mercoledì 6 agosto 2003

Cesare Lombroso 1835 - 1909

La Stampa Tuttolibri 2.8.03
La bottega di Lombroso
di Oddone Camerana

PASSANO i secoli, ma il "romanzo" di Cesare Lombroso e la sua annessa bottega ottocentesca di strumenti di misurazione e di messaggi sulla fatalità biologica dell'uomo, sul male incarnato, sulla pazzia del genio e sulla necessità sociale della devianza, non smettono di affascinare gli studiosi del medico legale veronese trapiantato a Torino. Definito un caffè eccitante dal sociologo francese suo contemporaneo, Gabriel Tarde, tale ce lo ripresenta Delia Frigessi nel bel libro che la studiosa gli dedica, rintracciando da autentica detective le infinite trame della cultura che portano al suo nome. Sullo sfondo della biblioteca-laboratorio nei cui scaffali le tabelle, i diagrammi e le statistiche si mescolano a oftalmoscopi, bilance, craniometri, scalpelli e oscilloscopi, si addensa il cumulo delle teorie più brucianti del suo secolo e di quello successivo: teorie della vita, del principio del vivente, del vitalismo, dei confini tra fisiologia e patologia, dei sogni, dell'inconscio e del determinismo biologico-genetico. La medicina era in fase di conquista, si affermava la scuola materialistica, l'uomo era il nuovo dio e l'antropologia la nuova teologia. D'altra parte, dopo Copernico e Darwin l'uomo non era più al centro né dell'universo, né del mondo animato. Di lì a poco Freud e Samuel Butler avrebbero messo in discussione anche la unicità di ognuno nei riguardi del prossimo e del mondo nascente delle macchine. Pessimismo e ottimismo si contendevano dunque le coscienze dell'epoca. Al centro di tutto questo stava il problema del controllo della violenza, problema che si riproponeva in quella che, per distinguerla dalle società arcaiche, Lombroso definiva la società "della frode", nella quale era comparsa la malattia mentale. Dimenticata da secoli, era stata isolata a partire dal momento in cui la rivoluzione industriale aveva attinto molti dei suoi primi addetti pescando nella massa indistinta di mendicanti, randagi, vagabondi, orfani, idioti, delinquenti rinchiusi nelle case di segregazione, ad eccezione dei folli però, per i quali, considerati mano d'opera inutilizzabile, erano stati aperti i primi manicomi specializzati. Fu a quel momento che la medicina si pose al servizio dell'espansione economica e si configurò come scienza volta a crescere il potere dello stato. Che fare dei matti se non studiarli per prima cosa, considerando la loro propensione a delinquere? Cosa produce il delitto e la follia? La follia è una malattia dello spirito o del corpo? Se criminalità e malattia mentale sono contigui, l'autore del delitto è responsabile e punibile? E chi lo stabilisce? Che dire del criminale politico che agisce lucidamente, convinto dell'utilità sociale del suo gesto in difesa degli oppressi? Sono queste alcune delle domande che si addensano sulle scrivanie di coloro - magistrati, medici, criminologi, penalisti, antropologi, psichiatri, politici - che devono affrontare una realtà esplosiva e ai quali Lombroso farà da guida. Gli va riconosciuto il merito di aver concentrato l'attenzione sull'autore del crimine più che sul crimine stesso. Se non che, restando fedele allo spirito positivo dei fatti e dei dati certi, attento ai segni raccolti nei manicomi e nelle carceri - tatuaggi, gerghi, manufatti - segni attraverso i quali il criminale si esprime, è successo che, mosso da spirito etnocentrico e individuando nell'arresto dello sviluppo e nel precipizio in uno stato primordiale selvaggio e atavico la ragione del delinquere, Lombroso abbia dato vita a una scienza dei mostri. Trattandosi di una situazione irrecuperabile, quella di un passato che ritorna è una visione statica e senza speranza. Non si nasce delinquenti ma lo si diventa, osservano marxisti e socialisti, secondo i quali le anomalie fisiche del criminale sarebbero effetto della devianza e non causa. Quest'ultima sarebbe invece economico-sociale, Lombroso avrebbe criminalizzato il Mezzogiorno per facilitare l'egemonia del Nord e facendo un tutt'uno di biologia e sociologia, avrebbe scritto un'antropologia, secondo Pareto, più simile all'astrologia che a una scienza. Il mistero della violenza era sentito fin dall'antichità e la prima raccomandazione per evitare che esplodesse consisteva nell'evitare le occasioni di rivalità mimetica, quelle in cui ognuno copia il prossimo nei suoi desideri al punto di cadere nel suo doppio mostruoso. La lingua francese ha la stessa parola, envie, per designare due moti diversi dell'animo, desiderio e invidia, ma contigui nello sviluppo dall'uno all'altro, e l'Antico Testamento costruisce l'edificio della pace sociale di una comunità sul tenersi lontano dalle situazioni in cui, desiderando secondo un modello, si finisce per esserne gelosi."Non desiderare la roba d'altri" esorta il comandamento a titolo di prevenzione, dopo di che, se non viene rispettato, può succedere di tutto: contagio mimetico di invidie, gelosie, violenze, vendette, ritorsioni, rappresaglie. Precipitata in una situazione di "tutti contro tutti", di perdita di diversità, una vera peste sociale, la comunità contaminata non ritrova l'equilibrio e l'ordine, la cultura con le sue gerarchie, le sue leggi, le sue differenze e le sue trascendenze, se non quando i suoi componenti non si accordano di girare la violenza che li domina scaricandola su di uno, ritenuto responsabile di averla attizzata. Alla luce di questa considerazione - un ritorno al passato equivalente a quello cercato da Lombroso nell'atavismo - definire oggi la percezione che si ha della scienza del medico veronese vuol dire constatare come egli abbia cercato l'invisibile e l'inconoscibile del crimine senza accorgersi di come, invece che nelle stigmate del delinquente, erano da trovarsi nei testi della letteratura, dai vangeli ai romanzi, dove giacevano da tempo purché li si leggesse con spirito antropologico. Il fatto è che la cultura positiva e comparativa aveva degradato i testi evangelici alla stregua dei miti, impedendo che se ne vedesse la lezione di antropologia mimetica che contenevano. Soltanto una lettura sacrificale e non cristiana del crimine ha reso possibile di vedere nel delinquente una forma di regressione atavica. Come la cultura mitica persecutoria vede nel gonfiore del piede di Edipo il segno e la stigmate della supposta colpa commessa verso padre e madre e ne fa la vittima responsabile della peste di Tebe, come le persecuzioni medioevali individuano nel gobbo, nell'ebreo, nella strega i segni dei soggetti da eliminare in quanto pericolosi, così la psichiatria somatica e organicistica, nel nuovo contesto capitalista borghese, rinnova e perpetua la tradizione di organizzare scientificamente gli smaltitoi in cui vanno a finire i segnati del nuovo proletariato. In questo senso si capisce perché Lombroso fosse tanto interessato all'arte dei pazzi. Nella minuzia dei dettagli, nelle proporzioni degli oggetti rappresentati, nell'assenza di prospettiva, nella predilezione degli arabeschi che contraddistingue quella forma d'arte, egli vedeva i segni di quella cultura simbolica di cui l'antichità era depositaria indicando nella vittima sostitutiva il primo simbolo della cultura nonché la formula metonimica del controllo della violenza. Giustamente viene illustrata a fondo la posizione assunta da Lombroso nei riguardi del delitto politico, levatrice del progresso sociale, principio che prefigura il trattamento riservato ai prigionieri politici di oggi. Ma anche qui emerge il desiderio di Lombroso di conciliare cose inconciliabili che risalgono alle contraddizioni della sua psichiatria. Da una parte il fondamento violento della cultura, che egli non riesce cogliere a pieno, incapace di liberarsi dal vincolo dell'atavismo, dall'altra il bisogno di emancipazione cristiana che non si può esprimere organizzando quei luoghi di abbandono dei rifiuti delle carceri che erano i manicomi criminali. Alla fine, sempre alla ricerca della formazione delle idee simbolo della nostra cultura, Lombroso si affida alle scoperte dello spiritismo, del magnetismo, del sonnambulismo, e come disse un suo collega, secondo il quale "sarebbe stato interessante poter provocare in me stesso qualche fenomeno di delirio", partecipa a esperimenti e assiste a spettacoli medianici. Se invece dell'insolito avesse osservato di più il quotidiano, forse sarebbe riuscito a cogliere nell'uomo mimetico quelle "attività non consce" che aveva tanto cercato senza trovarle. Un doveroso accenno anche al testo del professore Pier Luigi Baima Bollone. Se non altro per l'inquadramento dato alla materia storica da lui trattata, inserendola nel fenomeno impressionante e crescente del crimine, una attività che non conosce crisi. In secondo luogo per l'excursus dedicato alla storia della medicina antica e medioevale fino all'individuazione dell'infermità mentale e della fisiognomica dedicata all'aspetto del malato. Da notare poi le pagine riguardanti il filone del razzismo antisemitico a cui si aggiungono quelle di Delia Frigessi, secondo le quali gli scritti lombrosiani sull'atavismo sono serviti al razzismo "interno" nazista bisognoso di un fondamento scientifico che lo orientasse nell'individuazione dell'anormale da incolpare al fine di ritrovare la concordia.

Delia Frigessi, Cesare Lombroso Dall'Antropologia Criminale alla Criminologia, Einaudi, pp. 426, e 34 Pier Luigi Baima Bollone, G. Giappichelli Editore Torino pp. 345, e 30.00