martedì 30 agosto 2016

NEL MONDO:

Repubblica 30.8.16
Il ratto d’Europa
Il ruolo di Berlino
di Massimo Riva


«SE la Germania tenterà di essere il primus inter pares nella politica europea, una crescente percentuale dei nostri vicini penserà di doversi difendere efficacemente da questo tentativo di supremazia. Le probabili conseguenze di tale sviluppo sarebbero paralizzanti per l’Unione europea mentre la Germania cadrebbe nell’isolamento. E perciò abbiamo bisogno di proteggerci da noi stessi».

Non è ben chiaro con quale spirito e con quali obiettivi Angela Merkel, dopo l’incontro di Ventotene, abbia compiuto un ampio giro di consultazioni con i governi del Nord e dell’Est in vista del vertice Ue di metà settembre. Può essere che dal Manifesto di Spinelli e compagni abbia raccolto la lezione che l’unione politica del vecchio continente postula l’opera di un federatore e voglia ora occupare a suo modo questo ruolo. In tal caso sarebbe di grande utilità per lei (e per tutti) meditare a fondo sulle parole della citazione iniziale. Esse sono tratte da un discorso pronunciato al congresso della Spd nel 2011 — dunque, a cri- si economica conclamata — da un suo illustre predecessore.
Quell’Helmut Schmidt che fu l’unico statista di profonda convinzione europeista ad aver guidato la Germania negli ultimi decenni.
Già nelle opinioni pubbliche di molti Paesi si stanno consolidando giudizi negativi nei confronti della politica di Berlino verso il resto dell’Europa. Alcuni sono magari pregiudizi falsi come, per esempio, quelli in tema di migranti: se si fa la verifica delle cifre, si scopre che la Germania finora si è dimostrata più generosa nell’accoglienza di qualunque altro socio dell’Unione. Altri, però, si fondano su dati di fatto che sono non meno incontestabili. È Berlino che, dopo aver salvato le proprie banche inguaiate in Grecia con l’ingente concorso altrui, tiene oggi bloccata l’unione bancaria perché non vuole correre il rischio di pagare qualche costo di solidarietà con i problemi degli altri. Ed è ancora Berlino che insiste nel fare la faccia feroce sui guasti contabili dei Paesi in difficoltà, ma poi fa orecchie da mercante quando Bruxelles richiama la Germania a contenere le sue crescenti eccedenze commerciali. Surplus che sono in realtà — come solo Schmidt aveva l’onestà intellettuale e il coraggio politico di riconoscere — l’altra faccia dei deficit altrui.
In termini di potenza economica e (dopo la caduta del muro di Berlino) di peso politico la Germania ha tutte le prerogative per esercitare un ruolo cruciale nel processo di integrazione dei Paesi europei, tanto più dopo la Brexit. E Angela Merkel è consapevole della particolare posizione di forza che la storia assegna al suo Paese. Il problema è che del federatore la cancelliera sembra voler scimmiottare soltanto i panni di scena. Nella pratica la sua azione sta andando in direzione opposta, come dimostrano le sue consultazioni intergovernative. Un metodo sicuro per svuotare di potere e di funzione quel pallido embrione di istituzioni federali che hanno sede a Bruxelles e Strasburgo. Dunque, anche un passo indietro esiziale nel percorso comunitario che ripropone all’Europa un drammatico déjà vu: quello di una Germania — per dirla ancora con Schmidt — che non sa proteggersi da se stessa. Ed è la terza volta in cent’anni…

Il Sole 30.8.16
La questione tedesca
Se la Merkel perde il timone dell’Europa
di Adriana Cerretelli


Per un tedesco su due, allarmato dalla sua politica aperturista sui rifugiati, meglio che il prossimo autunno eviti di correre per la quarta volta consecutiva alla conquista della cancelleria. Nel Meclemburgo, il suo Stato natale, domenica la Cdu-Csu, il suo partito, rischia la sconfitta, lo schiaffo dell’AfD, la nuova formazione nazionalista e anti-immigrati.
L’altro ieri e per la prima volta ad alta voce Sigmar Gabriel, il suo vice socialdemocratico, ne ha contestato la politica su due temi sensibilissimi: invocando da un lato l’imposizione di un tetto al numero annuo di profughi da accogliere nel Paese e dall’altro dando per morto il Ttip, il patto transatlantico su commercio e investimenti (salvo poi essere smentito a Berlino come a Bruxelles).
Da Brexit all’economia, investimenti e lavoro, dalla politica migratoria, quote comprese, a sicurezza e commercio, il dissenso circa le sue scelte europee si è sentito del resto forte e chiaro a Sud come a Est e a Nord dell’Unione nell’ultima settimana che l’ha impegnata in contatti con ben 13 Paesi, subito dopo l’incontro di Ventotene con Italia e Francia. L’idea era di cercare di coagulare il consenso in vista del vertice di Bratislava a metà settembre, il primo senza la Gran Bretagna. In realtà non ha potuto che constatare le solite divergenze di interessi, culture, ambizioni anche a 27.
Fosse solo una questione tedesca, l’altalena delle magnifiche sorti e progressive di Angela Merkel in casa e fuori, se non beata indifferenza, potrebbe suscitare attenzione limitata. Non è così. Paradossalmente il destino del cancelliere oggi è un problema molto più europeo che tedesco. Tanto che non è esagerato chiedersi se il declino della sua stella a Berlino non finirebbe per travolgere l’Europa multi-crisi e malconcia che conosciamo, in eterno equilibrio e coesione precari.
In breve se l’uscita di scena di una mediatrice calma ma accanita non sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso del grande disordine esistenziale che da anni travaglia l’Unione.
Emersa tardi, la leadership travolgente di Helmut Kohl ha cambiato la storia: della Germania e dell’Europa. La sua pupilla ingrata non gli assomiglia: ma la sua capacità di vivisezionare problemi e tensioni alla ricerca di compromessi realistici (e per questo troppo spesso troppo provvisori) le ha permesso negli ultimi anni di governare con tranquilla ma efficace determinazione il perpetuo caos europeo. Facendo della Germania il leader solitario ma indiscusso dell’Unione.
Ha fatto anche tanti errori la Merkel ma ha sempre trovato il modo di metterci una pezza. Non è particolarmente amata dai partner ma di sicuro è rispettata. Non è poco. Visto che viene da un paese dogmatico, appagato dalle proprie certezze etico-ideologiche, si guarda bene dallo scuoterle però riesce a temperarle con pragmatismo concreto. All’inglese.
I tempi sono durissimi. Oggi l’Europa è un florilegio di debolezze politiche, economiche, finanziarie, culturali, tecnologico-digitali costrette a convivere non tanto con appuntamenti elettorali a getto continuo (quelli ci sono sempre stati) quanto con le fatiche della lunga transizione dalla democrazia rappresentantiva a quella diretta. Con tutta l’instabilità che ne deriva. Per tutti.
Come se non bastassero il vulnus di Brexit di cicatrizzazione incerta, lo sgoverno dell’immigrazione ostaggio di egoismi incrociati e duri a morire, la roulette di elezioni americane che questa volta rischiano di far saltare molte certezze del dopoguerra, l’Europa da troppo tempo si dibatte nella trappola della bassa crescita economica, che in realtà è occidentale e che erode il consenso dei suoi cittadini. La Bce prova a sostenerla ma da sola non può fare tutto. In compenso la politica dei tassi bassi stressa i bilanci delle banche. E irrita i risparmiatori tedeschi, non a caso divenuti a loro volta sensibili alle sirene dell’anti-europeismo, dimenticando di essere i maggiori beneficiari dell’euro.
Ce ne vorrebbero urgentemente ma in giro non si vedono leader capaci di guardare lontano e provare a reinventare il futuro collettivo. Non si vedono nemmeno sotto i tendoni elettorali a scaldarsi i muscoli. Si vedono invece piccoli e grandi nazionalisti, populisti, euroscettici quasi ovunque in ascesa. Per questo la perdita di Angela Merkel, l’unico grande leader europeo nel suo piccolo (almeno finora) potrebbe rivelarsi uno shock insostenibile. Perfino peggiore di Brexit.

Il Sole 30.8.16
Germania. Migranti, la Spd accusa Merkel
Il vice cancelliere Gabriel: sottostimato l’impatto, un tetto al numero di profughi
La presa di posizione in un momento delicato per la cancelliera: un tedesco su due non vuole che si ricandidi
di Alessandro Merli


Francoforte. Un occhio alle elezioni regionali del Meclemburgo-Pomerania di domenica prossima, un altro al vertice europeo del 16 settembre, il primo senza la Gran Bretagna.
Su entrambi i fronti l’orizzonte è denso di nuvole per il cancelliere tedesco Angela Merkel, sotto pressione in Germania e in Europa. Fino a prima dell’estate, il cancelliere contava che il suo partito, la Cdu, conquistasse il governo del Meclemburgo. Oggi, i democristiani sono lontani dai socialdemocratici della Spd, al potere nel Land nell’ultimo ventennio, e che contano secondo gli ultimi sondaggi su un 28% dei consensi, e addirittura sono minacciati per il secondo posto (22 a 21) dal partito anti-immigrati Alternative fuer Deutschland (AfD), che può ripetere il successo della vicina Sassonia-Anhalt, dove a marzo riportò quasi un quarto del voto totale.
L’immigrazione – l’anno scorso è arrivato in Germania oltre un milione di persone, per lo più rifugiati dalla Siria e dall’Afghanistan – è balzata al centro della campagna elettorale, per le elezioni locali e soprattutto per quelle nazionali che si terranno nell’autunno 2017, soprattutto dopo la sequela di episodi di violenza che a luglio ha visto come autori rifugiati o persone di origine mediorientale. E, sorprendentemente, nel fine settimana, è stato il vice di Angela Merkel nel Governo, il leader socialdemocratico Sigmar Gabriel, a rompere per la prima volta con la linea aperturista del cancelliere, indicando che c’è un limite agli ingressi di rifugiati e questo è fissato dalla capacità della Germania di accoglierli. Un’uscita che è apparsa in sintonia con la richiesta di un tetto sostenuta dai critici più feroci del cancelliere all’interno della maggioranza, i cristiano-sociali bavaresi della Csu. La signora Merkel si trova così presa fra due fuochi, da destra e da sinistra, nella sua stessa coalizione. Se Gabriel è stato probabilmente ispirato dalla motivazione immediata di impedire che l’emorragia di voti a favore di AfD colpisca nel Meclemburgo anche la Spd, è chiaro però che si tratta anche di un modo di posizionarsi in vista del voto politico del 2017 e trovare una chiave per raggiungere l’elettorato su un tema diventato fondamentale, dato che i consensi dei socialdemocratici nei sondaggi nazionali continuano a languire a 13 punti dall’unione Cdu-Csu.
Anche se la sconfitta nelle regionali è quasi un’abitudine per il cancelliere (ne ha accumulate 13 prima della riconferma al Governo nel 2013), quello del Meclemburgo non è un voto come un altro per Angela Merkel: anzi tutto perché in questa regione, a Straslund, ha il suo collegio elettorale fin da quando è entrata in politica, ma soprattutto perché un insuccesso, a maggior ragione se alle spalle di AfD, accentuerebbe il montante senso di impopolarità del cancelliere a causa della sua politica sull’immigrazione. La ricorrenza in questi giorni dell’anniversario del discorso in cui la signora Merkel proclamò, a proposito dell’accoglienza ai rifugiati: “Wir schaffen das”, “Ce la possiamo fare”, non ha aiutato. Un sondaggio pubblicato domenica dal quotidiano popolare “Bild”, che finora ha sostenuto la linea del cancelliere, rivela che il 50% degli interpellati è contro un quarto mandato per Angela Merkel, mentre il 42% è a favore. Le percentuali erano 48 a 45 nei mesi scorsi. Sono addirittura emerse indiscrezioni secondo cui il cancelliere non si ripresenterebbe, il che appariva impensabile anche solo pochi mesi fa. In un’intervista televisiva di domenica sera, la signora Merkel ha evitato di rispondere. Secondo “Bild”, le attuali difficoltà potrebbero anzi indurla ad accelerare l’annuncio della ricandidatura. Il fatto che si cominci a parlare di tagli alle tasse, con l’avallo del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, dopo l’annuncio che il surplus di bilancio nei primi 6 mesi del 2016 ha toccato 18,5 miliardi di euro, è un indizio importante.
Intanto, il capo del Governo tedesco non può permettersi di perdere di vista lo scenario europeo dopo Brexit. Per prepararsi al vertice di Bratislava, il primo senza il Regno Unito, ha incontrato nei giorni scorsi 15 capi di Governo europei. Dagli ex alleati dell’Europa dell’Est ha avuto ancora una volta un risposta durissima sul tema dell’immigrazione. Per questo acquista ancor maggiore importanza l’incontro di domani a Maranello con il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, dopo quello della settimana scorsa a Ventotene, cui ha partecipato anche il presidente francese François Hollande. Un’Angela Merkel in difficoltà ha bisogno di trovare un sostegno e una linea comune con gli altri due “grandi” rimasti nell’Unione europea dopo Brexit.

il manifesto 30.8.16
Tsipras chiede 269 miliardi di riparazioni di guerra alla Germania


Il primo ministro greco Alexis Tsipras mentre insiste per una ulteriore riduzione del debito e un alleggerimento delle misure di austerity imposte dalla Germania, in una intervista rilasciata domenica torna alla carica sulle riparazioni di guerra che la Germania deve alla Grecia per l’occupazione nazista. «Per il nostro paese è una questione di onore, non possiamo ritirare questa richiesta», dice Tsipras.
La scorsa settimana il viceministro degli Esteri greco Nikos Xydakis sulla questione delle riparazioni di guerra della Germania ha dichiarato: «Faremo tutto quanto ci verrà richiesto a livello diplomatico e, se necessario, a livello legale», in caso di fallimento di un accordo negoziale.
«Le ripercussioni della Seconda guerra mondiale sono state tremende e irreversibili per la Grecia e per i suoi cittadini perché il paese ha subito un attacco premeditato e una occupazione barbara», si legge in un rapporto che sarà discusso nei prossimi giorni dal parlamento di Atene e che individua il dovuto nella cifra di 269 miliardi di euro.

il manifesto 30.8.16
Francia
Il burkini in campagna elettorale
Nasce una Fondazione per l'islam di Francia, per favorire la conciliazione con i "valori della Repubblica"
Ma le questioni identitarie sono ormai nella campagna elettorale. La destra soffia sul fuoco (e si spacca), Valls isolato vuole ancora insistere sul burkini
di Anna Maria Merlo


PARIGI. Una Fondazione per strutturare un “islam di Francia”, nella speranza che sia sufficiente a calmare le reazioni contro alcuni epifenomeni dell’islam “in Francia”, fomentati da destra e estrema destra mentre il paese è già entrato in campagna elettorale per le presidenziali di primavera, con una prima offensiva attorno al “burkini”. Sono iniziate ieri le ultime “consultazioni” del ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, per la Fondazione per l’islam di Francia, che sarà operativa dal prossimo novembre, una doppia struttura, una a carattere culturale l’altra cultuale. Alla testa della prima Fondazione è stato confermato Jean-Pierre Chevènement, 77 anni, ex ministro degli Interni dei tempi di Mitterrand: una candidatura che sta già sollevando polemiche, perché Chevènement non è musulmano e la scorsa settimana, in pieno nervosismo sul burkini, ha invitato i musulmani alla “discrezione” nello spazio pubblico, perché il paese vive “un periodo difficile” dopo gli attentati. Comunque, l’obiettivo è inserire meglio l’islam nella società laica francese, con una seconda Fondazione che dovrà occuparsi di trovare i finanziamenti per la costruzione di nuove moschee, a livello nazionale (mecenatismo, tassa sui prodotti halal) evitando cosi’ soldi dall’estero. Lo stato parteciperà finanziariamente solo nella prima Fondazione, quella culturale (un milione di euro), che avrà nella direzione varie personalità, tra cui anche lo scrittore Tahar Ben Jelloun.
Intanto, il “burkini” è ormai diventato argomento di campagna elettorale. “Una questione derisoria trasformata in dibattito nazionale ossessivo”, come l’ha definita la ministra della Casa, Emmanuelle Cosse, sta spaccando a destra e a sinistra. Nicolas Sarkozy, che ha ufficializzato la candidatura per il 2017, si è buttato sul burkini, chiedendo una legge specifica per proibirlo, senza fermarsi neppure di fronte a un’eventuale modifica della Costituzione (dopo la decisione del Consiglio di stato del 26 agosto, che ha giudicato “illegali” le ordinanze dei sindaci anti-burkini, considerate “violazione grave delle libertà fondamentali, di andare e venire, di coscienza e di libertà personale”). Gli ha risposto Alain Juppé, suo principale rivale alle primarie della destra, che rifiuta “una legge di circostanza” e chiede di “smettere di gettare olio sul fuoco”. Nel governo, il primo ministro Manuel Valls ha preso una posizione isolata: la decisione del Consiglio di stato “non esaurisce il dibattito”, perché “denunciare il burkini non significa rimettere in causa una libertà individuale”, ma “denunciare un islamismo mortifero” che necessita di “un dibattito di fondo”. Cazeneuve vorrebbe chiudere la polemica e afferma che il governo “rifiuta di legiferare su questo argomento, perché una legge sarebbe anticostituzionale, inefficace e tale da suscitare antagonismi e irreparabili tensioni”. Il Consiglio di stato ha bocciato le ordinanze comunali anti-burkini perché non ha riscontrato turbative dell’ordine pubblico, nel caso di Villeneuve-Loubet, che era chiamato ad esaminare. Ma la configurazione potrebbe cambiare, a causa del nervosismo crescente che ora si sta cristallizzando sul burkini. In Corsica ci sono stati momenti di forte tensione identitaria, a Sisco poi a Bastia. Ieri, su una spiaggia della Gironda c’è stata una battaglia violenta tra un gruppo di nudisti e dei contestatori (considerati pro-burkini?). Nel week end in Bretagna delle persone sono andate in spiaggia vestite, per “solidarietà”. Vicino a Parigi, un ristoratore è stato denunciato per aver rifiutato di servire due donne con il foulard, dopo aver affermato che “tutti i musulmani sono terroristi”. Una trentina di comuni rifiuta di rispettare la decisione del Consiglio di stato sull’illegalità delle ordinanze anti-burkini. La polemica sui vestiti non finirà con l’autunno: è un’introduzione al prossimo scontro, che riguarderà la legittimità del velo nelle aule universitarie.

il manifesto 30.8.16
Spagna
Mariano Rajoy sarà bocciato, di nuovo
di Luca Tancredi Barone


Oggi Mariano Rajoy si presenterà a un parlamento che lo boccerà. È la prima volta in Spagna che un presidente uscente, per quanto en funciones (cioè ad interim), viene sfiduciato.
Nonostante tutta la posta in scena di queste lunghe settimane dal giorno delle seconde elezioni, il 26 giugno, il Pp si è mosso pochissimo dalle sue posizioni iniziali. E pertanto ha convertito solo i già credenti, e cioè Ciudadanos, che è sempre stato pronto a firmare accordi a destra e a sinistra (ma soprattutto a destra), per il “bene del paese”.
A febbraio era stato l’unico partito che aveva sottoscritto l’effimero accordo con il Psoe; stavolta ha invece trovato un facile accordo con il Pp, dopo aver messo in campo condizioni poco difficili da accettare per i popolari. La settimana scorsa è stata dedicata al teatrino dei negoziati fra i due partiti, ma chi ha dovuto ribassare le pretese è stato soprattutto C, dato che il Pp ha ceduto su pochissimi punti. E comunque anche le “150 misure” accordate sono vincolate alle decisioni di Bruxelles. In altre parole, le poche iniziative “sociali” pur presenti negli accordi, sarebbero destinate a essere congelate dalla finanziaria lacrime e sangue promessa a Junker.
Ieri Rajoy si è visto per la quarta volta con chi davvero gli interesserebbe che lo appoggiasse, e cioè il segretario del Psoe Pedro Sánchez. Il quale gli ha ripetuto per l’ennesima volta che sarà definitivamente un No. Il segretario socialista è arrivato a definire l’incontro di ieri come “prescindibile”. La responsabilità di trovare gli appoggi è del candidato Rajoy e non certo del partito socialista, dice Sánchez, nonostante sul partito dopo la firma dell’accordo Pp-Ciudadanos di domenica siano ricadute pressioni fortissime per responsabilizzarlo della mancata investitura.
Sánchez ha ragione, anche perché il Pp non ha messo in campo nessuna proposta forte per tentare i socialisti, benché il leader di C abbia sottolineato che “100 delle 150 misure firmate con il Pp le avevo sottoscritte anche con Sánchez” (dimenticando di dire che mancano quelle che più stanno a cuore al Psoe).
Secondo la narrativa socialista, la colpa della mancata investitura (di Sánchez) sei mesi fa ce l’aveva Podemos; oggi invece è colpa di Rajoy. Prima o poi però toccherà ai socialisti fare qualcosa. La linea del No a Rajoy, No a Podemos e No alle eventuali terze elezioni (che Rajoy diabolicamente ha fatto in modo che cadano il 25 dicembre) contiene almeno un no di troppo per essere coerente.
Al momento Rajoy, con Ciudadanos e un voto di Coalición Canaria, ha 170 voti. Cioè sei meno dei necessari per essere investito domani (in prima votazione bisogna passare con la maggioranza assoluta di 176 voti) o con 11 astensioni in meno per passare venerdì in seconda votazione (quando basta solo la maggioranza relativa). A oggi, il candidato popolare quindi è destinato a essere bruciato.
Lui sostiene che vuole comunque continuare a provarci: il 25 settembre si vota in Galizia e Paesi Baschi, e c’è tempo fino al 1 novembre per un accordo (dopo verrebbero sciolte automaticamente le camere). La sua idea sarebbe quella di ottenere i 5 voti dei nazionalisti baschi del Pnv nel caso che avessero bisogno dei popolari per tornare a guidare la comunità autonoma (uno scenario che sembra improbabile). Ma gli mancherebbe comunque almeno un’astensione.
Ma, a partire da sabato, tutti i riflettori saranno puntati su Sánchez. Sembra chiaro che sarà costretto a convocare un nuovo Comitato federale per decidere il da farsi. Podemos e Izquierda Unida spingono per cercare un accordo e un gioco di astensioni incrociate dei nazionalisti e di Ciudadanos. Ma, ammesso e non concesso Sánchez voglia andare in quella direzione, e che il suo partito glielo consenta, il governo che ne risulterebbe non sarebbe certo molto solido. L’unica decisione che ha preso il Psoe finora è quella di presentare una leggina per fare in modo che, in caso di scioglimento, si possa votare il 18 dicembre. Stando alle dichiarazioni, mancherebbe solo l’appoggio del Pp.

Il Fatto 30.8.16
Stati Uniti
Colin Kaepernick è rimasto seduto durante l’esecuzione musicale: “Questo Paese opprime i neri” Non in mio nome: in campo la protesta del quarterback contro l’inno “razzista”
di  Luca Pisapia

qui

La Stampa 30.8.16
Torture, bandiere nere e spie
Viaggio nella Sirte liberata
Gli orrori dell’occupazione islamista nella città natale di Gheddafi
Sui muri della prigione spuntano le minacce: “Conquisteremo Roma”
di Francesco Semprini


Sono libico, sono musulmano e sono rinchiuso qui dentro. Ma non so perché». Il grido di disperazione è inciso sul muro di una cella sotterranea nel palazzo che un tempo ospitava la polizia segreta di Muammar Gheddafi, nel cuore di Sirte. Sui tetti della città natale del Colonnello hanno sventolato per circa 14 mesi le bandiere nere dello Stato islamico, come quella appena ammainata nell’ex sede dell’intelligence del regime di cui gli jihadisti al soldo di Abu Bakr al Baghdadi hanno conservato destinazione d’uso. Il palazzo al centro di Abu Faraa era una specie di centrale antispionaggio in cui venivano portati i «nemici» del califfato. Sui muri del piano terra campeggiano scritte di propaganda, come quella strappata dalla grafica accattivante che inneggia alla jihad contro gli infedeli su un tripudio di vessilli neri, uomini mascherati e furgoncini con mitragliatori. Sul pavimento ci sono resti di telefonini e certificati di ogni genere appartenenti a sospetti spie e cospiratori rinchiusi nelle segrete del seminterrato.
Gli interrogatori
Celle di pochi metri quadrati con una finestrella sul livello della strada e un paio di materassi per terra. Qui venivano interrogati e torturati, come raccontano i combattenti delle «katibe», le brigate che hanno partecipato alla cacciata dell’Isis da questa parte di Sirte. Brigate come quelle di Misurata le cui effigi compaiono sui muri delle case liberate o la brigata «martiri di Sirte» guidata dal comandante Salem. «Alcuni morivano di stenti per percosse o torture», racconta il combattente, tra i primi a entrare nelle segrete. Evidenti le testimonianze dell’orrore in nome della sharia come spiega una manifesto: «Sette motivi per non essere un vero musulmano». Ci sono poi i messaggi lasciati sui muri, una sorta di testamento dei rinchiusi e dei condannati a morte, che parlano di «voglia di libertà» o di «tornare a pregare liberamente in moschea». In quelle segrete è stato rinchiuso forse qualche occidentale o qualcuno che in Europa ha vissuto e che spera di tornarci come suggerisce la scritta «German». Per comprendere il non senso di tanta brutalità il generale Salem legge una frase sul muro: «Sono libico, sono musulmano, sono rinchiuso qui dentro. Ma non so perché». Tracce di vita vissuta nella Sirte occupata, terza capitale del califfato, dopo Raqqa in Siria e Mosul in Iraq. Come le gigantesche bandiere nere, murales del terrore che segnano il distretto di Abu Faraa, quartiere liberato da poco. Lo stesso che ospita Hel Esba, una sorta di ufficio amministrativo dove un tempo si pagavano le multe e utilizzato dall’Isis come centro di propaganda e indottrinamento specie per le donne come suggerisce un cartello all’entrata con scritto «vieto l’accesso agli uomini». Buttati in terra ci sono tanti «niqab» gli abiti neri che coprono le donne da testa a piedi. In una delle sale c’è una lavagnetta con disegnata una sagoma femminile e le frecce che indicano come ogni parte del corpo deve essere oscurata con gli opportuni veli. Hel Esba conserva anche testimonianze inquietanti, come quella che segnala il comandante Salem, una scritta su un muro: «Lo Stato islamico è qui e si espanderà, con l’aiuto di Allah e nonostante gli infedeli, conquisteremo Roma».
Questi i piani su cui stava lavorando la cupola della centrale libica di Abu Bakr al Baghdadi, che emergono evidenti man mano che i combattenti libici fedeli al Governo di accordo nazionale guadagnano terreno battendosi quartiere dopo quartiere, casa per casa. E con una resistenza spinta al martirio da parte degli jihadisti pronti a scagliare come arieti kamikaze alla guida di autobomba. Come il furgoncino che per giorni è rimasto al centro di Abu Faraa, all’interno del quale il kamikaze giaceva riverso sul volante centrato da un cecchino libico. Sul pickup una quantità di esplosivo e bombole tale da far saltare un edificio.
L’appello all’Italia
Armi di distruzione dinanzi alle quali i combattenti libici rispondono con coraggio e forza ma talvolta con mezzi limitati e con la sensazione di essere lasciati a loro stessi dagli alleati occidentali, Italia compresa. «Ci hanno dato giubbetti ed elmetti, niente più», rivela un alto ufficiale delle katibe, chiedendosi perché l’Italia non tende una mano agli amici libici. Almeno con l’invio dei medici e dell’ospedale da campo promessi: «Le nostre strutture sono al collasso, abbiamo tantissimi feriti, la battaglia per la liberazione di Sirte deve essere vinta subito. Dovete aiutarci».

La Stampa 30.8.16
Perché gli Usa hanno ammonito Ankara?
Un patto per fermare i curdi
di Giordano Stabile


I ribelli filo-turchi continuano ad avanzare verso Manbij, nel Nord della Siria, appoggiati dall’esercito turco. Nella città, strappata all’Isis dopo una battaglia di 73 giorni, i guerriglieri curdi dello Ypg rinforzano le loro posizioni, nonostante le pressioni di Washington e gli ultimatum di Ankara perché si ritirino a Est dell’Eufrate. Lo scontro è vicino e il Pentagono ha espresso le sue «preoccupazioni» per lo spargimento di sangue fra due dei suoi alleati nella lotta allo Stato islamico: «Il nemico è l’Isis», ha ammonito. Dopo l’agguato a una colonna di tank turchi di sabato, e le stragi di guerriglieri e civili nei villaggi a Sud di Jarabulus domenica, la Turchia ieri ha accusato i curdi di «pulizia etnica» e lanciato un nuovo monito: «Lo Ypg deve ritirarsi oltre l’Eufrate, come ha promesso e gli Stati Uniti hanno garantito - ha detto il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu -, altrimenti saranno colpiti». La risposta curda è stata ambigua. «Ci sono rinforzi in arrivo a Manbij - ha ammesso il portavoce Ibrahim Ibrahim -. Ma non sono dello Ypg». I curdi si riferiscono a milizie arabe loro alleate, come quelle cristiano-siriache, ma poi protestano per i militanti fatti prigionieri dai ribelli filo-turchi: «La Turchia è responsabile». Segno però che lo Ypg è ancora a Ovest dell’Eufrate. I curdi devono far fronte alle incursioni turche anche più a Est. Lo Ypg denuncia anche un bombardamento vicino a Qamishlo. E punta il dito contro i ribelli usati da Ankara: «Hanno la stessa ideologia dell’Isis». Non è proprio così ma è anche vero che il grosso degli alleati dei turchi è costituito da Faylaq al-Sham, la Legione Siriana di ispirazione salafita, e dalla Brigata turkmena, già alleata di Al Qaeda sui fronti di Aleppo e Idlib. Sono gli stessi ribelli nemici del governo di Damasco ma finora la sua reazione «all’invasione» turca è stata tiepidissima. Per due motivi. Da una parte lo spostamento degli insorti verso la frontiera Nord facilita l’attacco ad Aleppo. Dall’altra c’è un tacito accordo Turchia-Siria-Iraq-Iran nel ridimensionare le ambizioni curde. Lo fa intuire il vicepremier turco Kurtulmus quando spiega: «Impedire che lo Ypg completi la striscia di influenza che dall’Iraq sta arrivando al Mediterraneo significa impedire che la Siria venga divisa».

il manifesto 30.8.16
Gli scheletri nascosti nella memoria dell’Iran
Iran. La voce dell'ayatollah Montazeri, ex braccio destro di Khomeini poi caduto in disgrazia e scomparso nel 2009, torna a farsi sentire con una registrazione audio di 28 anni fa in cui accusa i vertici del regime di aver commesso crimini imperdonabili. E riaccende il dibattito sul “massacro delle prigioni” del 1988, una delle pagine più nere della storia post-rivoluzionaria, che liquidò in poche settimane migliaia di oppositori di sinistra.
di Jamila Mascat


QOM Nella periferia di Qom, circondata dalle montagne e dal deserto, si nasconde il sito nucleare iraniano più contestato dalla comunità internazionale, ma in giro nessuno sa dove si trovi esattamente l’impianto della discordia. Costruito in gran segreto per contenere tremila centrifughe destinate all’arricchimento dell’uranio e ispezionato per la prima volta nel 2009 dall’Aiea, dai residenti è conosciuto solo per sentito dire. Sono altri i luoghi che appassionano e dividono gli abitanti della seconda città santa del paese (la prima è Mashhad), che fu la capitale storica della rivoluzione islamica e che oggi, nell’era del disgelo post-sanzioni, rimane un baluardo dell’ortodossia conservatrice del regime.
Già da prima della rivoluzione del 1979 Qom ospitava numerose scuole di teologia sciita, e da alcuni decenni contende a Najaf, in Iraq, il ruolo di primo centro dello sciismo mondiale. Accanto all’enorme santuario di Fatima Massoumeh, sorella dell’imam Reza morta avvelenata a Qom nel IX secolo d.C., si trova la madrasa di Feyziyeh, antico e prestigioso istituto di studi islamici. Qui Khomeini, che arrivò a Qom negli anni Venti al seguito del marja Haeri Yazdi per studiare la sharia e la giurisprudenza islamica , tenne le sue affollatissime lezioni di religione, filosofia e teosofia; e qui più tardi avrebbe insegnato anche Hossein Ali Montazeri, suo ex allievo e discepolo prediletto, diventato poi vice Guida suprema della Repubblica islamica.
Quando all’inizio degli anni Sessanta i sermoni e la popolarità di Khomeini cominciarono a essere manifestamente invisi alle autorità politiche, l’ayatollah fu costretto a ritirarsi a vita privata nella casa di Yakhchal Qazi, in un quartiere modesto non lontano dalla madrasa di Feyziyeh. Nelle stanze di questa abitazione, oggi diventata un centro di consulenza religiosa e meta di pellegrinaggio per fedeli e ammiratori, Khomeini continuò a impartire i suoi insegnamenti e criticare aspramente la reggenza dello scià e la sua “rivoluzione bianca” (il programma di riforme sottoposto a referendum nel gennaio 1963). In questa stessa casa poco prima dell’alba del 5 giugno del ’63, l’ayatollah fu arrestato dagli ufficiali della Savak, la polizia di stato. Il 3 giugno, infatti, in occasione delle celebrazioni per il martirio dell’imam Hossein, nella sede della scuola di Feyziyeh che solo due mesi prima era stata il bersaglio di un raid sanguinoso delle forze dell’ordine, Khomeini aveva pronunciato un discorso infuocato tacciando Reza Pahlavi di essere un despota corrotto e un “miserabile” al soldo degli Stati Uniti.
All’arresto dell’ayatollah la risposta della città, tutta schierata dalla sua parte, fu immediata e nei giorni successivi proteste e tumulti si propagarono anche a Teheran, Shiraz, Kashan e Mashhad. Così il movimento del 15 mordad (la data dell’arresto di Khomeini secondo il calendario iraniano) fu una sorta di prova generale dell’ondata di manifestazioni che avrebbero travolto il paese nel 1978. Da allora Qom si allenò a diventare uno degli epicentri della rivolta contro lo scià che sarebbe esplosa quindici anni dopo.
Contro il massacro delle prigioni
Il santuario di Fatima Massoumeh ospita anche la tomba dell’ayatollah Montazeri. Erede designato di Khomeini, caduto malamente in disgrazia alla fine degli anni Ottanta per aver contestato la repressione sanguinosa degli oppositori orchestrata da Teheran, Montazeri è stato sepolto a Qom nel 2009, accompagnato da un bagno di folla di oltre mezzo milione di persone. Qui aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita, di cui cinque, tra il 1997 e il 2003, agli arresti domiciliari e sotto rigida sorveglianza, per aver contestato pubblicamente l’autorità della Guida suprema Ali Khamenei.
Due settimane fa la voce sepolta di Montazeri è tornata scuotere le fondamenta visibilmente incrinate della Repubblica islamica, con la diffusione di una registrazione audio di 40 minuti apparsa sul sito ufficiale dell’ayatollah. La registrazione, che risale al 5 agosto 1988, riporta la conversazione avvenuta durante una riunione tra Montazeri e i vertici dell’apparato giudiziario, tra cui l’attuale guardasigilli nominato dal presidente Hassan Rouhani, il ministro Mostafa Pourmohammadi, all’epoca incaricato degli interrogatori nella prigione di Evin, a Teheran, in qualità di capo dell’intelligence.
“Siete responsabili del più grosso delitto commesso dalla Repubblica islamica – tuona Montazeri nella registrazione. “La storia ci condannerà e si ricorderà dei vostri nomi per aver agito come dei criminali. Uccidere è il modo sbagliato di combattere un’idea”.
Così l’ayatollah si opponeva al massacro in corso di migliaia di prigionieri politici (4000-5000 secondo le stime di alcune organizzazioni per i diritti umani, 30mila secondo fonti militanti) processati una seconda volta con interrogatori sommari e ridicoli, poi condannati e immediatamente giustiziati dai comitati rivoluzionari.
Durante l’incontro Montazeri esprimeva preoccupazione (“non riesco a dormire, questa cosa mi affanna la mente per ore”), si dichiarava convinto che il piano di esecuzioni fosse stato architettato dall’alto molto tempo prima, e ribadiva con insistenza la propria contrarietà (“mi oppongo ad ogni singola condanna a morte”). A nulla purtroppo valsero le sue parole, e l’eccidio dei prigionieri politici cominciato il 27 luglio 1988 sarebbe andato avanti fino all’autunno.
A distanza di 28 anni, di quelle esecuzioni capitali, una della pagine più nere della storia post-rivoluzionaria, non si sa ancora quasi niente. Si sa, per esempio, che per morire bastava poco. Ai prigionieri venivano rivolta qualche domanda di rito – se erano musulmani praticanti, se credevano nei valori della Repubblica islamica, se fossero stati disposti a combattere in Iraq per difenderla – e in genere si chiedeva ai dissidenti di rinnegare la propria appartenenza politica. Era sufficiente rispondere negativamente per essere fucilati nel giro di pochi secondi.
La memoria selettiva
Mancano tuttora all’appello molti corpi giustiziati, reclamati dalle famiglie delle vittime, e una lista ufficiale dei nomi. Tra i prigionieri appartenenti all’opposizione di sinistra figurano diversi esponenti del Tudeh (il partito comunista iraniano), i Fedayn, e soprattutto i membri dei Mujahiddin del popolo, una formazione politica particolarmente invisa al regime per aver condotto operazioni militari contro l’Iran durante la guerra con l’Iraq.
Nel 1990 un rapporto di Amnesty International inchiodava la Repubblica islamica alle sue colpe, accusandola di aver premeditato strategicamente gli omicidi di massa. Una dichiarazione della stessa organizzazione, che risale al gennaio 2009, intimava invece al governo di Teheran di sospendere immediatamente la distruzione del cimitero di Kharavan, a sud della capitale, per salvaguardare le fosse comuni dove durante il “massacro delle prigioni” furono seppellite anonimamente centinaia di cadaveri e dove i familiari dei defunti continuano a recarsi in visita per commemorare la tragedia di quelle morti e strapparle all’anonimato. Secondo Amnesty, inoltre, il sito di Kharavan dovrebbe essere il punto di partenza per un’indagine “indipendente e imparziale” finora mai condotta sull’accaduto che porti a processare i responsabili dell’eccidio. Proprio la disintegrazione di quei luoghi, invece, dice della volontà dello stato iraniano di cancellare le prove di ciò che è avvenuto, negando alle famiglie il diritto alla verità.
Ad oggi le vittime del 1988 rappresentano un cospicuo esercito di martiri ufficiosi e rinnegati da parte di una società che del culto dei martiri ufficiali (le vittime della Savak, e poi i combattenti nella guerra contro l’Iraq) ha fatto il suo marchio di fabbrica, ricordandoli ad ogni angolo di strada. La memoria (selettiva) è uno dei pilastri della propaganda della Repubblica islamica, che non perde occasione per celebrare le gesta dei suoi eroi e dannare i trascorsi dei suoi avversari. Un esempio emblematico è la prigione di Al Qasr, dove nel 1963 per alcune settimane fu rinchiuso anche Khomeini dopo il suo arresto. In principio un palazzo reale costruito a fine Settecento dallo scià Fath Ali della dinastia Qajar, trasformato in prigione nel 1929, e poi in un museo inaugurato nel 2012, il complesso è un reperto importante della storia carceraria iraniana prima della rivoluzione e ricostruisce con dovizia di particolari la crudeltà del regime dei Pahlavi. Ex detenuti in carne e ossa si offrono di guidare i visitatori, tutti iraniani, tra le celle minuscole, le stanze di tortura, i corridoi angusti in cui vengono diffuse in loop dagli altoparlanti le lamentazioni registrate dei prigionieri, e i cortili grigi deputati allo svago o alle fucilazioni. Ma sebbene la struttura sia stata mantenuta attiva anche dopo il 1979, quando servì a stipare i prigionieri politici del regime di Khomeini, quello che è successo in questo luogo nei trent’anni successivi non è cosa di cui parlare.
Le due anime della rivoluzione
Nonostante le intimidazioni del ministero dell’intelligence all’indomani della pubblicazione del file, che hanno convinto Ahmad Montazeri a rimuoverlo dalla circolazione, l’impietoso j’accuse dell’ayatollah ha fatto il giro del web, suscitando le reazioni più disparate sui social network e nei commenti ai siti di informazione che hanno riportato la notizia: c’è chi accusa l’ex braccio destro di Khomeini di tradimento, chi gli rimprovera di essere stato complice di questi omicidi per non aver mai rotto risolutamente con il regime, chi gli imputa un eccesso di ingenuità per aver capito e reagito troppo tardi.
A causa delle proporzioni assunte dalla vicenda, neanche la stampa ufficiale ha potuto ignorarla.Nel ricostruire la questione, l’agenzia di stampa Fars News ha rivendicato la giustezza delle condanne e delle esecuzioni, contestando gli argomenti di Montazeri e criticando la decisione del figlio di diffondere la registrazione. Keyhan, storico giornale conservatore che riflette gli orientamenti della Guida suprema, ha attribuito allo zampino di Daesh e dei sunniti la paternità dell’operazione. L’editoriale del quotidiano filogovernativo Javan, invece, ha accusato il figlio di Montazeri di aver voluto vendicare il padre, diffamando Khomeini.
In un’intervista a Bbc Farsi, Ahmad Montazeri ha illustrato le ragioni della sua scelta di rendere pubblico l’audio incriminato. Il dato non è del tutto nuovo, visto che l’autobiografia dell’ayatollah presenta la stessa versione dei fatti, ma la registrazione costituisce una prova schiacciante a scapito dei suoi interlocutori, la cosiddetta “commissione della morte”. Per il giovane Montazeri la conversazione “riesumata” servirebbe a riaffermare, contro le smentite dei vertici della Repubblica islamica, fino a che punto il numero due di Khomeini sia stato critico nei confronti degli apparati di stato.
Dalla fine degli anni Ottanta, che sancirono la rottura definitiva tra i due numi tutelari della rivoluzione, Montazeri e Khomeini hanno cominciato a incarnare due distinti possibili risvolti del percorso rivoluzionario. Vittime della repressione di Reza Palhavi – esiliato dal 1964 per 14 anni Khomeini, imprigionato tra il 1974 e il 1978 Montazeri – e convinti sostenitori della velayt e faqih, la dottrina che affida ai giurisperiti musulmani la guida del paese e che entrambi hanno contribuito a teorizzare, i due ayatollah iniziarono a divergere rapidamente quando lo scoppio della guerra tra Iran e Iraq spinse Teheran ad adottare una strategia sempre più repressiva e letale nei confronti dei gruppi dissidenti.
Dopo due lettere private indirizzate a Khomeini per manifestare il proprio disaccordo in merito all’operato del regime, l’ultimo affronto di Montazeri alla Guida Suprema risale al 1989. In quell’anno l’ayatollah rilasciò un’intervista a Keyhan in cui imputava a Khomeini la colpa di aver liquidato “i veri valori della rivoluzione”, tradendo le aspirazioni del popolo iraniano.
Khomeini rispose con durezza alle accuse di Montazeri, che pochi giorni dopo finì per rinunciare pubblicamente al proprio incarico di erede. Da quel momento perse il titolo di Grande ayatollah e la sua figura venne definitivamente oscurata, mentre i suoi sostenitori e collaboratori divennero personae non gratae, suscettibili di essere perseguitate e uccise. Assurto a paladino dei diritti umani calpestati da Teheran, negli anni successivi, Montazeri ha accompagnato il movimento riformatore che nel 1997 ha portato alla presidenza di Mohamed Khatami, e nel 2009 ha appoggiato “l’onda verde” dei sostenitori di Mir Hossein Moussavi contro la rielezione truccata di Mahmoud Ahmadinejad. Ed è stato Montazeri a proporre tre giorni di lutto nazionale per rendere omaggio alla morte di Neda Agha Sultan, la studentessa uccisa a fuoco durante una manifestazione di protesta da un membro del basij, la forza paramilitare fedelissima al regime.
A distanza di sette anni dalla sua scomparsa lo spettro di Montazeri continua a tormentare la Repubblica islamica, riscattando vecchi delitti e paventando nuovi castighi: “Non saremo al potere per sempre, e la storia un giorno ci giudicherà”.
Per le fazioni moderate del regime, che premono per una progressiva trasformazione dell’apparato onde evitare che la crescente perdita di legittimità delle istituzioni clericali finisca per portare al tracollo l’intero sistema, il caso Montazeri ha offerto l’opportunità di cominciare a fare autocritica, cosa che i vertici conservatori, Khamenei in primis, non sono apparentemente disposti ad accettare. Le elezioni presidenziali del 2017 saranno un’occasione per testare se e quanto le fratture interne al ceto politico, già emerse in occasione delle negoziazioni sul nucleare nella contrapposizione tra il presidente Rohani e la Guida suprema, e il nuovo corso inaugurato nell’era del dopo sanzioni avranno prodotto contraccolpi sostanziali sugli equilibri del paese.

Corriere 30.8.16
Brasile, l’ultima difesa di Dilma «Questo è un golpe, votate contro»
Scontato l’impeachment della (quasi) ex presidente. Che attacca gli «usurpatori»
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO Se avesse potuto, per un’ultima volta, usare un puntatore e proiettare una foto, avrebbe scelto quella del 1970, sulla quale in questi anni ha tentato inutilmente di costruire un mito, e quel posto nella Storia che forse non avrà. Dilma Rousseff ventenne davanti a un tribunale della dittatura militare, lei con sguardo di sfida, i suoi accusatori con il volto nascosto da una mano. «Oggi mi presento qui come quel giorno, e guardo dritto negli occhi chi mi accusa ingiustamente. Come in passato resisto contro chi attenta allo stato di diritto. Contro chi ha messo in piedi in Brasile un altro colpo di Stato, senza armi e carrarmati, un golpe parlamentare. Voi risponderete alla vostra coscienza, per questa morte politica della democrazia che state mettendo in piedi!». È l’ultima, estrema e probabilmente inutile difesa davanti al plotone dell’impeachment, il Senato federale di Brasilia. Entro oggi e domani l’aula voterà a chiamata nominale per l’addio definitivo della Rousseff dalla presidenza, dalla quale è già stata allontanata a giugno. Le previsioni non sono a suo favore. Per questa la tecnocrate accusata di vivere a «slides» e «powerpoint», e non capire nulla di politica, ha dovuto tirare fuori tutta l’emotività nella messa in scena dell’atto estremo. Sacrificio personale e requiem di un pezzo di storia del Brasile che si chiude in queste ore. Dilma coraggiosa, testarda e irriducibile: in politica spesso sono difetti, lei li paga tutti, ma oggi fanno teatro.
Dalla galleria del Senato, che sembra un auditorium, Lula guarda in basso e si tortura i baffi: nella sua epopea politica mai ha fatto errore più grande che scegliere Dilma a sostituirlo. È spaesato dietro gli occhiali scuri il più famoso supporter dei 13 anni del Partito dei lavoratori, il cantautore e scrittore Chico Buarque de Hollanda, seduto a fianco di Lula. I fotografi bombardano di flash, tutti filmano le ore finali con il cellulare. Ex ministri e compagni di strada. Tutti a casa, a quanto pare. Il presidente (ex) operaio, la generazione che ha lottato contro i militari, la sinistra intellettuale e i preti della Teologia della liberazione, gli economisti dello sviluppo senza rigore, i fan dell’unica sinistra latino-americana che funzionava: «non come Chávez e i Kirchner» osannava anche Wall Street. Al loro posto tornano i «soliti noti», quelli che nella narrativa degli sconfitti di oggi sono gli stessi da cinque secoli. I bianchi, gli oligarchi, i padroni della terra, i signori dei media. Quelli che non volevano i sussidi ai poveri, le case popolari, le fogne nelle favelas, i diritti delle «empregadas» (le colf semischiave).
È un mosaico di tesi discutibili e la maggioranza dell’opinione pubblica non le condivide, ma a Dilma non resta alternativa per uscire di scena a testa alta. Ha davanti 80 senatori che in buona parte hanno cambiato bandiera negli ultimi mesi, e molti sono inquisiti. Lei ha mezzo partito dietro le sbarre o sotto processo nella «Lava Jato», la Mani pulite brasiliana, Lula compreso. Ma i partiti del ribaltone non stanno meglio.
Usa parole come codardia, tradimento, slealtà. Descrive così il governo Temer che l’ha sfrattata: «Un esecutivo di usurpatori, non c’è una donna, un nero. Proprio nella legislatura dove i brasiliani per la prima volta nella storia avevano scelto una presidenta». Tenta timidamente di chiedere nuove elezioni (che la Costituzione tra l’altro non prevede) e qui e là entra nel merito delle accuse che tra poche ore la spediranno a casa, cioè il maquillage del bilancio pubblico per far quadrare i conti. Dilma ne ha azzeccate poche nei sei anni di governo, le sue scelte economiche (illecite o meno), hanno portato il Brasile a due anni di dura recessione. Svaniti tutti i sogni degli anni di Lula, l’ingresso nelle grandi potenze, il bioetanolo per far andare le auto pulite, il petrolio in alto mare, la salvezza dell’Amazzonia a braccetto con l’agricoltura più efficiente del mondo. E soprattutto: i trenta milioni di poveri che diventano classe media, i Mondiali di calcio e le Olimpiadi...
Ed è proprio quando cita i Giochi di Rio appena conclusi che Dilma ha l’unico groppo in gola e le lacrime agli occhi: «In gioco oggi c’è l’autostima di tutto il popolo brasiliano, dopo i successi dei grandi eventi che abbiamo ospitato...». Poi regge per ore rispondendo a decine di domande, senza stancarsi. Le previsioni per il voto finale dicono che i 54 senatori su 80 necessari per l’impeachment già ci sono. Fuori dal Senato, gli epici movimenti popolari che avrebbero dovuto fermare il golpe sono ridotti ad un centinaio di irriducibili sotto il sole. Dilma non li va nemmeno a salutare, sennò la Tv sarebbe costretta a riprendere quell’enorme vuoto voluto dai padri modernisti di Brasilia davanti ai palazzi del potere. Vuoto, appunto.

La Stampa 30.8.16
C’è il G20, la Cina vuole il cielo blu
Fabbriche chiuse e ferie per tutti
Nuovi quartieri e abitanti sfollati per il summit di Hangzhou
La Repubblica Popolare si rifà il look, ma scoppiano le proteste
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Nel 2016 c’è un altro «grande evento»: si terrà il primo G20 a essere ospitato dalla Repubblica popolare cinese. Appuntamento il 4 e 5 settembre. Per l’occasione Hangzhou è stata tirata a lucido. Ci saranno almeno un milione di volontari nelle strade, circa 20 volte il numero di quelli impiegati per Rio 2016. Agli alberghi della vicina Guangzhou è stato ordinato di rifiutare ospiti di cinque nazioni: Afghanistan, Turchia, Iraq, Siria e Pakistan. Questioni di sicurezza, ma non solo.

Come ha insegnato Pechino durante l’Apec, il cielo blu sarà garantito dalla chiusura di oltre cento fabbriche nel raggio di quattrocento chilometri, mentre moltissime aziende lavoreranno a orario ridotto. Molti dei venditori di cibo ambulanti hanno già chiuso. Da giovedì, inoltre, tutti gli studenti e i funzionari pubblici saranno costretti a una settimana di vacanza forzata. Ai residenti sono stati offerti ingressi omaggio per le attrazioni turistiche della regione.
Eppure la metropoli da 9 milioni di abitanti ad appena 40 minuti di treno veloce da Shanghai, è sempre stata una bellezza. Per i cinesi racchiude la quintessenza della loro millenaria cultura. È sofisticata, armoniosa e ricca. Per secoli il suo lago e le sue colline dedicate alla coltivazione di tè hanno ispirato poeti e letterati. «In cielo c’è il paradiso, in terra ci sono Hangzhou e Suzhou», recita un antico detto. Persino Marco Polo nel suo Milione l’aveva definita «la più nobile città del mondo e la migliore». È stata il fiore all’occhiello della carriera politica di Xi Jinping prima che divenisse presidente. Oggi ospita 50 delle più importanti aziende private del Paese, fra le quali, il gigante dell’e-commerce Alibaba. È, in sintesi, la faccia che la nuova Cina vuole mostrare al mondo. Il 60 per cento del suo pil proviene dal privato (circa 67 milioni di euro) e ha un settore dei servizi che, senza soluzione di continuità dal 2012, conta per oltre la metà sulla crescita economica della città.
Ma per buona parte del 2016 la città è stata un cantiere a cielo aperto. Nuove strade, nuova illuminazione, quartieri distrutti, abitanti trasferiti e alberghi ristrutturati. Non ci sono cifre ufficiali, ma si parla di oltre 21 miliardi di euro spesi per rinnovare la città (contro gli scarsi 4,5 investiti per Rio 2016, per farsi un’idea). Ma gli abitanti sono scontenti. Le chiese protestanti lamentano maggiori e immotivati controlli su tutti i fedeli e le scuole si sono riempite di telecamere. Vietato, come sempre in Cina, lamentarsi. A luglio il funzionario Guo Enming aveva scritto sul suo account di WeChat, il social media più utilizzato in Cina, un post intitolato «Hangzhou, mi vergogno di te». Chiedeva conto dei soldi spesi per organizzare l’evento, visto che equivalgono più o meno al 70 per cento delle entrate annuali del governo cittadino. E concludeva: «Senza ragione, una vibrante metropoli è stata trasformata in una città fantasma». Il suo post è diventato virale. Dopo 60 mila condivisioni è scomparso dalla rete. Guo è stato detenuto dieci giorni per «violazione dell’ordine pubblico».