lunedì 15 settembre 2003

***la recensione di Buongiorno, notte sul Domenicale del Sole 24ore del 14.9.03

(ricevuto da Elio)

il Sole 24 Ore - Domenicale - 14 settembre 2003
‹‹Buongiorno, notte›› di Marco Bellocchio è un viaggio nelle motivazioni di una generazione in rivolta
Moro, un padre da uccidere
di Roberto Escobar


‹‹Sarebbero capaci di uccidere la loro madre››, dice Ernesto (Pier Giorgio Bellocchio) a Chiara (la brava Maya Sansa). Il soggetto di questa frase terribile sono i complici di Chiara, che da settimane tengono prigioniero Aldo Moro (Roberto Herlitzka). Proprio questo fa l’Alessandro di I pugni in tasca (1965): uccide la propria madre, e con lei taglia le proprie radici. In quel suo primo e grande film Marco Bellocchio raccontava la rivolta di una generazione, e insieme metteva in scena quella che, allora, si usava chiamare dissoluzione della società borghese. Lo faceva, ancora, attraverso la metafora della malattia di una famiglia, e anzi della famiglia, che di quella società sembrava all’esprit du temps l’istituzione più avvelenata.

Sono dunque tristi eredi di Alessandro i terroristi che Bellocchio osserva in Buongiorno, notte (Italia, 2003, 105’)? Non è forse il padre quello che processano e uccidono, processando e uccidendo Moro? La domanda segna, almeno in parte, il cuore e il valore del film. Li segna nel suo lato biografico, e li segna anche in quello più strettamente cinematografico. Se Bellocchio può scrivere e girare un’opera tanto leggera e diretta, e insieme tanto profonda e tenera, lo deve alla rabbia espressiva d’allora, a quella sua affilata crudeltà di immagini.

In questo senso, I pugni in tasca si "compie" oggi, quarant’anni dopo. Oggi, infatti, la sua antica rabbia crudele è arrivata a maturità. Era esteriore, urlata e perentoria come uno slogan, e s’è fatta interiore, quieta, meditata. Alla furia apodittica della verità ha sostituito la fatica e il coraggio del discorso, della parola e dell’immagine che attraversano le esperienze, e che se ne lasciano volentieri mutare. C’è però qualcosa che da allora non è cambiato, in Buongiorno, notte, e che il tempo ha reso anzi più sicuro, più; netto. Lo sguardo di Bellocchio ha ancora la stessa crudele sincerità del suo Alessandro, solo alleggerita e resa più intelligente da una nuova – e certo a lungo cercata – capacità di riflessione, di apertura alla molteplice complessità della vita.

Nel 1965, Alessandro faceva di quello sguardo uno strumento di morte, che dirigeva contro se stesso mentre lo dirigeva contro le proprie radici. Film dopo film, Bellocchio è arrivato a farne uno strumento di vita. Ma lo ha fatto non rinnegandone la memoria. Al contrario, le ha tenuto fede, e in questo modo ha tenuto fede a se stesso. In Buongiomo, notte, la metafora di I pugni in tasca – che, in quanto cinema, non è realtà, ma immaginazione –, quella metafora dunque s’è sciolta e manifestata proprio in uno sguardo: in quello finalmente trepido e commosso di Chiara alla fine del film.

Certo, quella metafora si è sciolta e manifestata anche nello sguardo ben diverso dei suoi complici (e di lei stessa, nella prima parte di Buongiorno, notte). Uno sguardo di ghiaccio, il loro: rigido, morto. Nelle loro biografie s’è appunto sciolta e manifestata una delle possibilità contenute nella rabbia e nella ribellione di Alessandro: la verità e lo slogan hanno ucciso il piacere e il coraggio del discorso, uccidendo così la loro intelligenza politica, oltre che morale. Serrati in una corazza ideologica e psicologica, quegli uomini possono uccidere la loro vittima solo perché essi stessi, i persecutori, sono morti, incapaci di ascoltare e, dunque, di comprendere e parlare. Così capita a ogni assassino in buona coscienza, a qualunque slogan affidi il proprio diritto storico a uccidere.

Chiara, invece, si trova a scegliere fra la morte e la vita. Non a caso, quando i complici giungono con il loro prigioniero, lei è materialmente presa fra due opposte possibilità: obbedire e cedere al suo ruolo di carceriera e assassina, oppure lasciarsi vincere dalla vita e prestare attenzione al figlio che una vicina le ha lasciato in custodia. In questa urgenza concreta, la macchina da presa la segue e la scruta, ponendo appunto "materialmente" la questione morale e individuale che la donna si deciderà poi ad assumere su di sé, soffrendola. La sua decisione avrà l’autonomia e la ricchezza umana e morale che mancano ai suoi complici.

Certo, tutto questo non è reale, ma immaginario. D’altra parte Bellocchio non è uno storico, ma un autore (il suo film, tra l’altro, ha il titolo di una sceneggiatura scritta da Ernesto). E dagli autori ci attendiamo ben più della realtà: ci attendiamo la capacità di illuminare mondi possibili, ma non per questo meno profondi. In ogni caso, quando – alla fine del film, e contro ogni realtà – Moro esce vivo dalla prigione, a noi piace immaginare che, giovane e crudelmente sincero come tanto tempo fa, Alessandro sorrida con lui.

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Luigi Paini:

La meglio gioventù ha trovato sul suo cammino l’orrore del terrorismo. Ne è stata lacerata, perdendo per sempre l’innocenza. L’utopia si è fatta incubo, con il dolore inflitto agli innocenti, in nome di un’ideologia nata come sogno di liberazione, naufragata nei lugubri riti di esseri demoniaci, autospossessati della propria soggettività.

Destino crudele, che ha disseminato l’Italia di stragi. Destino assurdo che pochi, prima di Marco Bellocchio, hanno avuto il coraggio di guardare in modo così profondo. Buongiorno, notte: il verso di Emily Dickinson (che suona in realtà "Buongiorno, mezzanotte") incarna l’atroce contraddizione della luce e del buio, della speranza e del male irreparabile. E sono gli occhi di una donna, la giovane bibliotecaria Chiara (Maya Sansa), quelli scelti dal regista per farci osservare e partecipare all’orrore del sequestro di Aldo Moro.

Chiara è una delle carceriere del presidente della Democrazia cristiana, una normalissima ragazza che, per motivi tortuosi e alla fine insondabili, ha scelto la lotta armata. Chiara e i suoi compagni sono diventati dei mostri, dei demoni, eppure non se ne rendono conto. Certi di avere un compito storico da portare avanti, proseguono senza indugi nel loro sciagurato cammino. Ma Chiara comincia ad avere dei dubbi. Qualcosa di confuso, che appare soprattutto nei sogni, dove si mischiano epopee rivoluzionarie, ricordi infantili e barlumi di lucidità; qualcosa di viscerale, che si manifesta con le lacrime quando Moro legge il suo disperato messaggio a Paolo VI.

Bellocchio scava impietosamente, ci fa penetrare in quell’appartamento in cui si consuma il delitto, riapre ferite e domande dolorose. Con la lucidità dei Pugni in tasca, con il disincanto di L’ora di religione, con il rimpianto di un giorno che si è fatto vincere dalla notte.