Lettere
«Perché volete tornare al comunismo?»
Per mantenere una promessa che non è stata mantenuta
Onorevole Bertinotti, sono una ricercatrice universitaria, madre di quattro figli, che nei giorni scorsi si è trovata a parlare con i due più piccoli (10 e quasi 8 anni) di alcuni avvenimenti della storia del nostro paese, della guerra e della pace, del nazismo, del fascismo e del comunismo, nei modi e nei termini più semplici e comprensibili per una bambina e un bambino dell'età dei miei. Alla fine della chiacchierata mi stato chiesto quali sono e a che cosa servono i partiti politici (o meglio "le persone che litigano sempre in televisione") e al momento di nominare il partito del quale lei è segretario, la domanda secca e dura, come solo la logica ferrea dei bimbi sa formulare, è stata: «perché vogliono tornare al comunismo?». Ho subito pensato di tagliare la testa al toro con un perentorio «perché non hanno saputo o voluto ascoltare l'insegnamento della storia», ma poi ne sono venuta fuori proponendo di girare la domanda a lei che, per semplificare al massimo, ho descritto come una sorta di "capoclasse di turno". Devo dire che i bambini si sono esaltati all'idea: abbiamo cercato insieme su internet il suo indirizzo e-mail ed eccoci qua in attesa della "sua" risposta (ingenuamente con e come i miei figli voglio sperare che non sarà quella del "bidello di turno") che mi auguro arrivi perché, altrimenti, i bambini, uomini e donne del futuro, non solo continueranno a pensare che i politici sono "quelli che litigano sempre in tv", ma anche quelli che non sanno dare risposte e poi… cosa altro mi dovrei inventare per giustificare il silenzio del "capoclasse"?
Francesca Lardicci, Clelia e Edoardo Pisanti Pisa
Care e cari Clelia, Edoardo e Francesca, anch'io avrei la tentazione di rispondere alle vostre domande tutto d'un fiato, con una sola frase, come questa "vogliamo tornare al comunismo per mantenere una promessa che non è stata mantenuta". La frase non è mia e non è la prima volta che la uso. L'ho presa a prestito da un filosofo contemporaneo che abbiamo molto amato e che ci ha lasciato recentemente, Paul Ricoeur. La utilizzo spesso perché la filosofia quando è veramente grande si fa capire anche da un bambino. Il filosofo francese soleva dire che rifondare significa cercare di mantenere una promessa che è stata delusa. Il nostro partito si chiama Rifondazione comunista. E' nato e si è dato quel nome proprio per cercare di mantenere quella promessa. Quella frase perciò condensa in una mirabile sintesi la nostra vocazione e il nostro programma di fondo.
Ma so bene che non me la posso cavare così. Questa è solo una giusta premessa, ma la risposta è più complicata. Lei, Francesca, ma anche voi, Clelia ed Edoardo, avete ragione: ci sono state delle repliche della storia, anche molto dure. Perché dunque continuare ad insistere? Non potrebbe darsi, in altre parole, che la promessa non sia stata mantenuta perché non poteva essere mantenuta, perché era una cattiva promessa? Perché il comunismo era un'idea fin dal suo inizio sbagliata o irrealizzabile? Sono domande che valgono una vita e non di una persona sola, ma di intere generazioni ed io non posso e non voglio sottrarmi ad esse.
La cosa più facile da spiegare è perché continuiamo ad insistere. Basterebbe guardare il mondo di oggi. Avete parlato tra di voi di guerra e di pace. Mentre vi scrivo sono tempestato dalle terribili notizie che giungono da quella famosa località turistica dell'Egitto, dove il numero dei morti si allunga di minuto in minuto. Dietro quell'attentato, e quello di due settimane fa di Londra, e quello di un anno fa a Madrid, e quello dell'11 settembre a New York e altri ancora, vi è un disegno politico, quello del terrorismo, che agita strumentalmente la credenza nell'Islam e la condizione di miseria nella quale vivono tantissime persone in Asia o in Africa, per provocare distruzioni e uccisioni, per condurre una guerra contro l'umanità.
Ma prima ancora che il terrorismo portasse i suoi terribili colpi e indipendentemente da esso, il mondo non viveva in pace. Anzi era, ed è, percorso da una guerra infinita, che non aspetta neppure un pretesto - Paride che rapisce la bella Elena o un giovane studente serbo che uccide un arciduca austriaco -, fatta di molte guerre lontane e vicine, nelle quali a differenza di un passato che voi, bambini, potete conoscere solo sui libri, non muoiono soldati o guerriglieri, ma, per oltre il 95% dei casi, persone civili, tra cui molte della vostra stessa età. Un mondo nel quale oltre due miliardi di persone vivono con meno di un euro al giorno. Nel quale molte popolazioni sono prive di cibo e di acqua, non possono mandare i loro figli a scuola né curarli da malattie, anzi sono costrette a inviarli al lavoro, quando ce n'è. Nel quale tre persone possiedono più ricchezza di quanta ne possa produrre un intero stato africano popolato da milioni e milioni di persone (ho detto tre persone, non mi sono sbagliato; una di queste è quella che possiede i diritti dei sistemi che permettono al computer di casa vostra ed al mio di funzionare). All'inizio del secolo scorso, il Novecento, la differenza tra i paesi più poveri del mondo e quelli più ricchi era di uno a tre, ora è di uno a settanta e oltre, se non ricordo male. Ma se non mi credete, e non mi offendo affatto, cercate su internet, visto che ne siete espertissimi, cosa vi dice il Rapporto sullo sviluppo umano redatto dall'Organizzazione delle Nazioni Unite e lì troverete cifre e analisi ancora più precise sulle grandi ingiustizie sociali del nostro tempo.
Queste guerre, queste ingiustizie sociali, queste inconcepibili differenze che segnano la nostra epoca non sono il prodotto del comunismo. Anzi quest'ultimo ha cercato di cancellarle, e casomai gli si può imputare di non esservi riuscito o di averlo fatto solo in parte creando al contempo altri problemi. Se il mondo è così mal formato questa è responsabilità del sistema dominante, il capitalismo, la globalizzazione capitalistica, la logica dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sull'ambiente e sulla natura per la ricerca di guadagno. Ora che il cosiddetto sistema comunista è crollato, questo è più evidente di prima.
Ecco allora perché insistiamo, perché non possiamo tollerare che la spirale tra la guerra e il terrorismo metta a rischio il pianeta e la vita delle generazioni presenti e future, perché non possiamo accettare che la logica della sopraffazione costringa alla sofferenza, alla povertà, all'assenza di diritti e di libertà la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Non siamo soli a pensarla così e ad agire di conseguenza. Nel mondo e in ogni paese c'è un grande movimento contro la guerra e il neoliberismo, che pratica la pace e si oppone a ogni forma di terrorismo. Da quel movimento ci aspettiamo le risposte al futuro dell'umanità. Assieme vogliamo costruire un'altra società, un altro mondo nei quali a tutte e a tutti siano date le stesse possibilità di vita e dove non si possano determinare simili abissali disuguaglianze e sopraffazioni, fino alla distruzione fisica delle persone e dove invece la libertà di ognuno non finisca dove comincia quella dell'altro, ma si sviluppi assieme a quella dell'altro. Non riesco a trovare un altro termine che non sia quello di comunismo per definire tutto ciò.
Tuttavia comprendo che voi mi potreste incalzare con un'altra domanda. Ma se il comunismo che c'è stato anziché creare ciò che tu dici ha provocato altri guai, non era forse sbagliato fin dall'inizio? E allora, forse, non dovremmo percorrere altre strade per cambiare un mondo che non ci piace?
Certamente la storia del tentativo di realizzare il comunismo - quello che spesso chiamo con un'altra espressione presa a prestito: il tentativo dell'assalto al cielo - è segnata da molti errori, alcuni fatali. Le donne e gli uomini che l'hanno percorsa hanno pensato di potere conquistare il potere nello stato e attraverso questo di cambiare la società. E' successo il contrario, cioè che la logica del potere ha cambiato quegli uomini, spesso spingendoli a governare in modo autoritario e violento. Quella esperienza ci ha anche dimostrato che non basta la libertà da, cioè dal bisogno, dalla fame, dalla miseria, ma ci vuole anche la libertà di, cioè di esprimere il meglio di sé stessi, di costruire delle nuove esperienze di vita sociale, di praticare concretamente la libertà per tutti. Ci ha dimostrato che non si possono separare i mezzi dai fini, non si può pensare di essere i liberatori dell'umanità e però nel frattempo soffocare quella di chi ci sta accanto. Ci ha dimostrato che non esiste una verità assoluta alla quale uniformare la vita degli uomini secondo uno schema predefinito, ma che la ricerca della giustizia e della libertà avviene ogni giorno e ogni giorno avviene rimuovendo resistenze e ostacoli, a cominciare dalle nostre debolezze e dalle nostre pigrizie. Per questo la definizione di comunismo che amo di più è quella celebre di Marx che lo definiva come il movimento che abbatte lo stato di cose presente. Il che significa che esso non potrà mai esaurirsi con l'instaurazione di un nuovo ordine sociale e statuale, ma sarà sempre una tensione costante di tutti gli uomini verso la giustizia sociale e la pace.
Per questo si può essere comunisti solo se si nutre una grande fiducia nell'umanità nel suo complesso e contemporaneamente un sano scetticismo nei confronti di sé stessi. Se si è generosi con gli altri ma severi con sé. Ma per avere fiducia nell'umanità bisogna imparare a conoscerla. A conoscerla concretamente, voglio dire.
Questo è il piccolo grande insegnamento che ci viene dalla straordinaria esperienza degli zapatisti del Chiapas. Essi ci dicono che bisogna camminare domandando. Cioè, fuori di metafora, che non ci si può fidare delle grandi idee, ma bisogna metterle alla prova nel confronto con la realtà, sempre e continuatamene, e sapere che questa non è materia inerte ma fatta dei sentimenti, delle aspirazioni, dei desideri delle persone che ci circondano. Se noi vogliamo che la nostra ricerca di un nuovo comunismo non finisca in polvere o che si risolva nel suo contrario, dobbiamo abitare senza riserve e senza risparmio la società del nostro tempo e non rifugiarci mai sulla torre dei nostri ideali.
Cari Clelia ed Edoardo voi avete la fortuna di essere nati in una famiglia che vi apre una finestra sul mondo. Potete fin da piccoli discutere di grandi cose e non siete distratti dal problema di come fare a mangiare tutti i giorni. E' una buona condizione di partenza. Il mio augurio è che non la sentiate né come un privilegio né come una colpa, ma come il punto d'avvio per un lungo cammino per costruire un mondo diverso e possibile. Non saranno né i bidelli né i capoclasse a dirvi dove e come andare, ma la vostra stessa capacità di entrare in sintonia con le sofferenze e le speranze delle persone intorno a voi.
Liberazione Domenica 24.7.05
Prima pagina
Il Fenomeno ZP, un socialista senza marxismo, un europeo che dice no alla chiesa e agli Usa
Viaggio nella Spagna governata da José Luis Rodriguez Zapatero
In un anno e mezzo di governo sono già tante le leggi innovatrici approvate.
Quasi tutte riforme a costo zero, ma indicazioni forti, decisioni simboliche e concrete
Il "socialismo" gentile di Rodriguez Zapatero
Ritanna Armeni
Madrid. Se ascoltiamo i discorsi o leggiamo le interviste di Zapatero non troveremo mai un accenno alle classi o alla lotta di classe; non scopriremo una parola contro la borghesia o l'aristocrazia, né un accenno al proletariato. Non lo sentiremo mai parlare di sfruttamento. Niente di tutto questo. Il socialista José Luis Rodriguez Zapatero, figlio di antifascisti, nipote di un oppositore ucciso dal regime, premier spagnolo, inaspettato, ma oggi solido e amato, non pronuncia le parole della tradizione, e appare infastidito da ogni domanda ideologica. Lui non si pone il problema di riforme che superino più o meno gradualmente l'economia di mercato. Né pensa che questa in sé sia una brutta cosa. Le sue priorità, le sue discriminanti sembrano scartare rispetto alla tradizione del socialismo europeo e mondiale. La aggirano. Lui dice che le questioni si trattano volta per volta, senza giudizi preventivi. Senza ideologie che ne precostituiscano le soluzioni.
Da qui, da queste elementari constatazione bisogna partire per cercare di capire che cosa è il socialismo del leader spagnolo.
Qual è l'idea centrale del socialismo di Zp, come il premier viene chiamato dai giornali spagnoli? E soprattutto sopravvive in lui un'idea di socialismo? E' evidente che il socialismo che mette al suo centro l'economia e la struttura per criticarla e superarla non fa parte del suo bagaglio culturale. Anzi rispetto a quel socialismo Zp è piuttosto critico. La sua idea forza appare piuttosto la "Democrazia" strumento fondamentale per ridurre, ridimensionare, riportare a sopportabilità e, se è possibile, cancellare le forme di dominio presenti nella società. Perché questo è il problema. Nella società esistono molte forme di dominio a cominciare da quella degli uomini sulle donne e queste si possono superare solo con un continuo, costante e incessante processo democratico.
In una intervista a Le Monde, concessa nei mesi successivi alla sua designazione a primo ministro, ha detto: "La sinistra ha dimenticato la società e il funzionamento democratico. Ogni passo verso una maggiore democratizzazione per la parità fra i sessi o per una maggiore partecipazione, per esempio nelle organizzazioni non governative, nel dominio delle decisioni politiche ed economiche apre la possibilità di società più giuste. E questa la grande sfida del socialismo del 21esimo secolo. " E ha concluso per rendere più chiaro il pensiero: " E' più efficace fare dei programmi di discriminazione positiva per avere più donne scienziate, che aumentare le tasse o ridurre l'orario di lavoro a 35 ore".
C'è chi pensa fra gli intellettuali che circondano il primo ministro e ne approvano la politica che il socialismo sarà un approfondimento, un passo ulteriore e successivo a quello della piena democrazia. Che esso verrà in un futuro e che, così come non c'è socialismo senza democrazia, inevitabilmente non possa esserci democrazia senza socialismo. Può darsi. Sta di fatto che per ora Rodriguez Zapatero preferisce puntare tutto sulla prima.
Se nei discorsi e nelle proposte del premier spagnolo non appaiono più le parole della tradizione quali sono quelle nuove che disegnano il socialismo senza marxismo di ZP? Non è difficile trovarle. Sono declinate e ripetute con enfasi, convincimento e passione nei suoi discorsi. Ma soprattutto - questa la grande novità nella politica e fra gli uomini politici del pianeta - sono praticate con una ossessiva coerenza. Democrazia si è detto. E poi parità e laicità. E ancora libertà, pluralismo, solidarietà, protezione dei deboli, dialogo. E pace.
Ogni legge approvata dal parlamento spagnolo in questo anno e mezzo di legislatura è la messa in pratica di queste parole. Ritiro delle truppe dall'Iraq, legge contro la violenza sessuale, matrimonio gay, riforma della Tv pubblica e di quelle private, proposta di togliere la parola "guerra" dalla Costituzione, ridimensionamento del potere della Chiesa cattolica, legge sull'immigrazione, divorzio veloce. Quasi tutte riforme a costo zero, ma indicazioni forti, decisioni simboliche e concrete. Una declinazione inflessibile delle regole di una società in cui devono essere eliminate le forme di dominio. Regole che qualche volta sfiorano il mercato, ma che non intaccano mai quelle dure leggi dell'economia che anche in Spagna si fanno sentire. Regole che toccano però (eccome) altre odiose forme di dominio. Il socialismo per Zapatero non è soprattutto cambiamento della struttura economica di un paese. Anzi per il premier spagnolo chi la pensa così sbaglia ed è condannato all'immobilismo. Lui preferisce agire su altri terreni. Ce ne è abbastanza per definirlo - come fa parte della sinistra italiana - revisionista, moderato, illuso, radicale e magari anche pericoloso. Forse. Oggi, a solo un anno e mezzo dall'inizio del suo governo, ogni conclusione anche la più negativa, è ancora possibile. A patto di non dimenticare che questo moderato socialista non marxista ha rotto in nome dei principi e delle parole del suo "socialismo" con i due poteri forti del nostro pianeta: gli Usa e la Chiesa cattolica.
Né Blair, né Schroeder, né Jospin. E neppure Felipe
La sua "via" quella che ormai appare delineata non è né quella di Blair, né quella di Schroeder né quella di Jospin. E non è neppure quella di Felipe Gonzales che ha modernizzato, ma non completamente democratizzato la Spagna.
E' chiaro che Zp ritiene il socialismo francese perdente e i tentativi dell'ex primo ministro Jospin evidentemente falliti. Quel socialismo, che aveva tentato riforme importanti, che aveva cercato di salvaguardare le sicurezze dei cittadini francesi, ha perduto, aggredito dai grandi problemi dell'insicurezza sociale, della disoccupazione della globalizzazione.
E' evidente che Zp guarda con distacco e anche con malcelata critica a quel che rimane delle aspirazioni socialdemocratiche di Schroeder, frustrate nel ridimensionamento dello stato sociale, nella riduzione dei salari, nei cattivi rapporti col sindacato, nella caduta del consenso. E giudica quella socialdemocrazia troppo economicista, poco moderna, poco capace di comprendere le nuove realtà sociali e di rivolgersi al cittadino.
Quanto a Blair, il discorso è più complesso. Molti hanno voluto vedere una somiglianza fra i due leader, forse nella ricerca di una "terza via" che accetta l'economia di mercato, e vuole modernizzare il welfare e nella insofferenza nei confronti delle strade che i socialisti europei vorrebbero seguire nel tentativo di moderare la globalizzazione. Ma le somiglianze, pure importanti, si fermano qui. La "terza via" di Blair è il tentativo di adeguarsi alla globalizzazione nella convinzione che solo agevolandola anche attravero l'intervento dello stato essa possa progredire e quindi consentire una redistribuzione della ricchezza. Di qui il suo liberismo che però non rinuncia anzi pone al centro la questione sociale, il problema della redistribuzione della ricchezza. Il fatto che la "terza via" sia diventata di fatto la "prima" non cancella la tradizionale attenzione socialista nei confronti dei temi dell'economia. La sua concezione dell'Europa come un grande mercato, il suo atlantismo, il suo appoggio alla guerra come consapevole risposta alla crisi aperta dalla globalizzazione sono risposte sbagliate, ma coerenti con la ricerca di una risposta ai problemi sociali che la globalizzazione della Gran Bretagna e dell'Europa.
Zapatero dribbla, prende tempo, ostenta pragmatismo. Se il capitalismo globalizzato attacca gran parte del pianeta e la guerra ne è una dimostrazione, l'Europa ancora non risente dei drammi del mondo. Qui si può agire non contrapponendosi al mercato globale, ipotesi impossibile, ma aggirandolo, cercando di incidere sui diritti, salvaguardando le forme democratiche, e potenziandole in modo da rendere gli uomini e le donne più consapevoli dei propri diritti, e quindi meno soggetti al dominio e ai domini. Pretendendo parità, praticando laicità e pluralismo. Di qui l'importanza per Zp dell'Europa intesa come forma politica che non si oppone al mercato, ma il cui scopo non è, come invece è per Blair, estenderlo e rafforzarlo. Di qui l'opposizione alla guerra, la sua decisione di non collaborare alla guerra in Irak. Zapatero non è un pacifista, ma è convinto dell'inefficacia della guerra. Perché essa non risolve, anzi accentua, i problemi posti dalla globalizzazione al pianeta. Di qui la sua contrapposizione agli Usa. Essa è utile solo a rafforzare un dominio. E a portare anche nel vecchio continente quei problemi della globalizzazione che il premier spagnolo vorrebbe il più possibile tenere fuori dall'Europa.
Un Giddens per Zapatero
Zp come Blair ha un ispiratore, un filosofo nelle cui idee si è ritrovato e sulle quali ha costruito gran parte delle sue politiche. Il Giddens del primo ministero spagnolo si chiama Philip Pettit, è irlandese, vissuto in Australia, professore di Teoria politica e filosofia all'università di Princeton. Le sue idee sono contenute in un ponderoso volume, edito in Italia da Feltrinelli e fino a qualche tempo fa ricercato solo dagli esperti, che si intitola "Repubblicanesimo".
Zapatero lo ammira a tal punto che quanto il professore è venuto a Madrid è andato a incontrarlo e ad ascoltarlo nel Caffé delle Bellas Artes.
Che cosa dice Philip Pettit nelle 381 pagine del suo libro? Propone di superare le due teorie che hanno dominato la teoria politica del novecento: il comunitarismo e il liberalismo. In che modo? Attraverso il "repubblicanesimo", cioè un sistema di valori che ha al suo centro il concetto di libertà. Libertà - spiega il professore a - intesa come "non dominazione", anzi opposizione al dominio. Diversa quindi dall'idea di libertà "liberale" che si limita ad essere "non interferenza" nella vita e nelle opinioni degli altri.
Se il liberalismo in nome della libertà intesa come "non interferenza" accetta che alcuni possano dominare su altri e quindi si adegua ad una situazione di non parità, il repubblicanismo invece promuove tutte le forme di risposta democratica al dominio.
Pettit parla della società moderna come di una società complessa in cui i protagonisti non sono i gruppi sociali, (lavoratori, imprese, corporazioni, ceto medio, chiese) ma gli individui, cittadini tra i quali costruire nuove forme di dialogo e di eguaglianza. Tanto più forte è la consapevolezza di ciascuno, tanto più profonde sono le conoscenze del singolo tanto più si condiziona e si riduce il potere. Tanto più un cittadino è consapevole tanto più sollecita risposte del potere e lo circoscrive e limita. In una società moderna la possibilità di contestare il potere, la creazione di questa possibilità deve, secondo Pettit, sostituire quello che è stato invece l'obiettivo di una vecchia concezione della democrazia, cioè la ricerca del consenso.
Le domande senza risposta
Nella Spagna di Zapatero, che sta vivendo un momento di entusiamo e di vitalità sono comunque molte le domande inevase che si colgono nelle discussioni, fra gli intellettuali e le fondazioni di ricerca che appoggiano il premier. Si possono ridurre gli elementi di dominio senza mettere in discussione l'economia di mercato? Forse si può, ma fino a quando? Fino a quando l'economia non diventerà ostacolo allo sviluppo di quella democrazia così fondamentale nella concezione zapateriana della società? E' possibile pensare ad un rovesciamento di quell'esperienza storica del socialismo secondo cui prima si deve cambiare la struttura e da questo cambiamento deriveranno tutti gli altri? E' possibile pensare che all'opposto dai cambiamenti civili, dalla eliminazione delle forme di dominio non strettamente dipendenti dalla struttura economica si possa partire per arrivare a modificare il sistema economico? A queste domande per ora non è possibile dare risposta. C'è chi pensa che questa risposta si dovrà dare e presto. La crisi economica e i problemi esploderanno anche in Spagna in autunno, quando il governo dovrà presentare il piano economico per il 2006. Quei numeri e quelle cifre non saranno indicative solo di quel che il governo intende fare, ma anche di quali rapporti di forza intende spostare e quindi, inevitabilmente, saranno indicazione del "socialismo" di Rodriguez Zapatero. Sapremo allora se la via della democrazia, della parità, del non dominio, intacca, sia pure con prudenza il dominio delle forze economiche, se si cercheranno forme di parità anche per i più deboli. O se la democrazia lì metterà un confine. Col rischio molto realistico che torni indietro.
(1-continua)