L'Unità 29 Maggio 2005
La fede non è un argomento
Paolo Flores d’Arcais
Stimato cardinal Ruini,
con tutta l’autorevolezza che le viene dall’essere presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) e Vicario delle diocesi di Roma (quasi un «vice Papa», insomma) non solo lei è intervenuto sistematicamente nelle vicende politiche italiane, non solo ha teorizzato il diritto a tale «presenza» politica delle gerarchie ecclesiastiche, ma ne ha sostenuto addirittura la necessità. Per il bene della democrazia stessa.
Qualche mese fa Eugenio Scalfari ha sostenuto - con dovizia di riferimenti testuali - che i suoi interventi violano le norme del Concordato, e quindi la Costituzione italiana. Non entro nel merito, ma solo perché voglio spingermi oltre, e domandare se i suoi interventi, malgrado il paternalistico abbraccio alla democrazia («per il suo bene») non rinverdiscano invece ostilità e sospetti tradizionali nella Chiesa di Roma nei confronti della democrazia stessa, ancora orgogliosamente rivendicati da papa Pacelli e felicemente attenuati e posti in sordina durante la stagione (evidentemente assai breve) del cattolicesimo conciliare.
Valga il vero. Converrà certamente anche lei che una società democratica è tale perché in essa ciascuno partecipa in modo eguale alla comune sovranità, ha eguale titolo a determinare ogni decisione. Credente o non credente che sia. Ma tale decisione ha poi carattere vincolante per tutti, anche per chi non la ha condivisa.
(...) L'unico “fondamento” della convivenza democratica, insomma, è solo un diffuso e saturante ethos democratico. L'abc del quale - davvero minimo e irrinunciabile - è che ad ogni decisione si arrivi attraverso un processo deliberativo in cui ciascuno ha il dovere di rivolgersi a tutti gli altri cittadini, e argomentare, per convincerli della propria opinione.
Poniamo che una persona X, debitamente eletta in parlamento, voglia introdurre una legge che consente la poligamia. Se ne dovrà discutere. Cioè ciascuno dovrà addurre argomenti. Pro e contro.
Argomenti. Cioè valori democratici, fatti empirici accertabili, logica. Potrà, l’on. X, partire ad esempio dal valore democratico della libera scelta, e allora la poligamia, se consensuale, perché no? Gli si potrà ampiamente obiettare, gli argomenti "contro" non mancano. Non entro nel merito. Mi interessa solo sottolineare quelle che non potrebbero essere considerate argomentazioni (democratiche) a favore della poligamia. Non si potrebbe, ad esempio, pretendere di introdurre la poligamia solo per gli uomini. Violerebbe il principio di eguaglianza. E a tale obiezione non si potrebbe replicare: ma lo dice il Corano, che esprime la volontà di Dio.
Dio non può essere un argomento, insomma, perché non può essere mai convincente - in linea di principio - per chi non è credente, per chi creda in un Dio diverso, per chi creda nello stesso Dio ma ritenga che la Sua Parola vada interpretata differentemente. Non può, in linea di principio, diventare fattore di un dia-logos fra cittadini. Anzi: annulla dia-logos, argomentazione raziocinante, persuasione reciproca, dunque deliberazione democratica, nella regressione dello scontro tra dogmi.
Prendiamo altri due esempi. Il signor Y, debitamente eletto in parlamento, vorrebbe stabilire per legge la proibizione del preservativo, e la signora W, sua collega, la proibizione per legge delle trasfusioni di sangue. Dovranno argomentare. Il che, ovviamente, non ha nulla a che fare con la disponibilità personale e soggettiva a rinunciare, nella loro vita, all'uso del preservativo o delle trasfusioni.
(...) Tutto questo è noto da secoli come il fondamento della convivenza laica (precondizione di quella democratica). Che recita: Etsi Deus non daretur. Una legge, proprio perchè dovrà vincolare tutti, credenti e miscredenti (e ogni credente è miscredente rispetto ad un diverso credente) deve essere proposta, discussa, decisa, ricorrendo solo ed esclusivamente ad argomenti che, in linea di principio, non discriminino. Mentre la fede, per definizione, è un dono. Appartiene a pochi. Comunque non a tutti (diversamente dalla ragione, per ipotesi).
La propria fede non è un argomento, insomma. Non può essere mai invocata in quanto tale nell'argomentazione per la legge, dunque. Altrimenti l'islamico potrà invocare la volontà del suo Dio, e così l'ebreo e il gentile, e il cattolico e il testimone di Geova. E all'interno di ogni fede poi, secondo un pluralismo ermeneutico che rende ciascuno eretico all'altro. Ecco perché, in democrazia, la fede deve restare privata. L'opinione di ciascuno, per farsi pubblica, per farsi valere, per essere valore che si propone come legge, deve partire da valori comuni (cioè quelli non in contrasto con una costituzione democratica), e dai fatti accertabili, e dalla logica.
Questo lascerà ampio margine all'incertezza nella reciproca persuasione e nella decisione (ampi margini anche alla scelta irrazionale, se vogliamo: degli interessi). Ma se ammettessimo che Dio può valere come argomento, non potremmo che piombare nel contenzioso teologico-dogmatico, e della logica dell'anatema reciproco.
Del resto, anche nelle recenti polemiche sul referendum che riguarda la legge sulla procreazione assistita, personalità cattoliche note per il loro integralismo non fanno che ribadire che la loro posizione è perfettamente argomentabile in termini e logica puramente umani, a prescindere da ogni convinzione di fede. Di nuovo: non entro nel merito se tali argomenti siano davvero di peso o assolutamente claudicanti. Sotto il profilo del metodo è invece certo che si tratti dell’unico approccio compatibile con la democrazia. Un "argomento" che facesse riferimento alla fede, cioè a qualcosa di cui, per definizione, alcuni cittadini sono privi, violerebbe quell'abc dell'ethos democratico di cui abbiamo parlato.
Eppure, è proprio quello che lei ha fatto, ripetutamente. Lei infatti non si è rivolto agli italiani in quanto prof. Ruini, utilizzando tutti gli argomenti empiricamente e razionalmente possibili per rifiutare il referendum. Lei ha parlato in quanto card. Ruini, presidente dei vescovi italiani, e si è rivolto ai cattolici in quanto cattolici. Lei cioè ha intimato, in nome di una fede religiosa - non della comune ragione umana - una linea di comportamento politico. E con ciò, lei si è allineato, sul piano del metodo, con l'eventuale testimone di Geova che intendesse far proibire per legge le trasfusioni di sangue o il futuro deputato islamico che volesse per legge consentire la poligamia (solo per gli uomini). Ma il piano del metodo è qui cruciale, perché mette in gioco la logica, la sostanza, l'ethos della democrazia stessa.
Delle due l'una, infatti. O i suoi argomenti possono, almeno in linea di principio, rivolgersi ad ogni coscienza raziocinante, e allora lei deve parlare a tutti noi (quando si tratti di leggi dello Stato e di politica) in quanto prof. Ruini, in quanto cittadino Ruini. O i suoi "argomenti" sono invece costituiti dalla fede in un Dio e nella Sua Volontà interpretata secondo la "tradizione apostolica" della Chiesa di Roma, e allora è comprensibile che lei parli da cardinale ai fedeli.
Ma in tal modo sancisce un principio: che Dio possa diventare "argomento" nello scontro politico. E se il suo Dio, allora inevitabilmente anche il Dio della Torah in tutte le sue interpretazioni, e il Dio di Maometto (anche in ermeneutica fondamentalista), e accanto ad Allah Geova, e infine ogni Dio che una qualsiasi religione (vecchia o nuova) voglia adorare, e la cui Volontà voglia rendere "argomento".
In una società pluralista, insomma, ci sono solo due vie possibili: o tutte le fedi rinunciano alla tentazione di far valere i propri principi erga omnes (cioè di farli diventare leggi dello Stato), e dunque si limitano a proporre quanto delle loro convinzioni è argomentabile anche a prescindere dalla fede, o tutte le fedi hanno un eguale diritto a tentare di far diventare legge i valori della propria fede (etici, sociali, eccetera) in quanto fede.
E sarebbe risposta risibile quella del cattolico che sostenesse che le sue norme morali (che vietano la poligamia, il divorzio, il preservativo, l'aborto, l'eutanasia) sono norme naturali, dunque argomentabili in modo semplicemente umano (basandosi su logica, fatti accertabili, valori democratici), mentre quelle dell'islamico che volesse consentire la poligamia o del testimone di Geova intenzionato a proibire le trasfusioni devono far ricorso al dogma delle rispettive religioni, poiché infondate sul piano semplicemente naturale, razional-umano (argomentabile a prescindere dalla fede). Perché, se davvero è così, sarebbe logico e coerente (e magari anche utile per la Chiesa) che - quando si tratta di politica e di leggi - lei si esprimesse solo e sempre in quanto prof. Ruini e mai in quanto cardinale e vescovo.
Temo invece che l'antica e antidemocratica pretesa della chiesa di imporre al secolo le norme morali desunte dal dogma stia conoscendo una nuova stagione di fioritura opulenta. Ma questa volta più pericolosa e contraddittoria che mai. (...)
C'è poco da illudersi. Se non si esce radicalmente dalla pretesa di far valere qualcosa (ogni fede e ogni Dio) che esuli dal mero argomentare umano (e lei da tale pretesa non esce, anzi la riafferma, ogni volta che parla di politica e di leggi in quanto card. Ruini) saranno tutte le fedi, ciascuna con il proprio Dio, a voler decidere la norma penale e civile, in uno scontro interreligioso micidiale, oltre che in una tracimante ostilità alla logica della convivenza laica e democratica. Moltissimi anni fa sostenni che due capisaldi "irrinunciabili" della politica vaticana, l'8 per mille e il finanziamento alle scuole private confessionali, in un paio di generazioni si sarebbero rivelati dei tragici boomerang anche dal punto di vista della Chiesa. Non è passato ancora il tempo di una sola generazione, e già ci siamo: per quanto anni ancora si riuscirà e mantenere l'islam italiano (nelle sue diverse componenti) incostituzionalmente fuori dall'8 per mille? E le scuole private ispirate ad Allah e sostenute da finanziamento pubblico non sono ormai all'ordine del giorno?
(...) Infine, un accenno al merito dei suoi interventi. Lei, nella sua veste di card. Ruini, ha intimato ai fedeli di non andare a votare nel prossimo referendum. Tecnicamente, per chi vuole sconfiggerne i promotori, è la scelta più "furba". Poiché un'astensione del 30% in un referendum è ormai fisiologica, basta convincere due italiani su dieci a restare a casa e il referendum è sconfitto. Il referendum in quanto strumento, però, non solo il sì a questo referendum. Ma è sicuro che questa scelta "furba", che affossa di fatto l'istituto (perché in futuro tutti agiranno nello stesso modo, e convincere il 20% è alla portata di quasi tutti), sia anche lungimirante? Ha forse dimenticato che a voler l'introduzione del referendum fu proprio la sua Chiesa, per poter abrogare la legge che introduceva il divorzio? E se domani una maggioranza parlamentare introducesse altre leggi in contrasto con il diritto "naturale" (posto che come tale riesca ad argomentarlo, da professor Ruini, non da cardinale) non sarà il referendum uno strumento di tutela anche per il cittadino Ruini?
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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