giovedì 13 marzo 2003

Giornale di Brescia Giovedì 13 marzo 200
L’angoscia dell’Occidente, la tecnica, la verità: le radici filosofiche di un «no» convinto al nichilismo
Severino, il mio pensiero all’eterno «Alla Chiesa dico grazie per la serietà e la severità con cui ha affrontato le mie tesi»
Giacomo Scanzi

Nel cestello, sul tavolino del salotto, i wafer di Babbi. Li riconosco. Già in un’altra occasione, seduti in poltrona, parlando di Eraclito, Parmenide, San Tommaso, il professore m’aveva offerto questa piccola delizia. Una passione minima - sottolinea -. Gli ricordo garbatamente di aver già assaggiato poco più di un anno fa, proprio in casa sua quei biscottini viennesi. Altrettanto garbatamente e ironicamente mi rassicura: «Non sono gli stessi di allora. Nel frattempo ne abbiamo comprati altri...». Ironia. Garbata, delicata, che appare immediatamente stile di vita, orizzonte umano in cui svolgere l’esistenza. Dal nostro colloquiare, emergono i punti forti del pensiero di Emanuele Severino: il primato della filosofia, luogo e dimensione supremi dell’essere dell’uomo, e una visione per così dire ottimistica dell’essere, colto nell’eternità di ogni suo istante. È qui che il filosofo rivendica il proprio antinichilismo e una posizione terza rispetto alla tradizionale contrapposizione tra «amici di Dio e suoi nemici», ovvero credenti e atei. Superare il nulla originario su cui è costruita la nostra civiltà, questo il cuore della sua opposizione radicale al nichilismo contemporaneo. Alle pareti, tra i molti, impegnativi quadri, tra le tante sculture - del figlio Federico innanzitutto - tra libri di ogni specie, anche qualche collage, ironico appunto. «Sono opera di mia moglie - spiega Emanuele Severino - li realizza per prendermi in giro». Uno di questi riproduce una seicentesca famille philosophique: Severino compare con tanto di costume e girocollo azimato, in compagnia di Eco, Vattimo, Cacciari. È l’occasione per porre la prima domanda: chi è il filosofo oggi e - approfittando del garbato senso dell’ironia - come si sente un filosofo in pensione? «Mi rendo conto che queste sono le frasi che dicono tutti i pensionati. Ma non ho mai lavorato tanto come in questo periodo. Il fatto è che neanche da non filosofo sono in pensione. In pensione ci vado tra due anni. A Venezia non insegno più agli studenti, è vero, ma continua tutta l’altra attività accademica. L’altro giorno abbiamo dovuto nominare il nuovo direttore di dipartimento perché - è il caso di ricordarlo - è mancato il mio carissimo, carissimo Italo Valent, uno dei miei allievi migliori. Io sono il decano dell’Università di Venezia. Decano - ci tengo a dirlo - non è colui che è più anziano anagraficamente, ma colui che lo è dal punto di vista accademico. Poi la sua battuta mi piace... Filosofo in pensione vorrebbe dire che non pensa più? Allora no, non sarò mai pensionato. Il pensare è la vita, è la cosa più importante. È la dimensione dentro la quale acquistano importanza tutte le altre cose. Chi è il filosofo….. Quando la filosofia si determina in un certo modo, è un grande privilegiato. È una fortuna che vi sia una società che dà il tempo ad alcuni individui di pensare. Detto questo è bene lasciare sullo sfondo l’individuo-filosofo e lasciare che venga in primo piano la filosofia. Benissimo, la filosofia... Un mondo senza filosofia sarebbe subumano, regno della barbarie. Spero non venga mai meno il desiderio di insegnare la filosofia anche se qualche segnale negativo in questo senso purtroppo c’è. Sia chiaro, noi italiani non abbiamo da invidiare nulla alla filosofia degli altri Paesi. Tuttavia, rispetto al grande inizio del pensiero filosofico tra Otto e Novecento - penso a Leopardi, Nietzsche, Gentile - la situazione ha un poco segnato il passo. Dopo il grande inizio in cui il pensatore contemporaneo ingaggia quella gigantomachia con il grande pensiero classico (Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Cartesio, Kant, Hegel...) il pensiero filosofico si è come seduto sui risultati. E i risultati sono drammatici. Sono stati ereditati gli esiti dello scontro della filosofia contemporanea rispetto alla tradizione, islamismo compreso, senza più pensare quali sono stati i motivi radicali che hanno portato la contemporaneità ad allontanarsi dal passato. Per cui oggi abbiamo una filosofia laica nella condizione di farsi togliere di mezzo con relativa facilità dai grandi valori del passato. La contemporaneità è la negazione radicale della tradizione. Ma la contemporaneità sembra non prendere coscienza della forza che possiede rispetto al passato e alla tradizione. Senza questa forza la contemporaneità diventa essa stessa una fede che non si vede perché debba prevalere su altre fedi che intende contestare. La filosofia contemporanea mostra insomma l’inevitabilità del processo che conduce al tempo della lontananza da Dio. È qui che il mio discorso col credente diventa insieme duro e fecondo. Cosa si deve intendere per tradizione? Quando si parla di tradizione oggi occorre superare l’idea superficiale che vi sia in atto uno scontro tra cristianesimo e islam e che quest’ultimo costituisca la tradizione. Cristianesimo e islamismo sono entrambi due grandi esperienze che costituiscono la tradizione. Oggi il nemico dell’islamismo è la contemporaneità; non è il “Satana americano”, ma la filosofia di Leopardi, di Nietzsche... Sia chiaro, io vedo in circolazione una gran quantità di equivoci intorno a quello che scrivo. Questo mio discorso non deve essere inteso come una forma di adesione alla filosofia contemporanea. Che è ateismo. Il discorso del sottoscritto non significa schieramento in favore della filosofia contemporanea. Significa un’altra cosa: che se si parte dal pensiero greco è inevitabile arrivare alla contemporaneità. Resta la grossa questione: la necessità di partire da quel pensiero. È insomma un problema di coerenza interna dell’Occidente. L’Occidente: parola usata e abusata e portatrice di equivoci. Che ne pensa? Oggi si usa la parola Occidente in senso riduttivo, ad esempio lo si contrappone all’islamismo. Invece l’Islam è a pieno titolo un tratto dell’Occidente. L’Occidente è l’insieme di esperienze mentali, affettive, culturali, inconsce, istituzionali, pratiche - le opere - degli umani che si costituiscono in relazione a questo significato sopradominante che è il significato della cosa come essere ente, cioè come ciò che oscillando tra il nulla e l’essere e l’essere e il nulla dapprima evoca un senso d’angoscia, il divino, e poi - torniamo all’esperienza della filosofia contemporanea - si rende conto che se c’è il divino non ci può essere quell’oscillazione che determina l’essere cosa come ente. L’Occidente è ciò che cresce intorno al senso greco dell’essere ente. Questa crescita straordinaria è quella che io chiamo storia della follia. Professore, che posto e che senso hanno, dunque, le grandi contrapposizioni tra mondi, tra culture, tra civiltà, tra cristianesimo e islam, tra spiritualità e tecnicità? Sono contrapposizioni reali? Certo che sono reali, ma sono contrapposizioni che si sviluppano tutte a partire dalla stessa anima. Ma in questa prospettiva l’Occidente non rischia di includere tutto , di essere l’unico orizzonte possibile? No, non include tutto. L’Occidente è l’episodio del Negativo che d’altra parte è necessario che sia. Il tutto dentro la grande sfera della Verità. La sfera della Verità avvolge la follia e però la follia è essenziale, perché la Verità è negazione dell’errore e della follia. Mi par di capire che il suo sia un pensiero dialettico... Certamente sì, con una precisazione: per Hegel ciò che la Verità nega, permane come immagine. Lo sviluppo dialettico brucia ciò che è tolto dalla verità e la verità annienta il sangue e le ossa del negativo e conserva solo le sue determinazioni formali. La mia è una dialettica che conserva ciò che in essa è totalmente passato. Guardando al grande futuro dell’umanità, del nostro essere uomini, lo sviluppo infinito conserva in carne ed ossa in ognuno di noi la totalità dell’umano. Questa è la tesi. Ma questa tesi non è forse molto vicina alla resurrezione cristiana? Si parla di resurrezione solo in relazione a una corruzione. Quando i grandi testi teologici e filosofici parlano di resurrezione, la intendono sempre in termini di annientamento. Questo è il centro di tutto il discorso. L’Occidente pensa che gli essenti si annientano, anche quando mostra questa possibilità gioiosa della resurrezione, al proprio fondo conserva questo pessimismo radicale che vede l’essente come ciò che di per sé se ne va nel niente e che ha bisogno di una grazia divina per recuperarlo. L’eternità dell’essente - ciò che chiamo Gloria - è qualcosa d’altro; è un’apertura infinita che conserva la totalità delle esperienze sensibili e in ognuno di noi le conserva, poiché ognuno di noi è destinato a fare esperienza della totalità dell’esperienza umana. Barzaghi dice che questo è il concetto cristiano della comunione dei santi... Io ho qualche perplessità per le stesse ragioni espresse a proposito della sua obiezione sulla resurrezione. Che questo discorso - d’altra parte - non abbia nulla a che vedere con l’ateismo che impoverisce il senso del tutto a ciò che del senso comune percepiamo del mondo, beh mi pare evidente. Parliamo del suo rapporto con la Chiesa. Da qualche tempo si è sviluppato un dialogo tra lei ed alcuni teologi. Ha citato Barzaghi, io cito Coda... «Il mio discorso filosofico non prescinde affatto dalla Chiesa e dal Cristianesimo. Anzi, le dirò di più: ho sempre rispettato e sottolineato la serietà con cui la Chiesa ha affrontato le mie posizioni filosofiche, anche nel momento in cui è avvenuto lo scontro, la frattura. Io ho sempre espresso ammirazione per la serietà con cui l’autorità ecclesiastica ha esaminato le mie posizioni e mi ha invitato a discuterle. Non condivido affatto quindi chi mi ritiene una vittima. Anzi, per me è stata, anche quella circostanza, un’esperienza culturale interessantissima e feconda. La Chiesa non è mai stata leggera con me, è stata seria e severa, e di questo la ringrazio. Quanto ai teologi devo dire che sono colpito dall’attenzione e dal dialogo che hanno avviato. Qualcuno ritiene che la mia filosofia possa costituire una sorta di “preambula fidei”. Beh, confesso che il dialogo mi lusinga, anche se l’esito mi lascia alquanto perplesso. Io non credo che la teologia dica quel che dico io. Se fosse così, allora io dovrei dirmi cristiano. Il punto è forse questo: cos’è - ed è possibile? - il Cristianesimo spogliato della sua storicità?