lunedì 27 ottobre 2003

Class di ottobre

CLASS ottobre 2003, in edicola (€ 4,50)
con una fotografia di Massimo Fagioli

(ricevuto da Daniela Venanzi)

La psicoanalisi stimola o ditrugge la creatività? Per Bertolucci, Beckett o Fellini la terapia è stata una manna. Per Pasolini un Impaccio. E per Bellocchio...
SE IL GENIO FINISCE SUL LETTINO
di Alessandra Gaeta


Dopo anni di crisi creativa, Marco Bellocchio ha rotto il sortilegio l'anno scorso con L'ora di religione, considerato il miglior film italiano della passata stagione. Un successo bissato con il recente Buongiorno, notte.
Il regista, presente al Festival di Venezia, si è visto sfuggire il Leone d'oro, ma un premio più importante l'ha ottenuto: ha vinto su se stesso. Sul suo modo, cioé di essere uomo e artista chiuso, isolato e complesso, che lo ha costretto per anni a vivere nella penombra. Oggi, a sessant'anni compiuti, Bellocchio gode di una seconda giovinezza creativa: «Sento di avere raggiunto una maggiore libertà e se oggi sono quello che sono è anche grazie a un'esperienza che, al contrario di quello che molti hanno spesso sostenuto, non mi ha né soffocato né distrutto.
L'esperienza di cui parla Bellocchio è il suo rapporto con Massimo Fagioli, lo psicoanalista che lo ha aiutato a superare la depressione e che lo ha seguito fino al 1996, dopo dieci anni di terapia di gruppo. Il sodalizio tra i due era stato lungamente criticato da stampa e pubblico: in molti disapprovavano l'eccessivo coinvolgimento dell'analisi nella sua vita artistica e, dopo la partecipazione di Fagioli alla sceneggiatura del Diavolo in corpo, si era parlato di una vera e propria sopraffazione sul regista da parte del terapeuta. Bellocchio ha sempre respinto queste critiche, sostenendo che l'analisi aveva in realtà rivitalizzato la sua freschezza espressiva.

Sull'influenza, positiva o negativa della psicoanalisi sulla creatività possono testimoniare la loro esperienza personaggi come Bernardo Bertolucci, Federico Fellini, Gabriele Lavia, Ferdinando Camon, Andrea Zanzotto, Giorgio Manganelli, Umberto Saba, Woody Allen, Hermann Hesse, Samuel Beckett e molti altri scrittori, registi, attori, poeti e artisti. «L'analisi è un allenamento all'espressione», sostiene lo scrittore Ferdinando Camon, paziente di Cesare Musatti. «Chi passa la vita a scrivere, cioè a esprimere non può convivere con la repressione». Ecco dunque spiegati i motivi di tanta affluenza negli studi psicoanalitici da parte di personalità creative.
Per Sigmund Freud, l'uomo felice non fantastica, solo l'insoddisfatto lo fa. Secondo il padre della psicoanalisi, l'insoddisfatto è colui che isola e segrega nella propria interiorità le sue fantasie e i suoi sogni per paura di esternarli. La primitiva libertà di fantasticare di un bambino non è concessa all'adulto perché da lui non ci si attende più che continui a giocare, quindi a fantasticare, ma che agisca nella vita reale. Una tale segretezza di sentimenti, a lungo andare, provoca l'insorgere di nevrosi, dalle quali si può guarire solo confessando su un lettino i propri desideri insoddisfatti, che Freud chiama «le forze promotrici delle fantasie».
«Quando Samuel Beckett si presentò al dottor Wilfred Ruprecht Bion, aveva pesanti sintomi di angoscia, che egli stesso descrisse nella prima seduta: palpitazioni, aritmie cardiache, sudori notturni, tremito, panico, senso di soffocamento e, negli attacchi più acuti, paralisi totale». Nella sua biografia su Beckett, lo storico James Knowlson dà ampio spazio alla terapia dello scrittore e al suo rapporto con lo psicoanalista Bion. Grazie all'analisi riduttiva, un metodo che mira a scoprire i legami dinamici tra sintomi e cause scatenanti maturati nel passato, il drammaturgo dublinese riuscì a controllare alcuni dei suoi impulsi psichici più devastanti (frustrazione e violenza repressa) ma soprattutto a utilizzare fruttuosamente il suo solipsismo nel lavoro creativo.
Anche diversi grandi scrittori italiani si sono rivolti alla psicoanalisi. Umberto Saba, per esempio, dopo una forte depressione, ricorse all'allievo di Freud, Edoardo Weiss, che ebbe in cura anche Italo Svevo. Allo psicoanalista triestino, Saba dedicò 11 piccolo Berto, rac c opto fortemente caratterizzato da elementi freudiani, che interruppe un suo periodo di stasi creativa.
Un'esperienza analoga l'ha vissuta il poeta Andrea Zanzotto: dopo due anni di terapia, che lo hanno aiutato a stemperare angosce e fobie, è diventato un cultore della psicoanalisi. L'influenza di Lacan è stata fondamentale nella sua opera: «Tutto il formicolio di idee, incroci e ibridazioni lacaniane uri ha certo insegnato qualcosa, ed è stato all'orizzonte del allo fare», dichiara Zanzotto, «ma nello stesso tempo ho avvertito la necessità di prendere distanza da questo inghippo che aveva, insieme, l'aspetto roseo del surrealismo e l'aspetto negromantico di un certo tipo di esistenzialismo».
Uno dei più illustri allievi di Jung fu il tedesco Ernst Bernhard, che ebbe in cura il fior fiore del inondo intellettuale italiano. Esule volontario dalla Germania per il dilagare del nazismo, guidato da un sogno premonitore raccontato a Jung , riparò in Italia nel 1938. Nel dopoguerra riceveva nel suo studio romano di via Gregoriana 12, a Trinità dei Monti, Natalia Ginzburg, Bobi Bazlen, Giorgio Manganelli e Federico Fellini. Quest'ultimo, dietro consiglio dello psicoanalista tedesco, iniziò a tenere un diario dove riportava, sotto forma di disegni, tutti i suoi sogni. Quando Bernhard morì, Fellini gli dedicò Il viario di G. Mastorna, il soggetto di un film che però non riuscì mai a girare, ma che realizzò come libro a fumetti con l'aiuto di Milo Manara.
Anche il grande Alfred Hitchcock consacrò alla psicoanalisi vari film, tra i quali lo ti salverò, un giallo incentrato sui disturbi della niente, che nacque per volere del produttore David Selznick, da anni paziente freudiano, e dallo sceneggiatore Ben Hecht, anch'egli frequentatore di uno studio psicoanalitico.
Al teorico della comunicazione intrapsichica Franco Fornari deve molto invece Gabriele Lavia: a seguito dell'incontro con Fornari, il suo modo di accostarsi al teatro è molto cambiato: «La sua teoria koinemica mi aveva affascinato», spiega l'attore e regista teatrale, «per Fornari all'interno del linguaggio parlato intervengono unità di comunicazione intrapsichiche che possono essere anche inconsce, vuoi per chi parla, vuoi per chi ascolta. Bisogna riuscire a trovarle e a decodificarle per capire il piano psicologico a cui fare riferimento. I famosi koineimi sono nove: il padre, la madre, il bambino, gli organi sessuali, la castrazione, la nascita, la morte, il proprio corpo e la nudità. Essi determinano il ruolo o i ruoli che di volta in volta assumono colui che parla e colui che ascolta. La teoria ha la sua applicazione nel dialogo, nelle parole. E che cos'è il teatro se non dialogo, parole, gesti?».
Nonostante le innumerevoli testimonianze sugli effetti benefici della psicoanalisi nella vita creativa, sono molti gli artisti che la guardano con sospetto. Uno dei motivi principali, come spiega il filosofo Umberto Galimberti, è «la paura di ricordare e la ripetizione interiore dei conflitti traumatici del passato. Ma anche il timore di perdere il genio creativo». Eh, già. Saul Bellow ha confessato di aver dovuto interrompere l'analisi perché non riusciva più a scrivere una sola parola. Più traumatica è stata invece l'esperienza di Pier Paolo Pasolini, in cura da Cesare Musatti, raccontata dal suo amico Ferdinando Camon: «Pasolini resisté poche sedute, poi urtò contro il problema dell'omosessualità: Musatti lo portava ad affrontare l'omosessualità come cultura, Pasolini voleva lasciarla da parte come natura, e alla fine, piuttosto di entrare in crisi, si ritirò. La sua analisi finì e con essa, ne sono convinto, cominciò a finire la sua vita. Oso pensare che, se avesse continuato, oggi, forse, sarebbe qui». Ma qui, oggi, non c'è neppure una delle dive più amate del cinema, Marilyn Monroe. Non sono bastati cinque psicoanalisti (Anna Freud, Margaret Herz Hohenber, Marianne Rie Kris, Ralph S. Greenwood e Milton Wexler) per evitarle una tragica sorte. E non solo l'analisi non l'ha liberata dalla sofferenza, ma i periodi più intensi delle sue varie terapie coincidono con le sue peggiori interpretazioni cinematografiche.
«Lo avevo detto io!», potrebbe gridare Vladimir Nabokov, uno dei più intransigenti critici di Freud e di qualsiasi tipo di psicoterapia. per lo scrittore russo, infatti, si tratta solo di < operazioni sciocche e disgustose che non potrei prendere in considerazione nemmeno per scherzo. Il freudismo, e tutto ciò che ha contaminato con le sue implicazioni e i suoi metodi grotteschi, mi sembra uno dei raggiri più ignobili che la gente possa praticare su se stessa e sugli altri. Lo respingo in blocco, insieme ad alcuni altri ingredienti medievali tuttora adorati dagli ignoranti, dai conformisti o dai malati gravi». Come dirlo a Woody Allen che dell'analisi ha fatto uno stile di vita e di lavoro?
Tra entusiasti e detrattori, però, si possono trovare anche delle vie di mezzo. Ambivalente e ricco di alti e bassi, per esempio, il rapporto tra due giganti della cultura del Novecento: Hermann Hesse e Carl Gustav jung. Lo scrittore che ha combattuto tutta la vita con diversi problemi personali e disturbi psicosomatici, trascorse nel 1916 un soggiorno di cura nella clinica Sonnmatt presso Lucerna, sottoponendosi a trattamento psicoterapeutico con Joseph B. Lang, discepolo di Jung. Attraverso di lui conobbe meglio le opere del padre della psicologia analitica, prima Trasformazione e simboli della libido e poi altri libri. Hesse continuò a leggere i saggi di Jung per alcuni anni, finché fu interessato alla psicologia del profondo. Si arrivò poi anche a incontri tra lo psicoterapeuta di Zurigo e lo scrittore che risiedeva a Montagnola. Jung riconosce che Hesse ha fatto proprio ed elaborato il suo pensiero in alcuni romanzi come Derniau, Siddharta, Il lupo della steppa e Narciso e Boccadoro.
Col tempo, però, il legame tra i due si allenta ed Hesse comincia ad avere seri dubbi sull'utilità dell'analisi nel processo creativo. Lo scrittore, in una lettera all'amico Emanuel Meier, ricorda un'impressione di quando, agli inizi degli anni 20, tenne una conferenza al Club di Zurigo e fece alcune sedute terapeutiche con Jung: «Fu allora che cominciai a capire che per gli analisti è davvero impossibile avere un rapporto autentico con l'arte, mancano tutti dell'organo necessario».