Pralognan, con il socialdemocratico Giuseppe Saragat, la marcia di avvicinamento al governo. Quarantotto anni dopo, evita l’analoga sorte, il segretario di Rifondazione. Ma non ricorda ai delegati che la rivincita di Nenni, due anni dopo a Napoli, portò tanto al primo centro-sinistra (allora rigorosamente con il trattino) quanto all’ennesima scissione, quella del Psiup, in cui egli stesso ha militato, dell’ala poi definita «carrista» per via dell’avallo ai carri armati sovietici che soffocarono la primavera di Praga. Insomma, proprio dal «vecchio saggio» (non citato, ma era sempre Nenni) che avvertiva come ci sia «sempre qualcuno più puro di te che ti vuole epurare», Bertinotti può ben ricavare il «diritto di parola» nell’«inchiesta» evocata dal pensiero di Mao. Il segretario pensa di «cavarsela» rassicurando il partito che non sarà il Nenni che subì, nel tempo, il logoramento delle riforme di strutture che avrebbero dovuto segnare la soluzione di continuità con il centrismo. Ma resta debitore, anzitutto con se stesso, della risposta alla domanda sul come evitare che Rifondazione ricada nello stesso errore compiuto nel 1998. C’è una sorta di presunzione politica, prima ancora che intellettuale (vista la citazione di Rosa Luxembourg: «Ci sono sconfitte che valgono più di cento vittorie proclamate dal Comitato centrale), nell’evocare il «negoziato» con Prodi sulle 35 ore senza, se non addirittura contro, il sindacato, addirittura ad addebitare alle confederazioni di non aver proclamato a suo tempo uno sciopero contro Prodi evidentemente a sostegno dei suoi altrimenti fragili paletti. È con piroette dialettiche come queste, quando non arriva addirittura ad addebitare agli alleati ripudiati al tempo il cedimento al «pensiero unico dominante» («Da Clinton a D’Alema») che Bertinotti spiega la «mossa del cavallo» della conversione al governo: «Non ha senso rimanere all’angolo con la propria bandiera». Giusto. Del resto, molte delle acquisizioni ieri professate, dal rapporto che non sia «tra servi e signori» con gli Usa (sul modello di Craxi a Sigonella) al «ritiro per forza graduale dalla guerra», al disconoscimento dei sequestratori di Giuliana Sgrena come «resistenti» e quant’altro, se pure rincorse da sinistra (e, qui e là, ammantate di demagogia) giungono all’approccio della responsabilità condivisa nell’Unione di centrosinistra. Resta da capire perché Bertinotti non le qualifichi politicamente per quel che sono. E non ingaggi su questo piano la battaglia politica con i diversi pezzi della minoranza sull’identità di Rifondazione. O, forse, qualcosa dice quel lapsus sul «governo d’opposizione». Poi corretto «d’alternativa». È l’ultima sfida per Bertinotti, proprio per il Bertinotti «comunista», quello di riconoscersi nella sinistra di governo. Con vincolo di mandato.