martedì 30 agosto 2016

CULTURA:

La Stampa 30.8.16
Dimentica l’antilingua e parla come mangi
Nel nuovo libro di Beccaria l’invito alla chiarezza un dovere sociale dai padri Costituenti a Calvino
di Gian Luigi Beccaria


Il turbinio caotico di parole ambigue fa crescere sempre più in noi il desiderio delle più semplici e chiare. Desiderio da fanciulli, perché anche le parole più semplici possono essere vaghe e ambigue, fino a significare il contrario di se stesse. Ogni vocabolario ci insegna che pauroso è chi ha paura e chi fa paura, storia è un racconto veritiero ma anche una frottola, consumato significa logoro e finito, ma anche esperto, abile, distrazione è una parola meravigliosa, può evocare meriggi assolati in cui ci si può lasciare distrarre da una farfalla che evoca sogni leggeri, ma la distrazione è anche parola che designa un’attività criminosa, ci rimanda a imprenditori senza scrupoli che distraggono fondi dalle casse pubbliche per costruirsi ville e comprare vascelli da diporto… [...]
Per essere chiari non basta usare parole trasparenti, o parole comuni. Anche il facile nasconde le sue insidie, le insidie del finto facile. Le parole più chiare possono cambiare veste, diventare carcasse vuote. Il valore autentico di parole importanti può mutarsi in inautentico. Lo slogan, pur formulato con parole chiarissime, non avvicina realmente alla realtà delle cose. Così come nega il dialogo la frase fatta, o il codice ristretto, il parlare marcato per codici ridotti, che funziona all’interno di un gruppo ma che in un contesto più ampio si fa oscuro.
La prosa spesso pretenziosa di alcuni tecnocrati suona oscura ai più perché parla da specialista a specialista. Il che è lecito e spesso doveroso. Ma nei momenti invece in cui si intende mordere più da vicino la realtà o comunicarla al maggior numero di persone, la limpidezza diventa un obbligo. La limpidezza si raggiunge quando c’è la volontà non di nascondere o di salire sui trampoli di parole rare e poco usate, ma l’intento di comunicare è guidato da una propensione fraterna verso gli altri. «Scrivendo in italiano o in altra qualunque lingua - già annotava Alessandro Verri nel Caffè - non farassi una vana pompa di termini rari e prelibati, facendo in tal modo che la lingua nazionale diventi forestiera e che abbisogni di traduzione; ma bensì rinunciando a questa misera superbia, scriverassi per essere inteso da tutto il mondo, giacché non si deve scrivere o stampare che per far sapere a quanti più si può quello che sappiamo noi».
Parlare o scrivere come dovere sociale. Possiamo riandare ai padri Costituenti quando cercarono insieme di dare alla nascente democrazia italiana un testo della maggiore comprensibilità possibile. De Mauro l’ha mostrato bene quando ci ha fatto notare in quella Carta fondativa l’intenzionale scelta per esempio dei periodi brevi, con una lunghezza di frasi inferiori alle venti parole, e poi la rarità di tecnicismi giuridici, la scelta di un vocabolario di base nei suoi valori più comuni (ha anche contato le parole: ci ha detto che delle 1357 adoperate dai Costituenti, 1002, cioè il 74 per cento, appartengono al vocabolario di base).
Se si parla o si scrive per un pubblico più ampio, occorre dunque abbandonare lo specialismo, spogliarsi del lessico criptico della propria professione, e porsi dal punto di vista di chi sa poco o nulla delle cose di cui si parla. In particolare, per riuscire chiari, non basta avere una buona competenza grammaticale, sintattica, lessicale, ma occorre possedere una competenza pragmatica, cioè quella capacità di usare la lingua in modo appropriato alla situazione comunicativa. Invece la pigrizia lascia troppo spesso scivolare dalla bocca stampi prefabbricati e formulari: pigro adattamento a un codice. Pensiamo ai linguaggi ufficiali, burocratici, all’«antilingua» di burocrati, politicanti, tecnocrati, dominati da tormentoni che talvolta confinano con il nulla, come delle fucilate sparate nel vuoto. Il cosiddetto «burocratese», a chi non è uomo di scrivania, sembra difatti un linguaggio finto, sembra comunicare in astratto, tende a un fittizio e spesso non necessario registro alto, non evita le inutili ridondanze.
È rimasta celebre la parodia calviniana, quando nel saggio su L’antilingua ricostruisce la deposizione di un derubato che racconta senza troppe parole al brigadiere i fatti accaduti. Calvino spiega che questa antilingua appartiene anche ad altri ambiti come il giornalismo o la politica, regna tra funzionari, nei consigli di amministrazione e nei gabinetti ministeriali. Chi si rifugia nell’antilingua, colto da una sorta di terrore per il concreto, sfugge da ogni vocabolo che abbia un significato di per se stesso, «come se “fiasco”, “stufa”, “carbone” fossero parole oscene, come se “andare”, “trovare”, “sapere” indicassero azioni turpi». In fondo chi parla o scrive in antilingua «ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla», e si pone di fronte a esse in una posizione di distacco. Sfugge dal vero rapporto con la vita. Chi non sa dire, scrive Calvino, ho fatto, ma preferisce ho effettuato, uccide la lingua viva. Non si tratta di scelte in nome di una precisione reale, ma di precisione fittizia, che asseconda la propensione ad avere un rapporto passivo con le parole. Si è imprigionati da esse, si diventa vittime inconsapevoli.

Corriere 30.8.16
Lucy è caduta da un albero
Svelato il «cold case» più antico della storia: così morì la nostra antenata (3 milioni di anni fa)
di Anna Meldolesi


Un volo fatale di almeno 12 metri. Forse Lucy si era arrampicata in cerca di frutti. Oppure era in cima a un albero per dormire e sfuggire ai predatori. Oltre 3 milioni di anni fa, nella boscaglia di Afar in Etiopia, in agguato potevano esserci molti animali pericolosi. Ma qualcosa deve essere andato storto. Forse ha mancato una presa, forse un ramo ha ceduto, fatto sta che Lucy sarebbe caduta giù dal cielo. Impossibile non pensare a Lucy in the sky with diamonds , la canzone dei Beatles a cui questo esemplare di Australopithecus afarensis deve il nome, la stessa che risuonava nell’accampamento del gruppo di Donald Johanson ai tempi della scoperta, nel 1974.
Da allora ci siamo affezionati a questo fossile con il nome da ragazza e, nonostante le complicazioni del quadro evolutivo, ci siamo abituati a considerarla come la grande madre dell’umanità. Fa impressione dunque rivivere la sequenza di eventi che l’avrebbe uccisa. A svelarne i dettagli, come in una serie tv dedicata ai «cold case», è un lavoro pubblicato su Nature da John Kappelman dell’Università di Austin e colleghi. I ricercatori hanno studiato le fratture ossee con la tomografia computerizzata ad alta risoluzione, ricomponendo un complicato puzzle di paleo-traumatologia. Hanno eseguito ben 35 mila scansioni e le hanno confrontate con i segni riportati dagli esseri umani precipitati da postazioni elevate. Johanson, il «padre» di Lucy, e altri scettici non sono convinti che sia stato fatto tutto il necessario per distinguere le fratture post-mortem da quelle peri-mortem, avvenute subito prima del decesso, ma altri antropologi lo ritengono invece uno scenario plausibile.
Sembra di vederlo il corpo ricoperto di pelliccia, un metro di altezza per meno di 30 chili di peso, mentre cade dallo stesso livello di un palazzo di 4 piani, schiantandosi al suolo alla velocità di più di 50 km l’ora. Gli psicologi sostengono che quando viviamo situazioni di grave pericolo il tempo rallenta, chissà cosa potrebbe aver pensato lei durante il volo. Giovane adulta simile a noi perché bipede, ma con un cervello paragonabile a quello di uno scimpanzé. Ciò che possiamo immaginare è che il colpo sia stato violento. Prima la botta ai piedi, poi una leggera rotazione del corpo e il tentativo di attutire l’impatto con le braccia.
La posizione di Lucy suggerisce che fosse cosciente. Le fratture sono tante, all’omero, al ginocchio, al bacino, a una costola. Gli organi interni devono essere stati sospinti verso l’alto e danneggiati dalle schegge ossee. La morte sarebbe sopraggiunta rapidamente. Non c’è da stupirsi che Kappelman abbia provato un’intensa empatia, capace di attraversare lo spazio e il tempo. All’improvviso non aveva più davanti solo il fossile completo al 40% che ha cambiato la storia dell’antropologia, ma anche una «persona» ferita e indifesa. Lo scienziato ipotizza che gli stessi adattamenti che hanno consentito a Lucy di camminare eretta l’abbiano resa meno abile nell’arrampicata. Ma secondo Giorgio Manzi, della Sapienza d Roma, queste australopitecine dovevano cavarsela bene con entrambe i tipi di locomozione: «Se i dati saranno confermati da altre analisi indipendenti, si può pensare che sia successo per la paura di un predatore o per una rissa interna al gruppo. Lucy potrebbe essersi spinta troppo in alto, su un ramo sottile che si è rotto».

Repubblica 30.8.16
Troppo forte la traccia dell’uomo Benvenuti nell’era dell’antropocene
Il Congresso internazionale di geologia dichiara ufficialmente la fine dell’olocene. Un passaggio già enunciato da diversi ricercatori
di Elena Dusi


Sarà per quei frammenti di plastica incorporati nelle rocce scoperti alle Hawaii. Per le polveri di carbone risalenti all’800 e sepolte negli strati profondi dei ghiacci al Polo nord. Sarà soprattutto per gli elementi radioattivi dispersi nell’atmosfera all’epoca dei test nucleari. Fatto sta che gli esperti ora vogliono mettere il timbro su una realtà che è sotto agli occhi di tutti: l’impronta dell’uomo sul pianeta ha raggiunto una profondità che la rende irreversibile. È necessario decretare la fine dell’olocene e l’inizio dell’antropocene: l’era geologica dell’uomo.
La proposta è stata presentata al Congresso internazionale di geologia a Città del Capo. A farsene carico è stato un gruppo di 35 scienziati riuniti nell’Anthropocene Working Group, una costola dell’International Union of Geological Sciences. Ma il termine antropocene è entrato da tempo nel vocabolario della scienza. A popolarizzarlo è stato nel 2000 il Nobel per la chimica Paul Crutzen, che ha scritto Benvenuti nell’antropocene riprendendo la parola coniata dal biologo Eugene Stoermer negli anni ‘80.
Per corroborare la sua richiesta, a gennaio il Working Group aveva scritto su Science che le tracce dell’attività umana erano ormai inglobate nella stratigrafia del pianeta e che un ipotetico geologo vissuto fra un milione di anni avrebbe guardato ad alluminio, cemento e plastica come alle tracce inconfondibili di questa era, insieme alle fuliggini della combustione degli idrocarburi, alle tracce dell’innalzamento dei mari e, appunto, alle radiazioni delle esplosioni atomiche.
Proprio quest’ultima impronta — forse la più duratura — dovrebbe fissare l’inizio dell’antropocene al 1950. Altri suggerimenti riguardavano la scoperta dell’America (esempio senza precedenti di globalizzazione di alcune specie viventi) o l’inizio della rivoluzione industriale, che grazie alla sua produzione massiccia di fumi si pone come primo capitolo della storia del riscaldamento globale.
Per 12mila anni, dopo la fine dell’ultima era glaciale, l’olocene ci ha garantito un clima stabile e gradevole, facendo da culla alla specie umana. Il rapido aumento delle temperature degli ultimi 100-150 anni (un battito d’occhio in termini geologici) fa ora presagire l’inizio di una corsa sulle montagne russe. Sempre quest’anno, in primavera, nell’atmosfera è stato misurato un livello di anidride carbonica mai registrato negli ultimi 66 milioni di anni. A quell’epoca risale anche l’ultima estinzione di massa (quella dei dinosauri), prima dell’attuale che sarebbe in atto per mano dell’uomo, l’unica specie che è stata capace di cambiare la forma, la chimica e la biologia della Terra.
Non tutte le previsioni sono però pessimiste. Sir Martin Rees, astronomo reale in Gran Bretagna, ha scritto sul Guardian che la nuova era, grazie alla rivoluzione dell’elettronica, potrebbe portarci verso la conquista di altri pianeti. Speriamo solo che a spingerci verso nuovi mondi non sia la distruzione di quello vecchio.

Repubblica 30.8.16
“Emily Brontë aveva la sindrome di Asperger”

Edinburgo. Emily Brontë potrebbe aver sofferto della sindrome di Asperger. È quanto ha sostenuto Claire Harman durante l’Edinburgh international book festival. Secondo Harman, autrice di una recente biografia su Charlotte Brontë, la tesi sarebbe supportata da alcuni tratti del carattere di Emily, tra cui la sua genialità, il suo disagio per le situazioni sociali ed alcune improvvise esplosioni di rabbia: «Proteggerla, non allarmarla, ha costituto un grande impegno per tutta la famiglia. Era una persona affascinante ma poteva essere una presenza molto difficile».

il manifesto 30.8.16
Una spia sotto rete
Da campionessa di tennis ad agente segreto
Le avventure estreme di Alice Marble (1913-1990), la prima che accantonò il gonnellino e praticò il serve-and-volley, sfidando i pregiudizi nell’America maschilista degli anni Trenta e Quaranta. Solo la guerra riuscì a frenarne lo slancio. Attaccante insuperabile e caparbia in campo come nella vita, le toccò superare ben altre difficoltà da quelle sportive
Alice Marble fu la prima tennista a rifiutare il gonnellino
di Paolo Bruschi


Novant’anni fa, anche negli Stati Uniti, le ragazze desideravano diventare come le protagoniste dei romanzi che leggevano, dei film che vedevano o delle riviste che sfogliavano. Niente di più e niente di meno di quello che una società sottilmente ma pervicacemente maschilista voleva per loro. Nello stesso periodo, tuttavia, molte cominciarono a pensare allo sport, incuranti degli abiti da sera o della carnagione di seta. Poiché non si preoccupavano di apparire graziose e rassicuranti, destavano sospetti.
Il pattinaggio sul ghiaccio era ammissibile, perché aggraziato e leggiadro; al nuoto, i perbenisti si erano abituati e avevano appena ingoiato la messa al bando delle calze di cotone e dei costumi ingombranti che fino a poco tempo prima le donne dovevano indossare anche in acqua.
E poi c’era il tennis, lo sport per eccellenza delle pudiche signore della high society. Solo che, proprio allora, emersero campionesse che sfidavano gli stereotipi femminili: Helen Jacobs, Molla Mallory, Helen Wills Moody erano troppo fisicamente prestanti e determinate per riuscire accettabili al sistema dei media, che le descriveva come dei maschiacci impenitenti in odore di omosessualità.
Se una donna non poteva competere duramente come un uomo, cosa dire allora di Alice Marble?
Bionda e attraente, vagamente rassomigliante a Jean Harlow, la coeva stella del cinema, la californiana fu la prima donna a praticare con successo il serve-and-volley, fino ad allora esclusiva degli uomini. Secondo il New York Post, le sportive potevano essere belle come attrici, ma non si era ancora vista una donna che facesse una figura migliore brandendo una racchetta invece di una padella. Marble non si scoraggiò: per emergere, aveva dovuto superare ben altre avversità.
Nata nel 1913 in una cittadina della Sierra Nevada, a cinque anni si trasferì con la famiglia a San Francisco. Lo sradicamento fu peggiorato dalla subitanea morte del padre, un boscaiolo, le cui magre entrate la madre fu costretta a surrogare per sfamare i cinque orfani. Alice giocava con i fratelli, imparò persino a boxare, a giocare a basket e soprattutto a baseball, e come lanciatrice svettava al punto da meritarsi l’appellativo di «piccola regina della sventola». La lasciò, la mazza, a quindici anni, quando il fratello Dan le regalò una racchetta, imponendole uno sport più signorile. Cresciuta fino a 170 cm, vi trasferì il suo prorompente atletismo, l’addestrato colpo d’occhio e il vigore del braccio forgiato dai lanci del baseball. Benché acerba tecnicamente e tatticamente, si fece strada fra le coetanee e attirò l’attenzione di Eleanor Tennant, l’allenatrice dei divi del cinema, che l’accolse nella sua scuderia.
Un’attaccante insuperabile
Lavorando nella villa della sua guida, Alice si pagava gli allenamenti, ai quali incrociava spesso Charlie Chaplin, Carole Lombard o Bing Crosby. Si trasformò in un’attaccante insuperabile e impose lo stile offensivo che avrebbe in seguito improntato il gioco di Billie Jean King, Martina Navratilova e oggi di Serena Williams. L’accantonamento dei tradizionali gonnellini bianchi per più comodi shorts e l’aggressività del suo gioco scioccarono il mondo del tennis, strabiliato dalla non meno sensazionale solidità nervosa. Secondo Marble, alla sua saldezza psicologica aveva paradossalmente contribuito uno stupro subito da teen-ager: resistette al crollo nervoso e si dedicò con ancor maggior ferocia al tennis, come fonte di recupero e di autostima.
Nel 1933, al torneo di East Hampton, per convincere la federazione a includerla nella selezione nazionale, disputò singolare e doppio, finendo per accumulare ben 11 set e 108 game in sole nove ore, fino a che non fu tramortita da un colpo di calore e dall’anemia. L’anno successivo, al Roland Garros, cadde vittima di un altro collasso. I medici le diagnosticarono pleurite e tubercolosi, pronosticandole un futuro lontano dai court. Per un anno fu costretta in sanatorio, circondata da medici che cercavano di curare il suo corpo senza occuparsi della sua mente. I giorni si susseguivano senza significato uno dopo l’altro e Marble precipitò in una profonda depressione. Tennant pagò per la sua degenza, ma poi l’aiutò a lasciare l’ospedale dove stava avvizzendo come un fiore senza nutrimento. Dimagrì, la muscolatura riprese tono ed elasticità, i livelli di emoglobina risalirono e tornò all’amata racchetta.
Il primo di tre Slam
Fu la panacea: la salute migliorava non meno velocemente del livello di gioco. Contro il parere della federazione, si iscrisse ai campionati nazionali di Forest Hills, gli odierni Us Open, e giunse alla finale. Il 12 settembre 1936, affrontò Jacobs, la campionessa in carica: con sua stessa sorpresa, rimontò e al terzo set, più fresca dell’avversaria, la sommerse con il suo stile d’attacco, trasformando il match-point con un potente smash. Fu il suo primo Slam. Ne avrebbe aggiunti altri tre a New York, uno a Wimbledon e altri tredici nel doppio, fino a che la guerra raffrenò il suo slancio.
Sposò il pilota Joe Crowley e rimase vedova quando il marito fu abbattuto sopra la Germania nel 1944. Solo pochi giorni prima, aveva perso il bambino che portava in grembo per un incidente d’auto. Dopo aver tentato il suicidio, accettò un incarico dai servizi segreti. Sfruttando il vecchio legame d’amore con un banchiere svizzero, doveva avvicinarlo e impossessarsi di alcuni dati finanziari del Terzo Reich. Per questo, si beccò una pallottola nella schiena quando fu scoperta da una spia tedesca, ma fu salvata dagli agenti con cui teneva i contatti durante la missione.
Dopo la guerra, Marble decise di schierarsi per la desegregazione nel tennis, sostenendo il diritto della nera Althea Gibson di essere ammessa allo Slam americano. Scrisse una dura lettera di critica alla federazione, spendendo tutto il suo peso di ex numero uno del mondo, e nel 1950 Gibson fu la prima atleta nera a giocare a Forest Hills – li avrebbe poi vinti, insieme al Roland Garros e a Wimbledon.
Marble se ne andò nel 1990, infine sopraffatta dagli effetti della mai debellata anemia, e un quarto di secolo dopo non si può fare a meno di domandarsi perché una vita così avventurosa non sia ancora finita in un film hollywoodiano.