lunedì 10 ottobre 2005


su AVVENIMENTI in edicola

Avvenimenti, n. 39 - 7-13 ottobre
NINNA NANNA MORTALE
Crescono in Italia i casi di figlicidio. Uccidono anche i padri.
Ma le madri hanno un triste primato ammazzano i loro bambini ancora in culla.
di Simona Maggiorelli

Christa Wolf è stata gentile con Medea. Frugando fra le fonti del mito per dimostrare che non uccise mai i suoi figli. Fu solo, sostiene la scrittrice tedesca, l’invidia delle altre, la sua nascita straniera, il suo essere irrazionale ad attrarle, per secoli, accuse e calunnie. Ma la realtà, quella più dura della cronaca nera, ci dice invece che, qualche volta, le donne, se si ammalano, uccidono davvero i propri figli. Casi limite, efferati, disumani, che appaiono inspiegabili. Come quello della trentenne che, tre anni fa, in un piccolo paese della Valtellina prepara la merenda per la figlia e poi la affoga nella lavatrice. O come quello della nobildonna fiorentina che, dieci anni fa, tagliò la gola al suo bambino. Lo scorso settembre, a Merano, un altro caso. E un altro ancora di una giovanissima madre assassina lo scorso luglio. Quasi un caso ogni due mesi, nell’ultimo anno, ha riscosso l’attenzione fortissima dei giornali.«Anche se la patologia grave, alla fine, riguarda una percentuale minima di popolazione, il fenomeno allarma e pone domande che interessano tutti» nota la psichiatra Elvira Di Gianfrancesco nel saggio Il figlicidio: un delitto inspiegabile? pubblicato sulla rivista scientifica Il Sogno della farfalla. Venerdì 7 ottobre, al Dipartimento Tutela, maternità e infanzia della Asl Roma est, al convegno “Identità e immagine femminile”, si parla anche di questo. E la psichiatra romana che lavora nel reparto di psichiatria d’urgenza dell’ospedale San Giovanni presenterà una nuova tranche della sua ricerca sul rapporto fra crimine e malattia mentale nelle donne.
Dottoressa Di Gianfrancesco che sta accadendo? I figlicidi sono in aumento? O sono solo i media ad occuparsene di più?
Dalle statistiche si direbbe che ci sia una ripresa. Mentre diminuiscono i delitti legati alla criminalità, aumentano i crimini in famiglia. Ma c’è di più. Per quanto fin qui non esistano dati completi ed esaustivi, dall’Istat e dagli archivi delle agenzie giornalistiche, emergono cifre che sollevano delle domande. Si nota, per esempio, che gli infanticidi (gli omicidi entro il primo anno di vita del bambino ndr), in Italia sono aumentati fino agli anni 70. Poi hanno cominciato a diminuire attestandosi intorno ai dieci casi all’anno, dagli anni 80 a oggi. L’aumento di presidi sanitari e sociali, l’apertura dei consultori, il nuovo statuto della famiglia hanno prodotto dei risultati. Il che fa pensare che, almeno in parte, il fenomeno dell’infanticidio poteva essere considerato un crimine sganciato da patologie mentali gravi. Oggi, invece, i casi residui, in migliorate condizioni sociali, hanno certamente a che fare con gravi patologie. È il caso soprattutto dei figlicidi, padri o madri che uccidono bambini che hanno più di un anno.
Sono più le donne o gli uomini a uccidere?
Nel caso del neonaticidio, che avviene nelle prime 24 ore dal parto, e dell’infanticidio, statisticamente, sono più le donne. Nel figlicidio uomini e donne sono presenti quasi nella stessa percentuale.
Le patologie più gravi nelle donne?
Fermo restando che nessuna donna che uccida il proprio figlio può, alla fine, essere considerata sana di mente, le perizie psichiatriche ci dicono che fra le figlicide ci sono patologie più gravi che nelle infanticide.
Nei processi però sono, spesso, giudicate “capaci di intendere e di volere”.
Accade, purtroppo. Il 97 per cento delle figlicide viene sottoposto a perizia, ma solo un terzo poi viene ritenuto “incapace di intendere e di volere” e mandato in ospedale psichiatrico giudiziario. La stragrande maggioranza viene giudicata colpevole e va in carcere. Mentre, a mio avviso, dovrebbe stare in un luogo di cura.
Si legge di casi, inquietanti, di raptus improvvisi. Ma spesso si scopre che la donna che poi arriva a uccidere era in terapia. In quei casi lo psichiatra ha sbagliato la diagnosi?
La previsione di pericolosità di un paziente, indubbiamente, è la cosa più difficile da fare per uno psichiatra. Ma se ci si basa solo sul comportamento cosciente della paziente e si ha un’impostazione psichiatrica positivistica diventa ancora più difficile. Il comportamento manifesto di queste donne, spesso, sembra a posto. Ma è nelle dimensioni inconsce che bisogna andare a cercare.
In questo senso il caso di Cogne è emblematico?
Sì, apparentemente tutto era normale nella vita di Anna Maria Franzoni. Ma a ben vedere c’erano dei segnali. Dalle ricostruzioni dei periti si sa che la signora era stata dalla psichiatra e che in passato aveva ripetutamente consultato il pediatra dicendo che la testa del figlio le sembrava troppo grossa, che emanava calore e che, per questo, gli misurava continuamente la febbre. Il sospetto che viene è che la Franzoni avesse sviluppato un delirio verso questo bambino. Un delirio cronico, acuto, anche se non sappiamo cosa sia scattato in lei quella notte o quella mattina del gennaio 2002.
In delitti simili c’è qualcosa che appare disumano, incomprensibile, perché non se ne vede il movente…
Sicuramente il delitto passionale, l’amante che uccide per gelosia, appare più comprensibile. Il disumano qui è la freddezza, la precisione di comportamento. La Franzoni appare sempre ben organizzata. Si scompone solo nelle immediate fasi successive al delitto, nella conversazione con il brigadiere della stazione di Saint Pierre. Lì ha fatto qualche errore. Anche se poi si è dissociata dalle intercettazioni ambientali che, in parte, pubblico nel mio lavoro. Ma solo un profano pensa che il matto sia quello che strilla e rompe tutto. Uno psichiatra sa bene come la lucidità non sia affatto incompatibile con una malattia mentale grave. Si poteva notare qualcosa di strano in certe reazioni di Anna Maria nelle interviste in tv in cui appare tutto calcolato, anche le lacrime. E poi certi comportamenti, per esempio, non accompagna il figlio in eliambulanza. Invece di andare a trovarlo va dal parrucchiere. E in quelle richieste al marito: «Mi aiuti a farne un altro?». C’è dietro un’anaffettività, per cui un bambino morto è come un paio di scarpe che si possono cambiare.
Tornando agli infanticidi, la depressione post parto può portare ad uccidere?
Sì, ma si tratta di casi completamente diversi. Si parla genericamente di disturbo puerperale e raccoglie sia casi di psicosi che di depressione. Intesa come patologia grave, non come semplice tristezza e umore basso. Il parto come tutti gli eventi stressanti e importanti può contribuire al manifestarsi di una patologia che c’era già.
Nel libro E poi venne la pioggia, in uscita questo mese in Italia, l’attrice Brooke Shields racconta la propria depressione post parto. Colpisce come immaginava l’essere madre: gelide immagini da cartolina, di bagnetti nel lago, con una bambina bambola. Ma la bambina vera piange e reclama attenzione e le manda il mondo in frantumi...
Inevitabilmente. Io credo che sia una riflessione da fare su che immagine abbiamo della maternità. Quando le nostre nonne facevano figli avevano un’idea diversa dalla nostra. E, in un certo senso, per loro era più facile. Oggi Brooke Shields pensa che avere un bambino corrisponda a quella rappresentazione astratta. Quando tutti sanno che fare un figlio non è quello. Intendo dire che oggi la maternità rischia di non essere più una realizzazione d’immagine interiore, mentre dovrebbe esserlo. Normalmente si fanno figli e nessuna li ammazza. Ma poi ci sono casi di depressione grave come quello della ragazza di Merano che voleva fare l’attrice. Ci aveva provato e aveva fallito. A quel punto aveva deciso di fare un’altra cosa, di cercare una realizzazione avendo un figlio, ma si accorge che è un secondo fallimento. E allora la depressione si rivolge tragicamente al bambino.
Se la maternità è diventata un fatto più complesso da elaborare, in casi di patologia rischia di diventare ingestibile?
Quando un crimine è in crescita dobbiamo domandarci, perché accade? Perché proprio quello? Colpisce che nella maggioranza dei casi di figlicidio, oggi, si tratti di mogli, casalinghe e cattoliche. E mi chiedo: c’entra con il modo in cui affrontano la maternità? C’è molto da studiare ma, intanto, mi sentirei di mettere sotto accusa un’idea di maternità che forse va ripensata e ridefinita.

Il Punto: “IL LATO OSCURO DEI MANICOMI GIUDIZIARI”

I casi di cronaca hanno fatto parlare molto, negli ultimi mesi, di un ospedale psichiatrico criminale, quello di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, dove vengono ospitate le “madri assassine”, riconosciute dalla legge malate di mente. Ma quella degli Opg (gli ospedali psichiatrici giudiziari che in Italia, prima del 1975, si chiamavano manicomi criminali) è una storia ancora poco conosciuta. La psichiatra Maria Rosaria Bianchi, che ha lavorato all’Opg di Aversa ne ripercorre alcuni significativi capitoli al convegno "Identità e immagine femminile" il 7 ottobre nella sala teatro S.Spirito a Roma. “Della declinazione al femminile dei manicomi criminali si sa ancora poco – denuncia la psichiatra-. Ho incontrato molte difficoltà nel ricostruirla, nel ventennio anni ’30 anni’50, primo ambito della mia ricerca. Mancavano i documenti, le date. Al punto che, almeno agli inizi, ho avuto la sensazione che fosse una storia drammaticamente occultata”. E in casi lo era davvero. Specie quando si trattava di “far sparire” donne sentite come un problema in famiglia. “il caso più atroce che ho scoperto nell’archivio di Aversa - racconta Bianchi- è quello di una ragazzina reclusa perché vittima di incesto. La famiglia voleva occultare il fatto. Una storia terribile e, purtroppo, non infrequente”. Ma nel distaccamento femminile di Pozzuoli (chiuso dopo la morte di una donna di 40 anni nel letto di contenzione) si trovano le storie più diverse. “C’era la serial killer, la cosiddetta amante diabolica, ma anche la prostituta e quella che si era semplicemente ubriacata”. Dentro nessuna idea di cura o di terapia, solo un po’ di assistenza. “Lo racconta anche lo scrittore e psichiatra Mario Tobino nel romanzo Le libere donne di Magliano – aggiunge la psichiatra – credendo di ricavare da queste donne un’impressione divina della libertà femminile, salvo poi contrapporre le figure delle suore”. Non sappiamo neppure, nota Maria Rosaria Bianchi, quanti fossero davvero i casi da manicomio criminale. “Il contesto era drammatico, agiva un grave intreccio fra psichiatria e diritto e psichiatri e giudici si regolavano solo secondo morale”.