Il Giornale di Vicenza Sabato 19 Luglio 2003
Una mostra che si apre oggi a Macerata ripropone al grande pubblico l’opera dell’umanista e matematico del Cinquecento
Matteo Ricci, un gesuita alla Corte dei Ming
di Nicoletta Castagni
Riuscì a costruire per la prima volta un solido ponte culturale tra l’Occidente e la Cina
Fu chiamato «il saggio d’Occidente» e riuscì a portare per la prima volta, alle soglie del ’600, il pensiero occidentale e cattolico alla corte imperiale della Cina. Eppure l’opera del gesuita Matteo Ricci è ancora sconosciuta ai più, rimossa dalle condanne dell’Inquisizione. Una mostra da oggi a Macerata (dove Ricci nacque nel 1552) la ripropone al largo pubblico. Presentata a Roma, la rassegna «Padre Matteo Ricci. L’Europa alla Corte dei Ming» (che in autunno arriverà a Roma in una sede ancora da definire) è curata da Filippo Mignini, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Macerata, che con grande passione è riuscito a mettere insieme pezzi straordinari e in parte mai esposti prima, capaci di ricostruire l’esperienza emblematica del missionario gesuita, umanista e matematico, interamente volta a far incontrare due mondi e due culture all’epoca separati da distanze siderali.
Si tratta di una mostra difficile, ha esordito Mignini senza nascondere le difficoltà dell’iniziativa ideata dall’Istituto Matteo Ricci (nato due anni fa a Macerata), e organizzata per conto della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata in collaborazione con il Comune, la Provincia, la Regione e Banca delle Marche.
La fama di Ricci non è pari alla sua grandezza, ha proseguito il curatore, sottolineando che l’importanza del gesuita va ben oltre a quella di Marco Polo. In Cina, solo chi va all’università conosce le imprese del viaggiatore veneziano (anche se ora sono state divulgate da un film di successo), ha aggiunto, mentre tutti conoscono la vita di Li Madou, come veniva chiamato Padre Ricci nel Paese del Drago.
Il gesuita impiegò diciotto anni per risalire da Macao a Pechino dove arrivò all’età di 32 anni con la consegna di convertire al cattolicesimo l’imperatore di quello sconfinato e sconosciuto paese. Nell’attesa di entrare in Cina, Ricci imparò alla perfezione a leggere e scrivere nel cinese dei mandarini e come tale arrivo alla corte imperiale. Lì, come illustra la mostra di Macerata, il gesuita portò la sua considerevole cultura, formata a Firenze e a Roma, sotto la guida di maestri come il matematico Cristoforo Clavio, che fu amico di Keplero e Galilei. Ma soprattutto la sua curiosità, il desiderio di aprirsi alla diversità culturale.
Ricci introdusse per primo in Cina la teologia, la filosofia, la letteratura e le arti della vecchia Europa, rivelò che la Terra non era quadrata bensì rotonda e realizzò cinque diverse carte geografiche universali (le sei tavole del Mappamondo del 1602 saranno esposte per la prima volta in mostra). Pubblicò in cinese Cicerone, Euclide e convertì al cattolicesimo un gran numero di alti funzionari dell’apparato burocratico e militare cinese. Il suo modo di rapportarsi a quella cultura tanto diversa non era però in sintonia con la Chiesa di Roma, che non apprezzò le sua traduzione in cinese di «Deus» («Figlio del Cielo» era considerato troppo legato all’aspetto materiale) e la tolleranza per i riti confuciani (per Ricci che ne conosceva la valenza filosofica erano riti civili, di rispetto e gratitudine). Tanto che, nel 1704 l’Inquisizione condannò l’operato del gesuita, che venne riabilitato solo da Pio XII e quindi dal Concilio Vaticano II.
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