mercoledì 22 marzo 2006

a proposito del Palazzetto Bianco di Massimo Fagioli e Paola Rossi
Paesaggio urbano 2.2006 mar-apr 2006
rivista bimestrale di architettura, urbanistica e ambiente
Inconsueta e sorprendente

di Franco Purini

Con una efficace intuizione critica Paolo Portoghesi aveva scritto qualche anno fa che la palazzina romana è paragonabile a un sonetto. Come quella particolare forma poetica, rigorosamente codificata ma capace di prestarsi ad una infinità di espressioni diverse, anche la palazzina, pur essendo essa stessa estremamente canonizzata nei suoi caratteri tipologici e nel suo vocabolario formale, consente infatti inesauribili possibilità di produrre variazioni al punto che soltanto in ogni sua singola articolazione essa si fa pienamente riconoscere. Un piano terra che può ospitare appartamenti o garage più quattro piani e un atrio; una scala che distribuisce due o a volte tre alloggi per piano, in qualche caso sfalsati; una copertura piana o a tetto una serie di balconi i quali, oltre a dotare gli alloggi di uno spazio aperto sull’esterno, movimentano plasticamente un volume di solito quadrato o quadrangolare, spesso dinamizzato da andamenti planimetrici irregolari, con superfici disposte secondo angolazioni inclinate rispetto all’ortogonale: sono questi gli elementi base di questo tipo edilizio, un principio organizzativo tradotto in un edificio il quale, ripetuto migliaia di volte, ha costituito la principale materia architettonica per l’espansione di Roma nel secondo dopoguerra. Costituita da un elemento di casa in linea, ma con le pareti terminali forate da bucature, la palazzina è un tipo talmente molteplice nelle sue singole espressioni da dissimulare le sue stesse costanti generiche. C’è da aggiungere che la palazzina prevede anche schemi distributivi più grandi e complessi nei quali due scale servono quattro alloggi. In questi schemi i bagni e le cucine affacciano su chiostrine interne. I migliori architetti romani del Novecento hanno saputo fornire interpretazioni magistrali di questo tema, declinato sia nei termini di un rigore manualistico, seppure ispirato, sia in quelli di una immediatezza di scrittura risolta in configurazioni disinibite e imprevedibili, spesso gestuali fino all’arbitrarietà. Marcello Piacentini, Mario Ridolfi, Wolfang Franke, Adalberto Libera, Pietro Aschieri, Gino Capponi, Luigi Moretti, Saverio Muratori, Ludovico Quaroni, Eugenio Galdieri, Pietro Barucci, Davide Pacanowsky, Carlo Aymonino, Mario Fiorentino, Luigi Pellegrin, Claudio Dall’Olio, Ugo Luccichenti, Bruno Zevi,Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, Francesco Berarducci, Paolo Portoghesi rappresentano i capofila di una foltissima schiera di ottimi progettisti che hanno lasciato nel tessuto urbano architetture di grande significato.

La città delle palazzine è una città positivamente contraddittoria. Per molti versi essa è fortemente omogenea, essendo costituita da elementi edilizi simili inseriti in un contesto in cui la presenza del verde che circonda su quattro lati il volume è particolarmente importante; per l’altro la differenziazione tra una palazzina e l’altra dà vita ad un ambiente urbano pieno di episodi singolari, di accensioni individuali linguistiche, che fanno sì che ogni strada acquisti un carattere peculiare. Per qualche decennio, soprattutto da parte degli urbanisti di sinistra, la palazzina è stata accusata di negare con il suo individualismo l’essenza della città come costruzione collettiva che doveva esprimere tale natura solidale e unitaria tramite manufatti di scala più ampia, destinati a consistenti comunità di abitanti, manufatti coordinati in un disegno urbano fortemente gerarchizzato. Solo da qualche anno questa opposizione, simboleggiata dalla gigantesca diga del Corviale allineata sul bordo della città ad arginare la marea delle palazzine, è stata superata anche per merito di studiosi come Giorgio Muratore, Alessandra Muntoni e Luca Ciancarelli. Critici e storici hanno cominciato da allora a leggere il ruolo e le vicende della palazzina romana con occhi nuovi, cogliendo proprio in quella combinazione di regole ed eccezioni, già messa in evidenza da Paolo Portoghesi, il segno di una intrinseca e necessaria versatilità architettonica e urbana.

Paola Rossi fa parte da anni di quel gruppo di architetti-artisti riuniti attorno a Massimo Fagioli, una numerosa e attiva comunità che si è distinta per una indiscutibile capacità inventiva, per una sicura attitudine alla sperimentazione e per una notevole originalità nel pensare e costruire l’architettura al di fuori di ogni tendenza consolidata. Massimo Fagioli è una figura centrale nell’attuale panorama culturale, non solo romano e nazionale. Psicanalista eversivo, estraneo all’accademia, egli ha cercato di infrangere le ferree e statiche liturgie post-freudiane proponendo al posto della singola analisi un lavoro interpretativo esteso a più persone, successivamente coinvolte in una serie di impegnative attività culturali. Architetto anch’egli per vocazione e volontà ma anche designer, artista, regista cinematografico, animatore culturale, Massimo Fagioli ha creato una situazione assolutamente unica nel dibattito contemporaneo, anche se molto controversa e per di più di un motivo fraintesa. Una mostra di qualche anno fa, “Il coraggio delle immagini”, aveva dato a lui e al suo gruppo l’occasione di dimostrare quanto una concezione profonda e anticonvenzionale dell’attività creativa potesse liberare impensate possibilità di estrarre dall’inconscio un mondo di forme fluenti e metamorfiche, dalle quali l’architettura poteva in qualche modo intraprendere un nuovo cammino. La mostra, riproposta in più sedi, anche all’estero, ebbe un vasto e giustificato successo. Le architetture esposte nella mostra si distinguevano per le loro forme inconsuete e sorprendenti, animate da una ricerca totalmente indenne da obblighi istituzionali e da tributi a teorie correnti, anche se prestigiose, e a modalità compositive consolidate.

Il “Palazzetto Bianco” di Massimo Fagioli e Paola Rossi con la collaborazione di Françoise Bliek, progettato agli inizi degli anni novanta ma realizzato solo recentemente, è una sorta di manifesto costruito di questo gruppo. Si tratta di una piccola palazzina edificata a Roma in Via di San Fabiano, su un esiguo lotto di forma triangolare. Questa costruzione di dimensioni contenute ma dall’aggressiva presenza nello spazio urbano è l’ottimo risultato di un esperimento limite nel quale confluiscono più motivi. In esso si ritrovano infatti, ma senza alcun cedimento citazionista, memorie wrightiane, fermenti neoespressionisti, intenzionalità scultoree, spunti decostruttivisti, plusvalori concettuali, ascolti attenti del contesto. Disegnata con encomiabile sapienza compositiva e con una grande attenzione per gli aspetti funzionali, questa architettura è investita da una energia formale che la modella potentemente creando torsioni, deformazioni, tensioni topologiche. Dispositivo a reazione luminosa l’edificio si organizza in elementi distinti i quali, nella loro autonomia formale si pongono come nuclei visivi coordinati in un sistema nello stesso tempo composto e unitario. Rifiutando della palazzina il normale rigirare delle facciate su quattro lati il “Palazzetto Bianco” reagisce all’intorno differenziandosi nettamente nelle sue parti. Nettamente articolato in due parti in qualche modo figurativamente irriducibili, la parete inflessa punteggiata da piccole bucature che esalta la sua concavità con uno scatto terminale e il prospetto stratificato segnato dall’orizzontalità dei grandi balconi anch’essi compresi in sezione all’interno di una curva; coronato da una scala che finisce contro il cielo, il “Palazzetto Bianco” dimostra che la palazzina non ha ancora concluso il suo ciclo storico, essendo ancora in grado di dare vita a esemplari densi di novità e di poesia. Con la sua forma a cuneo, che evoca la contundente dirompenza visiva di un frammento di Lisitsky così come la prua di una nave che solca il suolo urbano questa architettura dimostra come anche in spazi interstiziali apparentemente marginali, sia possibile costruire un frammenti bellezza urbana. Dotata della rara attitudine a perseguire un sogno con quella concretezza che sfida il tempo e sa imporsi alla realtà, Paola Rossi rivela che non sono sempre le grandi opere quelle che segnano i momenti più significativi dell’evoluzione delle città, quei punti di flesso nei quali essa dimostra di saper ripensare radicalmente la propria immagine.
Franco Purini
Febbraio 2006

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