La Stampa Tuttolibri 19/7/2003
Schopenhauer e il barboncino: lo amo perché non si pone domande  
NON appena Arthur Schopenhauer cominciò a  pensare si sentì diviso dal mondo. Era d'accordo con Leopardi nel ritenerlo  una lega di furfanti contro gli onesti e di vigliacchi contro i generosi.  Pur non respingendo nessun essere umano, incontrava solo miseri gnomi,  limitati di cervello, malvagi di cuore. Le rare eccezioni avevano dai  venticinque ai quarant'anni più di lui. Ai Musei Vaticani scoprì incisa  sotto il busto di Biante una scritta in greco: ”La maggior parte degli  uomini è malvagia”. A trent'anni ne ebbe abbastanza di considerare suoi  simili esseri che in realtà non lo erano. Finché il gatto è giovane, si  disse, gioca con pallottoline di carta perché crede che siano vive e simili  a lui. Ma una volta cresciuto, sa cosa sono e le lascia stare.  Considerando nullità gli uomini accanto a cui viveva, il suo massimo  godimento erano i pensieri tramandati di esseri simili a lui che un tempo si  erano affannati come lui tra quanti non lo erano. La loro lettera morta gli  parlava in tono più familiare che non la viva esistenza dei bipedi. Per  l'emigrato, diceva, una lettera da casa vale più di una conversazione con  gli stranieri che gli stanno intorno. Considerava il suo l'isolamento di un  individuo eccelso, del quale il bipede finge di non notare la superiorità  con lo stesso istinto con cui un insetto si finge morto.  La madre lo fece andare via di casa perché con questi discorsi offendeva i  suoi ospiti. L'unico con cui Schopenhauer convisse da allora in poi fu un  barboncino. Schopenhauer lo amava perché non si poneva domande. Solo l’uomo  si meraviglia della propria esistenza. A trent'anni scrisse un'opera che  cominciava con queste parole: ”Il mondo è la mia rappresentazione”. Ne  vendette pochissime copie, nonostante alcuni paragrafi fossero stati scritti  dallo Spirito Santo.  Come Angelo Silesio, Schopenhauer sapeva che senza di  lui Dio non poteva vivere un attimo. Come Cartesio e come i Veda, riteneva  che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere le cose per quello che  sono, che tutto ciò di cui si ha conoscenza certa si trovi dentro il nostro  sistema nervoso e cerebrale.  Come per Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare e Calderon de la Barca, la  vita per Schopenhauer era un sogno, una ragnatela di apparenze, un  sortilegio. Schopenhauer era un seguace di Kant, ma mentre per Kant il  fenomeno era autenticamente accessibile alla mente umana, per Schopenhauer  era come il velo di Maya che copre il vero volto delle cose. L'unica cosa  che esiste, diceva Schopenhauer, è la volontà di vivere, l'impulso inconscio  e irresistibile che accomuna il filosofo, il barboncino, i fili d'erba e i  cristalli. Ma a differenza dei cristalli, dei fili d'erba e del barboncino,  il filosofo squarciava il velo di Maya dell’illusione quando asseriva di non  essere che volontà.  La volontà, spiegava Schopenhauer, è l'elemento in assoluto più basso e più  spregevole in noi. Bisogna nasconderla come si nascondono i genitali. La  vita di Schopenhauer era guidata da una massima: ”Volere il meno possibile e  conoscere il più possibile”. La felicità dell'uomo comune consiste  nell'alternanza di lavoro e piacere. Per Schopenhauer, invece, erano una  cosa sola. Se a volte Schopenhauer si sentì infelice, fu perché aveva  creduto di essere un altro rispetto a quello che era e ne aveva compianto la  miseria. Per esempio quando aveva pensato di essere un libero docente che  non riesce a diventare professore.
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